di Stefano Vernole
Per capire le difficoltà economiche dei nostri giorni, niente di meglio che riportare quasi integralmente le considerazioni (tradotte dall’inglese) di un ex accademica, Laura Ruggeri, nata a Milano ma che vive ad Hong Kong dal 1997.
“Se vent’anni fa qualcuno avesse predetto una “rivoluzione colorata” a Hong Kong, la maggior parte degli analisti politici avrebbe riso. Non perché le “rivoluzioni colorate” siano ridicole – le loro tragiche conseguenze difficilmente possono essere ridicolizzate – ma perché tendono a verificarsi in Stati target con governance deboli alla periferia delle reti transnazionali. Hong Kong, d’altra parte, è uno dei primi 3 hub finanziari globali, dopo New York e Londra, e proprio al centro di queste reti. Sebbene Hong Kong, una regione amministrativa speciale della Cina, apparentemente non si adattasse al profilo di un obiettivo debole e maturo per il cambio di regime, il National Endowment for Democracy (NED) e altri famigerati sponsor di “rivoluzioni colorate” avevano già fissato i loro occhi sul territorio anche prima del 1997, quando la sua sovranità è tornata alla Cina. Mentre i tassi di crescita economica della Cina hanno fatto notizia negli anni ’90, gli argomenti della “minaccia cinese” hanno iniziato ad apparire nei media mainstream statunitensi e gli analisti degli affari esteri hanno iniziato a considerare la Cina come il “nuovo pericolo rosso”, una potenziale sfida alla supremazia globale degli Stati Uniti1.
Sebbene due decenni fa la guerra commerciale non fosse ancora scoppiata, chiunque osservasse il quadro geopolitico più ampio poteva vedere nuvole nere addensarsi.
In apparenza, Hong Kong dopo il ritorno alla Cina stava andando molto bene, ma se si graffiava la superficie lucida tipicamente associata ad un centro economico e finanziario internazionale, si poteva immediatamente vedere che questa efficienza mascherava problemi molto più profondi. Hong Kong aveva certamente buoni amministratori, ma non molti politici che potevano veramente governare una città ancora politicamente immatura a causa della sua eredità coloniale e dominata da interessi e cartelli. Il modello sperimentale “Un Paese due sistemi” era ancora in fase di perfezionamento e pochi progressi erano stati compiuti verso la decolonizzazione delle istituzioni di Hong Kong, soprattutto, delle menti dei suoi cittadini. A quanto pare, il processo di creazione di un senso di identificazione e lealtà verso la Cina era ancora agli inizi. Al contrario, gli attori transnazionali, in particolare le chiese, le ONG e le reti di difesa considerate dagli Stati Uniti come “vettori di influenza” e “catalizzatori di democratizzazione”, erano ben radicati nella società civile di Hong Kong. Lavorando di concerto con i media locali sponsorizzati dagli Stati Uniti e con i partiti pro-democrazia, hanno sottoposto sia la Cina che il governo locale a critiche costanti, sfruttando le lamentele interne per approfondire le spaccature nella società e ottenere il tipo di polarizzazione partigiana e ideologica che avrebbe reso Hong Kong ingovernabile.
Se il governo locale avesse riconosciuto e definito i rischi, sarebbe stato in grado di riconoscere uno schema in una serie di eventi apparentemente casuale. Tutto quello che doveva fare era raccogliere informazioni e abbinare le informazioni ricevute con ciò che era già noto sulle “rivoluzioni colorate” e sulla loro genesi.
Purtroppo il governo di Hong Kong era troppo impegnato a rassicurare i partiti di opposizione (la cui fedeltà agli Stati Uniti non è un mistero) e quell’entità immaginaria nota come la “comunità internazionale”, che la Cina non stava minando l’autonomia di Hong Kong, per notare effettivamente la gravità della situazione.
I legislatori di Hong Kong non hanno riconosciuto che la fattibilità politica di “Un Paese due sistemi” si basa in ultima analisi sulla stabilità della nazione, senza la quale qualsiasi discorso sui due sistemi diventa assurdo. La stabilità del sistema non è mai un dato di fatto, l’equilibrio deve essere mantenuto attraverso un equilibrio di forze. Quindi, quando i giocatori stranieri hanno iniziato a coordinare campagne volte a scuotere le basi di questo accordo costituzionale e ad ostacolare il processo di riassorbimento di Hong Kong nella sfera di governo cinese, la difesa della sovranità cinese avrebbe dovuto avere la precedenza su altre considerazioni. La mentalità “fai di meno, ottieni meno errori” spesso mostrata dai dipendenti pubblici e dai legislatori li ha resi poco preparati a risolvere gravi crisi e ad affrontare i problemi sociali. In particolare, il loro approccio di lavarsene le mani ha creato un vuoto pericoloso che poteva essere facilmente riempito da elementi e gruppi sovversivi con legami comprovati con il Governo degli Stati Uniti.
Chiunque abbia familiarità con le “rivoluzioni colorate” avrebbe riconosciuto il modello che stava già emergendo nelle campagne volte a screditare sia il Governo centrale che quello di Hong Kong. Il processo di sovversione ideologica è sempre sostenuto da una lenta penetrazione nelle istituzioni di un Paese bersaglio, i partiti di opposizione pur divisi formano magicamente un fronte unito, un piccolo esercito di volontari locali e agenti stranieri cooperano per promuovere quella che viene propagandata come “azione civica”, una rete di fondazioni e ONG si prepara a ricevere milioni di dollari, compaiono nuovi media.
I semi ideologici delle “rivoluzioni colorate” vengono seminati molto prima che i movimenti antigovernativi organizzino manifestazioni di massa e si impegnino in scontri violenti con la polizia. Questi semi possono essere dispersi in diversi modi ma possono crescere solo se cadono su un terreno congeniale, altrimenti rimarranno dormienti fino a quando le condizioni nel loro microambiente non saranno favorevoli. Il campo culturale non solo è perfettamente adatto alla germinazione di questi semi, ma è direttamente coinvolto nella loro moltiplicazione e distribuzione.
Per comprendere il cambio di regime sponsorizzato dagli Stati Uniti, dovremmo riconoscere la cultura e la teoria come armi cruciali nell’arsenale generale schierato per perpetuare gli interessi degli Stati Uniti in tutto il mondo e concepire un sistema di difesa culturale in grado di identificare il pericolo e neutralizzarlo. Consentire ad una potenza straniera di occupare il campo della produzione culturale, dominare il discorso pubblico e inquadrare la narrazione, equivale a dare un pass da ospite a uno scassinatore in casa. Ed è esattamente ciò che il governo di Hong Kong ha fatto per oltre vent’anni.
Gli avversari della Cina hanno operato indisturbati nella città, costruito roccaforti nei circoli accademici, raggiunte posizioni di potere e influenza nell’industria culturale, come dimostrerebbe anche una rapida occhiata al programma di un corso, al programma di un festival cinematografico o di una rivista letteraria.
Dal momento che Hong Kong non ha sperimentato nulla di simile alle lotte popolari per la liberazione dal dominio colonialista che hanno portato al rifiuto dell’identità coloniale in altri Paesi, è diventato presto chiaro che la costruzione di un’identità nazionale cinese dopo la consegna di Hong Kong avrebbe richiesto un sostegno coerente e concertato. Purtroppo è stato fatto molto poco a questo riguardo: quando il Governo britannico finì nel 1997, lasciò un’eredità tossica di istituzioni coloniali, funzionari pubblici formati in Gran Bretagna, una psiche collettiva danneggiata e precariamente tenuta insieme da un falso senso di superiorità verso la Cina continentale. Il tipo di capitale culturale che prometteva accettazione sociale e distinzione nella stratificata Hong Kong, la coscienza di classe borghese, era in gran parte costituito da beni materiali e simbolici provenienti dall’Occidente.
Hong Kong era, ed è tuttora, brulicante di educatori, accademici e operatori culturali che sono stranieri, istruiti all’estero o che comunque condividono una mentalità neocoloniale. Sono i baccelli dello sciame che vendono prospettive post-moderniste sul tema dell’identità, prospettive che respingono ogni articolazione dell’identità cinese come “essenzialista”, ridicolizzano l’idea dell’identità nazionale come obsoleta nell’era del “supermercato culturale globale” dove presumibilmente uno sa adottare e scartare fantasiose identità individuali in un batter d’occhio.
Nel 2000 Gordon Mathews, un antropologo americano che insegna all’Università cinese di Hong Kong, pubblicò un libro intitolato “Cultura globale / identità individuale” che divenne presto un testo canonico nel dibattito sull’identità postcoloniale di Hong Kong. Praticamente ogni articolo pubblicato successivamente su questo argomento ha attinto alla sua ricerca e alla sua argomentazione sottostante che le nostre radici sono semplicemente un’altra scelta di consumo.
Il passaggio di consegne di Hong Kong era avvenuto in un momento in cui il dominio degli Stati Uniti non era solo una questione di potenza politica, economica e militare, ma anche basato su un’egemonia culturale che doveva essere costantemente sostenuta e aggiornata attraverso i media e l’istruzione al fine di plasmare l’opinione pubblica. Il postmodernismo si è rivelato uno strumento eccezionalmente versatile e adatto per mantenere quell’egemonia. Le idee postmoderniste, nonostante tutte le loro rivendicazioni radicali e antiautoritarie, sono infatti perfettamente accettabili per una potenza imperiale che comprende come il suo governo è più sicuro quando può frammentare l’identità della sua opposizione e più vulnerabile quando deve affrontare un fronte unito.
Non è una semplice coincidenza che negli anni ’80 la CIA abbia mostrato un vivo interesse per il postmodernismo francese e lo abbia considerato la migliore difesa contro il marxismo. Dopotutto, una narrazione che mette in discussione la distinzione tra fatti e opinioni, verità e finzione e considera la ragione con scetticismo si adatta perfettamente agli interessi di un Paese che vende fiction con successo negli angoli più remoti del mondo grazie alle sue industrie dell’educazione, dei media e dell’intrattenimento. L’assurda e tuttavia convincente rappresentazione degli Stati Uniti come bastione di libertà, democrazia e diritti umani è una testimonianza del potere di queste industrie.
Paradossalmente, gli stessi intellettuali che avevano analizzato il concetto di identità nazionale e l’hanno respinto come tossico, hanno rifiutato di sottoporre la santissima trinità di “libertà, democrazia e diritti umani” a qualsiasi tipo di esame razionale. I vecchi scettici e relativisti divennero presto difensori dogmatici di assoluti etici che, trascendendo ogni specificità culturale, storica e politica, sono diventati effettivamente i principi fondanti di una nuova teologia.
Essi dimenticano convenientemente che i filosofi discutono da secoli del concetto di libertà e che, anche all’interno della stessa tradizione filosofica, la sua interpretazione varia notevolmente. Ignorano inoltre il fatto che non esiste una definizione concordata di democrazia nel diritto internazionale e non prestano attenzione alle culture dei diritti locali che hanno preceduto di secoli il movimento internazionale per i diritti umani.
La cosa più preoccupante è che questi concetti fungono da contenitori vuoti, che possono essere riempiti con qualsiasi contenuto ritenuto utile per mascherare l’imperialismo statunitense.
Gli Stati Uniti hanno iniziato a gettare le basi per una “rivoluzione colorata” ad Hong Kong anche prima del passaggio di consegne del 1997: i finanziamenti della NED per i gruppi con sede a Hong Kong risalgono al 1994 e tutto ciò è stato descritto come “coerente” da Louisa Greve, vicepresidente dei programmi per l’Asia, Medio Oriente e Nord Africa fino al 2017. Il suo primo obiettivo strategico era impedire l’emanazione di una legge sulla sicurezza nazionale (articolo 23) a Hong Kong, in quanto ciò renderebbe effettivamente illegali le attività della NED e di altre organizzazioni finanziate dall’estero.
Quando nel 2003 il Segretario alla Sicurezza della Regina d’Inghilterra annunciò un disegno di legge per attuare l’articolo 23, come se fosse stato necessario, mezzo milione di persone marciarono contro la proposta del governo, la signora Ip divenne l’obiettivo di una campagna di denigrazione coordinata che la costrinse a dimettersi dalla carica e il disegno di legge fu infine ritirato.
Allora, perché così tante persone sono scese in piazza per opporsi all’articolo 23, anche se non ha avuto alcun impatto sulle loro vite, non ha violato la loro libertà di espressione e riunione? Perché il settore legale, inclusi gli avvocati e i professori di legge, ha denunciato con tanta veemenza una legge che è standard in molte giurisdizioni, comprese le società più liberali e democratiche?
Inoltre, nemmeno una frazione di quei manifestanti potrebbe essere descritta come politicamente attiva, ad esempio essi non avrebbero marciato per difendere i diritti dei lavoratori, non avrebbero chiesto un salario minimo o il diritto di respirare un’aria più pulita, come evidenziato dalla scarsa partecipazione delle precedenti manifestazioni.
Come potrebbe il Civil Human Rights Front, una coalizione di ONG, chiese cristiane, trotskisti, piccoli sindacati e partiti di opposizione mobilitare centinaia di migliaia di persone contro l’articolo 23? Qual era il collante che teneva insieme questi gruppi disparati?
Una paura irrazionale della Cina e la sfiducia nel suo governo e nelle sue istituzioni potrebbero aver contribuito, poiché in gran parte inquadrano la narrativa dei media mainstream sulla Cina, ma il sentimento anti-cinese coltivato in epoca coloniale poteva rimanere dominante solo in ambito politico, giudiziario e nei circoli culturali dopo il 1997 grazie all’approccio liberal-liberista delle autorità locali e agli sforzi incessanti di agenti stranieri e quinte colonne nascoste tra gli editorialisti. Il loro compito era far naufragare il modello di governo “Un Paese due sistemi” e contrastare qualsiasi aumento di sentimenti patriottici nei confronti della Cina. Se questo modello fallisse a Hong Kong, gli Stati Uniti raggiungerebbero anche un altro obiettivo strategico a costo zero, perché Taiwan non sarebbe tentato di adottarlo in futuro”.
Nel 1999, l’incontro casuale della dr.ssa Laura Ru con un conoscente britannico che non vedeva da molti anni la mise nella posizione non invidiabile di osservare i metodi e le tattiche di un “agente del cambiamento” della NED in un momento in cui si sapeva molto poco delle “rivoluzioni colorate” sponsorizzate dagli Stati Uniti. Poiché vivevano molto vicini gli uni agli altri e condividevano alcuni interessi, la Prof.ssa Ru ha avuto l’opportunità di osservare il modo in cui questo conoscente e altri agenti operavano per portare a termine gli elementi legali delle operazioni illegali di cambio di regime. Dopo aver conseguito la laurea in lingua cinese e scienze politiche presso la SOAS University di Londra, all’agente era stato offerto uno stage retribuito a New York presso una ONG chiamata Human Rights in China, finanziata principalmente dalla NED e dall’Open Society Institute di Soros. Dopo essere stata nominata Direttrice della ricerca, nel 1997 è stata inviata ad Hong Kong dalla stessa ONG. Di solito la conoscente della Prof.ssa Ru era evasiva nei confronti dei suoi datori di lavoro e preferiva presentarsi come studentessa Ph.D alla Columbia University per proseguire la sua ricerca accademica nel campo legale dei diritti umani. Come ricercatrice ha ottenuto l’accesso alle università di Hong Kong e presto ha iniziato a collaborare con il Center of Comparative and Public Law e con il nuovo Master in Legge dei diritti umani presso HKU. Come spiega la stessa Laura Ru: “È stata autrice di numerosi articoli insieme ai critici più accesi del Governo centrale cinese, inevitabilmente designato come un “regime autoritario e oppressivo” in studi incentrati su Tibet, Xinjiang e lavoratori migranti, e ha contribuito a facilitare gli scambi accademici tra le università statunitensi e HKU junior ricercatori e professori, che sono stati spesso premiati con inviti a conferenze, pubblicazioni, programmi estivi, borse di studio, ecc. Gli studenti che si occupavano di diritti umani divennero cospicui nel dipartimento e dopo pochi anni raggiunsero posizioni influenti. Si potrebbe dire che la sua conoscente stava attivamente reclutando e preparando accademici per creare una massa critica di nemici della Cina all’interno del Dipartimento di Giurisprudenza. Un altro passo importante è stato quello di stringere legami con leader della comunità, attivisti, giornalisti e ONG attraverso i workshop di Street Law offerti dal Center of Comparative and Public Law. Non sorprende che tra gli sponsor finanziari di questi seminari il Consolato degli Stati Uniti ad Hong Kong abbia un posto di rilievo. Poiché il confronto politico violento e le attività antigovernative spesso sfociano in procedimenti legali, gli sponsor della “rivoluzione colorata” dovevano assicurarsi che ci sarebbero stati abbastanza avvocati pro-bono per difendere gli attivisti, abbastanza studi legali per contestare l’emanazione da parte del governo dell’articolo più dibattuto della Legge fondamentale e per promuovere i valori liberali occidentali. In questa luce possiamo leggere la consulenza legale e il supporto che hanno offerto a gruppi minoritari come le organizzazioni per i diritti LGBT. Sostenere il matrimonio tra persone dello stesso sesso è un buon esempio di come questi difensori dei diritti umani mettano il governo locale in un doppio imbarazzo: se non soddisfacesse le loro richieste di matrimonio tra persone dello stesso sesso, sarebbe considerato intollerante, oppressivo e arretrato, se lo facesse, la maggioranza dei cittadini che hanno opinioni conservatrici su questo argomento si sentirebbe alienata.
Per preparare una “rivoluzione colorata”, di solito viene creata una rete di fondazioni interconnesse e di beneficenza per mettere in moto migliaia di persone attraverso corsi di formazione, seminari, lezioni pratiche condotte da specialisti legali e dei media. E questo è stato anche il caso di Hong Kong. Un instancabile “agente del cambiamento” strettamente associato a questa conoscente britannica è il direttore del LLM in Human Rights Program presso l’Università di Hong Kong, un cittadino statunitense. Ha fatto parte dei consigli di amministrazione di diverse organizzazioni tra cui il Centro di consulenza per i rifugiati di Hong Kong (in qualità di ex presidente), il Centro per la giustizia di Hong Kong e Amnesty International (Hong Kong) e fornisce consulenza all’Hong Kong Human Rights Monitor su una serie di questioni. Applaudendo i manifestanti che tenevano in ostaggio la città, ha dichiarato: “Lo stato di diritto non richiede l’obbedienza incondizionata alle normative esistenti; infatti, la difesa dello Stato di diritto può talvolta richiedere la violazione delle regole”. Ci si può solo chiedere se incoraggerebbe i suoi compatrioti a infrangere le regole a casa loro.
La conoscente britannica e il suo amico americano erano anche strettamente associati a uno dei membri del consiglio del Center of Comparative and Public Law dell’HKU, il professor Benny Tai Yiu-ting, che è stato Associate Dean della Facoltà di Giurisprudenza dal 2000 al 2008. Nel 2014 è stato uno degli iniziatori del movimento illegale Occupy Central, alias Umbrella Movement, e successivamente è stato condannato e incarcerato per istigazione. Il ruolo di primo piano svolto dagli esperti legali nel minare l’autorità governativa, diffondere propaganda anti-cinese, organizzare proteste e istruire gli attivisti si riflette nella sovvenzione di 460.000 dollari che hanno ricevuto dalla NED. Il rapporto annuale NED del 2012 afferma che lo scopo del denaro era quello di promuovere la consapevolezza riguardo alle istituzioni politiche di Hong Kong e al processo di riforma costituzionale e di sviluppare la capacità dei cittadini – in particolare gli studenti universitari – di partecipare in modo più efficace al dibattito pubblico sulla riforma politica”2.
Venti anni fa la sua conoscente non solo era attiva nel cluster sovversivo che stava crescendo di dimensioni presso il Dipartimento di Legge HKU, ma stava anche utilizzando il suo legame con il dipartimento come credenziale per avvicinarsi a gruppi politici e organizzazioni della società civile. Usando la solita parola in codice “diritti umani” si è trasferita con facilità da gruppi cristiani come il Consiglio cristiano delle donne di Hong Kong a un collettivo trotzkista chiamato April Fifth Action Group, guidato da “Longhair” Leung Kwok-hung.
“Questo gruppo è stato generalmente liquidato come un gruppo di personaggi politicamente marginali e ridicoli più noti per atteggiamenti e urla senza senso nei loro altoparlanti che per la loro capacità di far capire il loro punto di vista in modo coerente. In privato anche lei scherzava sui loro limiti intellettuali, ma li allenava con lo zelo di una missionaria. In ogni caso il suo allenatore ha ottenuto alcuni risultati, poiché Leung Kwok-hung, con la sua maglietta di Che Guevara, è stato eletto al Consiglio legislativo nel 2004. Vale la pena notare che sia il suo gruppo che i vari cristiani con cui aveva “stretto amicizia”, sono stati tra i fondatori del Civil Human Rights Front, la coalizione di ONG, gruppi civili e religiosi, partiti pro-democrazia che nel 2003 ha mobilitato mezzo milione di persone contro l’articolo 23 della Legge fondamentale. Una dimostrazione così su larga scala, insolita per Hong Kong, è stata la risposta ad una minaccia che era stata attentamente prodotta e amplificata dalle forze anti-cinesi che formavano questo fronte. Ormai sappiamo che il National Endowment for Democracy, attraverso il Solidarity Center (SC) e il National Democratic Institute (NDI) tra il 1995 e il 2013, ha iniettato oltre 1,9 milioni di dollari nelle casse di questa coalizione.
Il ruolo dei trotskisti nel consentire all’Occidente di creare contatti con i membri dell’opposizione nei Paesi del blocco sovietico negli anni ’80 è ben noto ed è stato studiato dagli storici. Sembra che abbiano ancora qualche utilità per Washington, così come i gruppi cristiani”3.
Per quanto riguarda l’instancabile attivismo della conoscente della dr.ssa Ru, esso è stato ben ricompensato finanziariamente: lei e il marito disoccupato potevano vivere comodamente in una delle città più costose del mondo e fare un volo tra Hong Kong, New York e Londra. Quando la sua missione venne compiuta, le fu concessa una borsa di studio presso un’università della Ivy League che portò ad una prevedibile carriera accademica: insegnando e scrivendo sui diritti umani e sui movimenti sociali in Cina.
Al momento della sua partenza, una rete di fondazioni e associazioni di beneficenza, think tank, gruppi educativi, artistici e culturali interconnessi aveva già iniziato a proliferare e poteva non solo fornire la logistica per il trasferimento di fondi agli attivisti, ma anche sponsorizzare visti di lavoro per cittadini stranieri e stabilire canali per reclutare membri locali. L’ultima ironia è che molte di queste organizzazioni e gruppi hanno persino richiesto e ricevuto sovvenzioni pubbliche per finanziare le loro operazioni di “potere morbido”. Hanno sottoposto migliaia di persone a corsi di formazione condotti da specialisti legali, educativi e dei media. Le loro campagne di pubbliche relazioni esperte nei media hanno ottenuto un grande successo anche prima che i social media entrassero nella mischia.
Conclude la Prof.ssa Laura Ru: “Il processo di sovversione ideologica a cui abbiamo assistito a Hong Kong ha richiesto capitale di avviamento, sia umano, culturale che finanziario. Una volta che i semi sono stati seminati, è estremamente difficile rimuovere le erbacce che strangolano questa società. Ci vogliono dai 15 ai 20 anni per demoralizzare una nazione. Perché tanti anni? Perché questo è il numero minimo di anni richiesto per istruire una generazione e ora non è possibile entrare in contatto con coloro che sono stati educati a odiare la Cina. Sono programmati per pensare e reagire a determinati stimoli secondo un determinato schema. Non puoi cambiare idea anche se li esponi a informazioni autentiche. Anche se dimostri che il bianco è bianco e il nero è nero, non puoi comunque cambiare la loro percezione e comportamento di base. I fatti non contano più, l’emozione è tutto. I baccelli dello sciame non sono diversi da un’eco-camera e dove creano gruppi il dibattito razionale diventa impossibile. Dobbiamo accettare che Hong Kong è nel mezzo di un conflitto civile profondamente radicato, del tipo che dura decenni.
In altre parole per queste persone il processo di demoralizzazione è completo e difficilmente reversibile. Ci vorranno altri 15 o 20 anni per educare una nuova generazione di cittadini patriottici che agiscano nell’interesse della Cina.
La Cina ha bisogno di un approccio diretto piuttosto che di manovra ad Hong Kong per accendere l’immaginazione delle nuove generazioni di Hong Kong e mobilitare le forze anticoloniali e antimperialiste. I quadri locali devono essere addestrati a sfruttare le contraddizioni del campo pro-democrazia la cui vuota retorica sulla giustizia sociale è sostenuta da una superpotenza imperialista governata da un’élite capitalista. La Cina non dovrebbe rifuggire dalla battaglia ideologica che si sta combattendo a Hong Kong: in quanto società più equa degli Stati Uniti, il modello cinese può fornire un’alternativa attraente all’ipocrisia del fronte neocolonialista, un’alternativa che non attira solo sull’orgoglio e sulla tradizione nazionale ma anche sulla storia rivoluzionaria del Partito comunista cinese. Anche durante la Lunga Marcia, pur affrontando molte difficoltà, Mao Tse-Tung attribuì grande importanza all’arte e alla letteratura, pienamente consapevole del ruolo svolto dalla cultura nel plasmare l’opinione pubblica. Per conquistare i cuori e le menti delle giovani generazioni è necessaria una mobilitazione del soft power non solo nei campi dell’istruzione e dei media, ma anche nelle cosiddette “culture marginali”, dove viene elaborata l’opposizione alle norme e ai valori culturali tradizionali”4.
E’ quindi evidente che a scendere in piazza sono stati soprattutto gli studenti universitari figli di una classe media dalla mentalità ancora coloniale e che probabilmente si trovano a metà strada tra un’élite cittadina ricchissima e un popolo minuto più preoccupato della stabilità e dell’ordine che delle loro rivendicazioni; essi soffrono anche della concorrenza degli studenti provenienti dal resto della Repubblica Popolare Cinese, spesso più brillanti di loro. Paradosso per paradosso, gli studenti di Hong Kong inneggiano alla “libertà” ma si battono contro la meritocrazia. Nel mondo dell’alta finanza l’assenza di estradizione verso Pechino in caso di guai giudiziari fa ovviamente comodo e ciò spiega perché buona parte dei mezzi d’informazione posseduti dai magnati locali abbia soffiato sul fuoco delle proteste anche quando esse sono divenute violente.
Esaminiamo ora brevemente alcune delle conseguenze economiche prodotte da questo tentativo di destabilizzare economicamente un sistema che, comunque, aveva garantito dal 1997 ad oggi un forte innalzamento del tenore di vita della popolazione di Hong Kong.
I grandi social media e motori di ricerca internet statunitensi, Facebook, Twitter e Google, la stessa Tik Tok, così come una delle più grandi società d’investimenti al mondo, Vanguard Group, hanno annunciato il loro disimpegno dal Porto Profumato, parzialmente compensati dal rafforzamento della presenza di Alibaba; la nuova Legge sulla sicurezza nazionale permette al governo di chiedere alle piattaforme sociali di eliminare i contenuti ritenuti illegali, rimuovere i profili di utenti e, in alcuni casi, di rispondere a richieste di “decriptaggio” delle comunicazioni.
I settori economici che maggiormente hanno sofferto a causa dei tumulti sono stati quelli legati al settore turistico e della ristorazione (calo dei voli e delle prenotazioni alberghiere, del trasporto pubblico, dei ristoranti, dei taxi …). Il reddito nazionale loro nel 2018 era di 50.310 dollari, nettamente in crescita rispetto ai 33.620 dollari del 2010; la speranza di vita nel 2017 era di 84,7 anni, significativamente più alta di quella degli Stati Uniti (78,5 anni), i sistemi di trasporto pubblici sono eccellenti e il sistema sanitario lautamente sovvenzionato dal governo di Hong Kong (la maggior parte dei servizi medici per la popolazione sono gratuiti)5. Il PIL di Hong Kong nel 2018 era pari a 2840 miliardi di dollari, più del doppio del valore del 1996. Oltre agli elevati prezzi degli immobili, una delle ragioni del malcontento della classe media è dovuto allora alla diseguale distribuzione del reddito; per non intaccare lo status di principale centro finanziario asiatico e quale eredità del periodo coloniale, il governo della S.A.R. non tassa il reddito dei dividendi. Gli oligarchi immobiliari di Hong Kong godono di straordinari profitti a fronte di rischi limitati: il 45% delle unità abitative è costituito da sole cinque compagnie, le quali per motivi speculativi evitano di mettere sul mercato circa 9,3 milioni di metri quadrati di spazi non utilizzati; da qui l’invito di alcuni analisti cinesi alla confisca dei terreni per costruirvi alloggi pubblici.
Nel novembre 2019, per la prima volta negli ultimi dieci anni, l’economia dell’Isola è entrata in recessione (crescita -9% nel 2020), costringendo il Governo di Pechino ad adottare un testo in cui si reputa necessario “istituire un solido sistema giuridico e relativi meccanismi di applicazione per salvaguardare la sicurezza nazionale nelle regioni ad amministrazione speciale”. Riprendendo in parte i suggerimenti riportati nell’articolo sopracitato, la Cina ha approvato il rafforzamento del sistema e dei meccanismi di nomina del capo esecutivo e dei funzionari più alti in grado, che dovranno essere persone leali alla Repubblica Popolare, mentre l’educazione patriottica verrà rinforzata nelle scuole ed università. Hong Kong dovrebbe quindi venire integrata nell’Area della Grande Baia, attorno alla provincia meridionale del Guangdong e a Macao, la cui interconnessione dovrebbe favorire l’innovazione scientifico-tecnologica dell’intera macroregione. Il Governo di Pechino ha inoltre emanato i “16 benefici per Hong Kong”, che includono nuove misure e nuove politiche per i suoi cittadini, riguardanti la possibilità di acquistare immobili in Cina godendo di incentivi fiscali, la facilitazione dei pagamenti mobili, il mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali, la promozione di partnership innovative …
L’art. 23 della Basic Law proibisce formalmente non solo ogni atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro la Repubblica Popolare Cinese ma anche il furto di segreti di Stato, misura tanto più opportuna in un momento in cui alcuni Paesi europei e gli Stati Uniti invitano alcune imprese facenti parte delle catene globali del valore ad uscire dal Porto Profumato: Washington vi conta una presenza di 1300 società medie e grandi nordamericane, per 82,5 trilioni di dollari in investimenti diretti. La messa in sicurezza della città può comunque consentire al Governo di Pechino di continuare la lotta alla corruzione intrapresa con decisione sotto la presidenza di Xi Jinping, vista la mole di capitali illeciti che sono stati riciclati da alcuni ambienti finanziari. Dopo l’adozione della Legge sulla sicurezza nazionale, l’indice Hang Seng della borsa di Hong Kong ha immediatamente ripreso a salire per 3 giorni consecutivi, segnando il maggior aumento da marzo, segnale della ritrovata stabilità e fiducia degli investitori.
La contrapposizione con l’Occidente mette la Cina di fronte ad una scelta ben precisa: è conveniente mantenere ancora una “zona cuscinetto” come Hong Kong o conviene tracciare subito la linea rossa che gli Stati Uniti e i loro alleati non devono superare? Washington ha tolto d’impaccio Pechino, prima con la promulgazione dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, una norma approvata con votazione bipartisan (all’unanimità, meno un voto) dal Congresso, il cui obiettivo è sostenere le proteste pro occidentali della città (28 novembre 2019), poi quando (il 14 luglio 2020) Donald Trump, ha revocato lo status speciale di Hong Kong a seguito delle “azioni oppressive” della Cina contro l’ex colonia britannica; contemporaneamente il Presidente USA ha firmato un disegno di legge approvato dal Congresso per penalizzare le banche che intrattengono rapporti commerciali con funzionari cinesi coinvolti nell’attuazione della nuova Legge sulla sicurezza nazionale. Le contro sanzioni decise da Xi Jinping nei confronti degli Stati Uniti, accelerano così la valorizzazione della posizione strategica ineliminabile ed essenziale di Hong Kong per il controllo del Mar Cinese Meridionale e in prospettiva di Taiwan; il dominio delle acque regionali rinsalderà ulteriormente l’abbraccio tra la Cina e una Russia sempre più inserita nel progetto della Nuova Via della Seta terrestre e marittima.
Il ruolo di Hong Kong quale centro di riferimento per l’internazionalizzazione del renminbi e per la minore dipendenza dal dollaro degli scambi internazionali della RPC, secondo un Rapporto della Banca d’Italia del 2016, sarebbe stato ridimensionato e parzialmente sostituito dalla negoziazione offshore della valuta cinese operata da Londra (Singapore, Taiwan, Parigi, Francoforte e Lussemburgo sono gli altri centri per i renminbi offshore). Gli yuan confluiscono ad Hong Kong attraverso transazioni tra le imprese e le loro filiali a Hong Kong, poi attraverso un meccanismo di riciclaggio viene permesso di investire in attività denominate in renminbi nella Repubblica Popolare Cinese. In questo modo gli investitori internazionali sono in grado di oltrepassare il controllo dei capitali della Cina ed effettuare operazioni finanziarie che altrimenti, se fatte direttamente, sarebbero proibite o soggette a limitazioni. C’è da dire però che i renminbi spostati tra la Cina e Hong Kong, lo fanno attraverso un sistema regolamentato e gestito dalla Banca di Cina, inoltre vi sono comunque restrizioni inerenti la quantità di valuta investibile (gli operatori di mercato vendono i renminbi transitati a Hong Kong in maniera diversa di quelli negoziati in Cina; quelli transitati da Hong Kong vengono indicati con la sigla CNH, quelli direttamente della Cina CNY). L’Hong Kong Interbank Clearing Limited (HKICL) fornisce in tempo reale il sistema di regolamento, effettua i servizi di compensazione del renminbi sull’Isola e ne facilita le transazioni in altri centri finanziari esteri. Lo scorso 22 settembre l’amministratore delegato di HKEX, Charles Li Xiaojia, ha però dichiarato che Hong Kong deve essere pronta a sostenere l’internazionalizzazione del renminbi (RMB); in occasione della RMB Fixed Income and Currency (FIC) Conference 2020, Li ha sottolineato che Hong Kong dovrebbe trarre vantaggio dall’essere un centro offshore per il renminbi e promuovere in modo proattivo l’internazionalizzazione della moneta cinese.
Se la capitalizzazione della borsa tra Hong Kong e Shangai appare simile, 3.900 miliardi di dollari la prima contro i 4.000 della seconda, bisogna rilevare (per le ragioni già esposte) come nel Porto Profumato prevalgano le imprese più grandi ed orientate all’estero, molto attive nel settore del terziario avanzato: banche, assicurazioni, telecomunicazioni, biotecnologie, tecnologie informatiche. Nonostante le proteste, l’economia di Hong Kong resta tuttora una delle economie più aperte del mondo e uno dei principali mercati azionari ed obbligazionari (tra il 2010 e il 2018 sulla sua Borsa sono stati effettuati il 73% delle quotazioni azionarie, il 60% delle emissioni obbligazionarie e il 26% dei prestiti sindacali di aziende cinesi rivolti ad investitori esteri; nello stesso periodo, il 64% degli IDE verso la Cina e il 65% di quelli cinesi verso l’estero sono transitati da Hong Kong)6. Il particolare equilibrio raggiunto dal sistema implementato da Pechino ha consentito alla Cina di mantenere il proprio settore finanziario parzialmente isolato e quindi inattaccabile dalla speculazione borsistica occidentale, mantenendo tuttavia l’opportunità di drenare capitali dal mercato internazionale. I grandi istituti bancari cinesi, che hanno quasi tutti almeno una sede ad Hong Kong, dal 2010 ad oggi hanno più che triplicato la propria capitalizzazione (1200 miliardi) e sono cresciuti maggiormente rispetto agli omologhi stranieri. Non bisogna tuttavia dimenticare che il dollaro dell’Isola è ancora rigidamente ancorato a quello statunitense da un apposito accordo valutario, per cui eventuali attacchi speculativi provenienti da Wall Street potrebbero creare turbolenze nei confronti dei 1700 miliardi di depositi bancari registrati nel 2018 (circa il 470% del Pil locale). Nel secondo trimestre 2020 i Governi stranieri hanno venduto obbligazioni di Stato americane per 500 miliardi di dollari, di questi un terzo era della Cina (da quando è entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio la RPC ha fatto salire la domanda di dollari e contestualmente diminuire il costo dei prestiti per gli USA). Al momento Pechino rimane il maggior detentore di titoli di Stato USA, con più di 1.000 miliardi di dollari, ma alla luce della rinuncia cinese agli strumenti finanziari denominati in dollari, la domanda di valuta americana registrerà un calo rendendo più complesso e costoso per gli USA finanziare il proprio deficit di bilancio.
Negli ultimi mesi alcuni funzionari cinesi hanno parlato della possibilità di rinunciare il più velocemente possibile alla dipendenza dal dollaro e di promuovere l’internazionalizzazione dello yuan. Inizialmente Fang Xinghai, vicedirettore della Commissione per la regolamentazione del mercato dei titoli di Stato, ha ammonito in merito al rischio di esclusione della Cina dal sistema finanziario basato sul dollaro e sul sistema di pagamenti internazionali SWIFT nel caso in cui si acuissero le tensioni tra Cina e USA. In un secondo momento timori analoghi sono stati espressi da Guo Shuqing, direttore della Commissione per la regolamentazione delle attività bancarie e assicurative. Infine, anche Zhou Li, ex vice-direttore del Dipartimento di relazioni internazionali del Comitato centrale di Pechino, ha sottolineato la necessità di sottrarsi tempestivamente al sistema finanziario basato sul dollaro. Nel 2019 la quota rappresentata dallo yuan nelle transazioni internazionali cinesi si è attestata a poco più del 19% e il volume principale in termini di commercio è stato rappresentato da transazioni eseguite in dollari ed euro. E’ evidentemente difficile rinunciare ancora al dollaro per le transazioni internazionali, specie per l’acquisto delle materie prime, ma pur sottolineando che le sanzioni ai danni della Cina potrebbero danneggiare gli stessi USA – stando ai dati dell’OMC, la Cina detiene il 13% dell’export mondiale e l’11% dell’import e se escludiamo il dollaro da una quota di transazioni così cospicua, si verrebbe a creare un vero e proprio shock all’interno del sistema finanziario statunitense – l’esperienza russa dimostra che, in caso di introduzione di restrizioni all’accesso al sistema finanziario statunitense, sarebbe relativamente semplice passare alle transazioni in euro. Ciò spiega perchè l’imprenditoria americana non sia ancora pronta ad una contrapposizione con il Dragone e anzi il mercato cinese si stia muovendo in direzione opposta. Infatti, l’anno scorso PayPal è diventata la prima società straniera a fornire servizi di pagamento elettronico in Cina, JP Morgan ha ottenuto l’autorizzazione a trasferire la propria attività nella Repubblica Popolare senza essere sottoposta ad alcun controllo, American Express è diventata la prima società straniera ad ottenere l’autorizzazione per svolgere attività legate a carte di credito sul suo territorio, mentre le agenzie di rating S&P Global e Fitch si sono approcciate con entusiasmo al mercato cinese7.
In conclusione, la Cina sta lavorando per posizionare lo yuan come valuta di riserva globale al posto del dollaro Usa, perché ciò senza dubbio migliorerebbe ulteriormente l’integrazione dei mercati dei capitali cinesi nel sistema finanziario globale ma è chiaro come le difficoltà economiche dovute alla pandemia da Coronavirus e la guerra commerciale-geopolitica con gli Stati Uniti impongano tempi più lunghi. La Repubblica Popolare Cinese è consapevole che la sua economia ha bisogno di mercati valutari più efficienti e stabili per tagliare i costi del commercio internazionale e ridurre i rischi in fatto di tassi di cambio. Questo approccio va di pari passo con il progetto della Belt and Road Initiative che mira ad intensificare l’integrazione eurasiatica; per ridurre la propria dipendenza dall’economia globale, il ruolo storico di “camera di compensazione” svolto da Hong Kong dovrà quindi essere ridefinito.
NOTE AL TESTO
1 Laura Ruggeri, Agents of Chaos. How the U.S. Seeded a Colour Revolution in Hong Kong, medium.com, 25 maggio 2020.
2 Ibidem
3 Ibidem
4 Ibidem
5 Heribert Dieter, Poveri e senza casa: le radici sociali delle proteste, “Limes” 9/2919, pp. 117-118.
6 Fabrizio Maronta, Perché la Borsa di Hong Kong è vitale per la Cina, “Limes” 9/2019, p. 136.
7 Chen Fengying, Riuscirà la Cina a rinunciare al dollaro?, “Sputnik Italia”, 16 luglio 2020.
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