Le correnti culturali comuni
Fra le manifestazioni intellettuali e politiche italiane del 1848 in favore degli slavi dell’Austria, la più importante fu indubbiamente il discorso che il Conte di Cavour pronunziò il 20 ottobre di quell’anno al Parlamento di Torino: <<C’è sulle terre dell’Impero una razza numerosa, energica, audace, ma da più secoli provata dalla sventura, la razza slava. Essa vuole ottenere la sua piena emancipazione, conquistare la sua nazionalità. Questa causa è giusta e nobile … essa è perciò, in un lontano avvenire, destinata al trionfo>>.
Le sollevazioni dei croati agli ordini del bano Josip Jelacic, nel 1849, risvegliarono il principio di nazionalità all’interno dell’impero asburgico, al punto che ottomila serbi passarono la frontiera del loro piccolo Principato per venire a battersi in Ungheria a favore dei loro fratelli slavi.
Già in quell’anno con la missione del Console Marcello Cerruti ma soprattutto dopo la guerra di Crimea e il trattato di Parigi (1856) anche l’Italia, vale a dire il Regno di Sardegna, era diventata una delle potenze garanti europee e tra le direttive più rilevanti della sua politica estera aveva inserito anche i rapporti con il principato di Serbia.
I saggi politici della Destra storica cominciarono a inviare in Serbia consoli di grandi capacità, innanzitutto Francesco Astengo (che svolse funzioni consolari a Belgrado dal 23 marzo 1859 al 26 febbraio 1860) e Stefano Scovasso, le cui relazioni diplomatiche costituiscono una fonte eccellente per conoscere la storia della Serbia alla metà del XIX secolo.
Astengo, al contrario di altri diplomatici, a Belgrado <<fu accolto come un amico>> tanto era l’interesse del principe Milos Obrenovic alle faccende italiane, al punto che il Governo serbo si disse disposto ad accettare la proposta sarda di dislocare un deposito di armi lungo il Danubio nel proprio territorio, per poi dirottarle ai rivoluzionari ungheresi.
Luigi Kossuth e Ferenc Pulzsky, col Comitato nazionale ungherese, volevano provocare un movimento insurrezionale non solo in Ungheria ma anche in Croazia, Slavonia, Serbia, Vojvodina e Banato, mentre Garibaldi avrebbe dovuto contemporaneamente condurre una spedizione in Dalmazia.
L’Austria, dopo le annessioni piemontesi delle province meridionali e centrali, decise di non muoversi e l’impresa sfumò, ma è evidente come fin dall’inizio il Regno d’Italia, protagonista lo stesso Vittorio Emanuele, cominciasse ad interessarsi delle questioni slave.
Sempre nel 1849 venne fondata a Torino da Lorenzo Valerio, vivace deputato di sinistra, la Società per l’alleanza italo-slava, che si proponeva di patrocinare un accordo con magiari, slavi-meridionali, moldo-valacchi e polacchi.
L’associazione cercò di diffondere il suo programma di “alleanza dei popoli” per mezzo di un giornale educativo, volto a rafforzare l’amicizia con queste nazioni.
L’appello lanciato nel marzo dello stesso anno, tra gli altri anche da Agostino de Pretis, propugnò un accordo proficuo della nostra civiltà e dei nostri interessi con quelli delle popolazioni d’oltre Adriatico: <<Gli slavi e gli italiani che vivono in pieno accordo nell’Istria e nella Dalmazia, vi porgono esempio di due popoli amici quali noi saremo in avvenire. Il mare Adriatico, che voi chiamate mare azzurro, del quale noi italiani e slavi siamo i padroni, perché noi principalmente ne facciamo uso, ci rappresenta lo sviluppo della nostra industria e del nostro commercio, il quale non sarà inceppato dalle barriere doganali.>>
La Società italo-slava si diffuse da Torino a Pisa, Livorno, Firenze e Roma, ponendosi in relazione con Robert Cyprien, professore di letteratura slava al Collegio di Francia e inviando al Liceo di Belgrado <<come testimonianza di fraterno affetto>> un’edizione dei classici italiani.
Si cercò in sostanza di creare un’élite politica di orientamento democratico con la quale avviare un programma di azione comune, bilanciando gli orientamenti rivoluzionari ai quali altri noti esponenti politici italiani sottoponevano i patrioti serbi in quel periodo.
Cavour vide chiaramente come l’interesse nazionale italiano fosse legato ai destini politici delle regioni ad oriente dell’Adriatico e si dimostrò da subito favorevole ad un accordo con i serbi.
L’interesse per i serbi e per la Serbia, comunque, non era soltanto una conseguenza dell’azione geopolitica del Governo ma rientrava piuttosto in quel movimento politico-culturale chiamato “Risorgimento italiano”, con almeno due personaggi che esprimono in modo paradigmatico questo interessamento.
Si tratta in particolare di Giuseppe Mazzini e Niccolò Tommaseo, il primo capo dei democratici rivoluzionari repubblicani e l’altro vicino alle idee dei cattolici liberali che aspiravano ad un’Italia federale neoguelfa.
Le idee di Mazzini, già dagli anni Quaranta, furono accolte con vivissima adesione nei circoli liberali serbi, nel principato e nella regione della Vojvodina, allora inclusa nella monarchia degli Asburgo.
I liberali erano convinti che l’ideologia mazziniana si sarebbe potuta realizzare in una prima fase nel principato ungherese, per poter poi contribuire all’unificazione dei territori nei quali vivevano i serbi, ma bisogna rilevare come la loro cerchia fosse abbastanza ristretta e circoscritta a quella generazione di giovani che compivano i loro studi all’estero: in Svizzera, Germania, Francia e Inghilterra.
La realtà della Vojvodina era piuttosto diversa perché non vi esisteva, a differenza dell’Italia, una borghesia illuminata e affrancata economicamente, che potesse assorbire le idee mazziniane e convertirle in azione politica.
Per questa ragione il mazzinianesimo in Serbia rimase in quel momento un’utopia ma contribuì a creare una profonda radice di affetto verso l’Italia che, anche per altri motivi, permane tuttora.
Movimenti di stampo mazziniano furono ad esempio Gioventù serba unita e Giovane Bosnia, quest’ultima fondata da Dimitrije Mitrinovic, che si trasferì successivamente in Inghilterra dove iniziò un movimento ideal-religioso anch’esso influenzato dalle idee di Mazzini.
Il gruppo di scritti più importante dello stesso Mazzini fu raccolto nell’opera Lettere slave, dove il rivoluzionario italiano riconobbe ai serbi, dopo la morte di Goethe e Byron, l’unica poesia viva e spontanea da cui traspaia l’azione, rendendo inoltre omaggio al loro particolare spirito di sacrificio che si era ormai perso tra gli altri popoli europei.
Nelle lettere che scriveva ai compagni di lotta Mazzini ricordava spesso la Serbia come quella che fra le province slave dell’Impero ottomano presentava il livello più avanzato di civilizzazione; per questa ragione egli esprimeva la speranza che presto passasse all’azione non solo contro la Turchia ma anche contro l’Impero d’Austria, perché una forte influenza serba in Ungheria avrebbe interagito con il movimento italiano, portando ad un’esplosione che avrebbe travolto anche la Boemia.
Nonostante il sovrano serbo di allora, Mihailo Obrenovic, non godesse della sua fiducia, Mazzini riteneva che anche la Bulgaria e il Montenegro (desideroso di impossessarsi delle Bocche di Cattaro) avrebbero seguito la Serbia.
L’indipendenza delle popolazioni slave non significava solo l’abbattimento dei due regimi nemici delle nazionalità, Austria e Turchia, ma anche la formazione di una diga contro le tendenze espansioniste ed egemoniche del germanesimo al Nord e dello zarismo all’Est.
In realtà le aspettative di Mazzini non potevano che andare temporaneamente deluse, visto che soltanto 15 anni dopo, nel 1878, la Serbia fu sufficientemente armata da poter ingaggiare una guerra contro la Turchia e conquistare la propria sovranità.
Al Congresso di Berlino nel giugno di quell’anno, le grandi potenze riconobbero infatti la piena indipendenza alla Serbia, al Montenegro e alla Romania dando vita al Principato di Bulgaria, posto sotto l’alta sovranità ottomana ma sensibilmente ridotto a livello territoriale rispetto a quanto stabilito con la pace di Santo Stefano (che aveva posto fine nel marzo 1878 al conflitto tra Russia e Turchia).
In ogni caso le sue idee furono accettate fin dal 1860 circa da un gruppo di liberali serbi guidati da Vladimir Jovanovic, padre di Slobodan (che diverrà uno degli storici nazionali più rinomati) e da Svetozar Miletic.
Costoro chiedevano di limitare l’autorità del Principe attraverso istituzioni democratiche, tra le quali l’Assemblea legislativa; essi consideravano sovrano il popolo al quale andavano garantiti i diritti civili, mentre i Ministri dovevano essere responsabili dinanzi all’Assemblea eletta dai cittadini.
Tuttavia, mentre le idee mazziniane venivano diffuse sui giornali serbi più autorevoli del tempo, venne fondata poco dopo la Gioventù serba unita proprio sul modello della Giovine Italia.
Nell’agosto 1866 quattrocento serbi provenienti un po’ da tutto il paese si riunirono nell’Aula Magna del ginnasio di Novi Sad e aprirono quattro giorni di entusiastiche discussioni su come avrebbero dovuto agire nell’interesse della loro nazione.
Il risultato di questa assemblea fu appunto la creazione della Gioventù Serba Unita, le cui idee erano profondamente mazziniane ma all’interno della quale è doveroso sottolineare l’esistenza di una fazione socialista rivoluzionaria, facente capo a Svetozar Markovic.
Nonostante questi influssi, rimangono certamente significativi i colloqui che Mazzini condusse direttamente con Jovanovic negli anni Sessanta: egli osservò che serbi e italiani avevano un nemico comune nell’Austria e che il Governo italiano cercava appoggio in Francia così come quello serbo cercava sostegno in Russia, tuttavia né Parigi né Mosca erano da considerarsi amici disinteressati.
Per questo motivo bisognava ottenere aiuto anche da Londra e da Berlino; presupponendo l’insurrezione rivoluzionaria delle varie nazionalità nei Balcani, l’Austria sarebbe stata costretta a dividere le sue forze e a dislocare un corpo d’armata lungo la frontiera meridionale, d’altra parte, in caso di guerra contro l’Italia, l’Austria non sarebbe potuta intervenire nei Balcani.
Roma e Belgrado, in pratica, dovevano agire di concerto.
Secondo Mazzini in caso di successo sarebbe dovuta nascere una federazione amministrativa fra serbi, montenegrini, bulgari e croati (federazione che avrebbe dovuto abbracciare anche la Bosnia, la Carinzia e la Dalmazia); il moto degli slavi meridionali avrebbe suscitato quello delle popolazioni elleniche, spingendo l’Impero ottomano verso le regioni asiatiche, ma per ottenere questo risultato bisognava suscitare un dibattito nell’opinione pubblica britannica e costringerla a rivedere la sua posizione diplomatica ferma a garantire la sopravvivenza del cosiddetto “malato d’Europa”.
L’intesa doveva sì essere raggiunta con i liberali serbi, che il genovese definiva “Partito nazionale”, ma non con il principe Mihailo Obrenovic, come invece tentava di fare il re d’Italia, del quale il genovese condannava <<il machiavellismo servile e l’ignorante paura>>.
L’eco di tali piani emerse in una lettera scritta nel 1863 da Jovanovic ad Adriano Lemmi, nella quale l’esponente liberale assicurava la sua piena collaborazione per sostenere i progetti comuni e si impegnava a fornire ogni informazione positiva riguardante la situazione politica in Serbia, pretendendo lo stesso dall’Italia.
L’obiettivo immediato era quello di attaccare l’Austria in Veneto, far insorgere la Serbia per provocare il moto in Ungheria e colpire in tal modo l’impero asburgico sui due fianchi.
Ma più che sugli esponenti “moderati” l’influenza mazziniana fu paradossalmente più proficua sulle correnti “rivoluzionarie” serbe.
L’ Omladina (Gioventù) lottò fin dal 1866 per l’unione di tutti i serbi, dentro e fuori il Principato, ma venne soppressa dal governo magiaro (Novi Sad si trovava allora dentro i confini ungheresi) nel 1872, proprio l’anno della morte di Mazzini.
La sua sconfitta fu dovuta al mancato appoggio del Governo di Belgrado che avrebbe dovuto sostenere i costi delle operazioni insurrezionali, tuttavia la preparazione ideologica per la lotta nazionale serba durante la crisi d’Oriente del 1875-1878 fu in gran parte frutto proprio del lavoro culturale intrapreso da questa organizzazione giovanile.
Ovviamente non solo l’opposizione liberale, conservatrice o radicale che fosse, trasse spunto dagli scritti e dalle idee di Mazzini, che potrebbero tranquillamente essere considerati profetici sia rispetto al modello federale jugoslavo che caratterizzò il XX secolo sia riguardo alle intenzioni occidentali di costituire una “provvidenziale” barriera geopolitica tra la Russia e la Germania.
Se leggiamo con attenzione il Nacertanije (“Disegno” o “Progetto Imperiale”) di Ilija Garasanin, vi possiamo rinvenire i riflessi delle idee mazziniane, che certamente gli erano arrivate per il tramite di Frantisek Zach, agente del principe Adam Czartoryski a Belgrado e confidente del politico serbo, mentre lo stesso vale per gli scritti di Matija Ban, conservatore e avversario dei patrioti liberali, raguseo di nascita e serbo-cattolico.
La Nachertanje venne presentata nel 1844 come progetto di unificazione di tutti i serbi, ed eventualmente di tutti gli Slavi del Sud, sul modello dell’Impero serbo medievale di Stefano Dusan; a questo progetto nazional-imperiale si aggiunse il mito operativo della Serbia come “Piemonte dei Balcani”, che servì come linea programmatica per l’unificazione ottenuta, seppur in modo incompleto, nel 1918.
Bisogna sottolineare che quando nel XIX secolo si diffuse nell’Europa orientale il mito nazionale, con il fascino del modello statuale giacobino francese (ripreso d’altronde anche dal Piemonte), questo processo non avvenne contro la concezione politica preesistente di stampo bizantino, ma rivitalizzando e prolungando la vocazione imperiale.
Non a caso il principe Mihailo Obrenovic proclamò immediatamente la Serbia “Piemonte dei Balcani”, combinando il romanticismo carbonaro e mazziniano italiano con l’esempio pratico di Cavour, mentre fu proprio la rivista serba Pijemont, foglio dell’organizzazione irredentista Unione o morte, ad avere un ruolo guida nella preparazione della Serbia al suo destino di Piemonte degli Slavi del Sud.
L’immagine del sangue che gli italiani avevano versato per la loro patria a Solferino e a San Martino costituì per gli unionisti serbi un’immagine costante, forte ed eroica da imitare e lo strepitoso successo ottenuto dagli italiani nel 1860 e 1861 risultò di grande incoraggiamento.
L’altro personaggio che certamente più simboleggiò queste suggestioni fu Niccolò Tommaseo (1762-1841), l’illustre poligrafo italiano autore delle Scintille, causa le quali la maggior parte dei nostri studiosi del passato lo aveva ritenuto, senza fondamento, uno scrittore serbo.
Nato a Zara, egli si laureò in diritto a Padova nel 1782 e nella sua città natale fu presidente del Tribunale di prima istanza, ricoprendo cariche e magistrature a volte in coabitazione con Vincenzo Dandolo.
Tommaseo si guadagnò meriti particolari nei riguardi della cultura serba grazie alle traduzioni e interpretazioni della famosa poesia popolare di quel paese, mentre nel suo Dizionario estetico arrivò addirittura a lodare i caratteri antropologici del popolo serbo.
Quando diresse la pubblica istruzione a Venezia, durante il periodo della Repubblica di Daniele Manin, egli fondò in quella città una cattedra di lingua serba, dando corpo ad uno dei suoi progetti più vagheggiati.
L’idea che pervade il Tommaseo nel suo testo più importante, Ai popoli slavi, è quella dell’unificazione dei serbi in uno Stato in cui la Dalmazia avrebbe svolto un ruolo di egemonia culturale e la guida politica sarebbe spettata al Principato di Belgrado.
D’altra parte il federalismo cattolico di Tommaseo ebbe poco eco in Serbia, dove le popolazioni contadine erano in stragrande maggioranza di fede cristiano ortodossa e mantenevano viva la fiamma delle tradizioni del loro popolo, ma la sua influenza fu fortissima in Dalmazia, nei ceti cittadini italiani e presso i serbi cattolici.
Un mercante veneziano, che nei primi decenni del XIX secolo scrisse i suoi ricordi del viaggio via terra da Venezia a Costantinopoli, osservò infatti circa le città serbe: <<Appena una città abbia qualche importanza essa non è abitata che dai turchi; si direbbe che i serbi se ne sono ritirati per vivere liberi, fra di loro, nei villaggi o in fondo a valli lontane. Si ha l’impressione che essi detestino andar nelle città, fosse pure per meglio vendervi i loro raccolti>>.
A Tommaseo va in ogni caso il merito maggiore se in Italia, nella prima metà del XIX secolo, nacque il culto della poesia popolare serba, che stimolò un numero crescente di traduzioni fino alla famosa Ode alla Serbia di Gabriele D’Annunzio.
Le reciproche influenze italo-serbe durante il Risorgimento non si limitarono certo a questi due personaggi di primissimo piano ma coinvolsero buona parte dei nostri più illustri esponenti.
Lo storico piemontese Cesare Balbo intuì subito che qualsiasi cambiamento nelle vicende politiche della sponda adriatica orientale avrebbe influito sulle fortune dell’Italia e la gravitazione danubiana dell’Impero degli Asburgo poteva consentire buone possibilità di indipendenza alla nostra nazione.
La differenza con il pensiero di Mazzini consisteva nel fatto che, alla disgregazione asburgica, Balbo avrebbe preferito il costituirsi di un Impero austro slavo conciliante con gli interessi italiani.
Nel 1845 egli scrisse diverse lettere al direttore della Revue des deux mondes sul popolo slavo e sulla Serbia, pur schernendosi di non avere la competenza per parlarne.
Lo stesso Carlo Cattaneo dopo il 1860 confidò in una sollevazione dei popoli danubiani che aiutasse la guerra italiana nell’Adriatico, attribuendo il fallimento dei moti del 1848 proprio al mancato coordinamento delle lotte popolari nel Lombardo-Veneto, nel Tirolo e nell’Illiria.
Cesare Correnti, che come Cattaneo sottolineò l’importanza dell’Istria quale baluardo a difesa del Veneto, arrivò poi a postulare la positività dell’influenza russa sull’Austria, giudicando l’idea panslavista <<una benefica forza suscitatrice di coscienza nazionale>>.
Le province slave e il movimento prussiano si configurarono nella sua visione come i due lati vulnerabili dell’Impero asburgico, sempre più isolato a causa degli attacchi congiunti di tedeschi, italiani, serbi ed ungheresi.
Anche quanti mettevano in guardia l’Italia dalla concorrenza serba nell’Adriatico, come l’On. Pacifico Valussi, considerarono sempre di buon occhio il movimento di unione e di intesa fra i popoli illirici, non fosse altro che per far fronte al germanesimo.
Lo scrittore Carlo Combi, che pure paventava il vessillo serbo “inalberato sopra le vette dell’Alpe Giulia”, conscio dell’imminente scomparsa di due imperi, incoraggiò l’Italia a fissare la propria frontiera nell’Istria per poi tendere la mano alle due nuove e forti nazioni, l’Ungheria e la Slavia.
In definitiva convissero due tendenze nella cultura italiana del tempo: una, empirica e pratica, restia a confidare nelle ipotetiche possibilità di concorso delle forze popolari; l’altra avversa agli espedienti e ai compromessi del mondo diplomatico, sempre disposta ad ammettere la volontà di riscossa dei popoli e ad esaltare il loro spirito di sacrificio.
Ambedue le correnti attribuirono agli slavi una grande importanza rispetto all’avvenire dell’Italia sull’Adriatico e nel Vicino Oriente, li considerarono perciò non nemici da combattere ma come una forza della quale era opportuno valersi ai fini immediati e lontani della politica nazionale.
Politicamente la prima si incarnò nella Triplice Alleanza con Austria-Ungheria e Germania e nella strategia prudente dei compensi territoriali, la seconda ispirò il partito d’azione e il movimento irredentista.
Serbia e Italia: amici, nemici o alleati inconsapevoli?
Per un certo periodo Italia e Serbia ebbero sicuramente obiettivi politici convergenti, poiché sino alla fine degli anni Sessanta la prima condusse una politica antiaustriaca, traendo così vantaggi dai movimenti e dalle aspirazioni della seconda, mentre dopo la stipula della Triplice Alleanza, la diplomazia ufficiale del Governo di Roma si orientò di più verso il Montenegro.
Inoltre, attraverso il controllo del porto di Valona e della dirimpettaia isoletta di Saseno, l’Italia assumeva il dominio del Canale di Otranto, vera e propria porta di accesso al Mare Adriatico.
I motivi di concorrenza erano ovvi; in un volume stampato nel 1909, La questione serba, l’ex Primo Ministro Vladimir Djordjevic aveva riassunto le posizioni del proprio paese in maniera chiara: il sentimento nazionale degli ortodossi della Bosnia Erzegovina avrebbe consentito alla Serbia di focalizzare le proprie mire su questa regione e di assumere un ruolo centrale nel contesto balcanico, mentre l’apertura del passaggio diretto al Mar Adriatico ne avrebbe completato la direttrice politico-strategica.
I rapporti tra Belgrado e Vienna, specie nel 1903 dopo il ritorno di Re Pietro Karadjiordievic che spostò l’asse geopolitico serbo verso la Russia, si deteriorarono rapidamente culminando nella guerra doganale del 1906 con l’Austria che chiuse le frontiere alla carne suina esportata dai serbi e soprattutto nel 1908, quando l’Impero asburgico si annesse ufficialmente la Bosnia (manifestando l’intenzione di occupare anche il Sangiaccato).
Il socialista italiano Gaetano Salvemini, che insieme al compagno di partito Leonida Bissolati aveva tentato di approfondire seriamente la conoscenza dei popoli slavi, denunciò con forza la violenza militarista dell’operazione condotta da Vienna, accusando anche i socialisti austriaci di non essere insorti contro il proprio governo.
Se è vero che il Ministro asburgico Lexa Von Aerenthal desiderava migliorare i rapporti con l’Italia dopo la stipula della Triplice Alleanza, è altrettanto evidente che l’intenzione di annettersi la Bosnia, manifestata da Vienna al responsabile italiano per gli Affari Esteri Tommaso Tittoni nel 1908, rimase talmente vaga che la nostra diplomazia non capì come l’atto fosse imminente.
Il Governo di Roma venne preso alla sprovvista ma non poté formalmente rimproverare a Vienna una violazione flagrante dell’art. VII della Triplice Alleanza, che prevedeva la reciproca consultazione in caso di annessioni territoriali.
Interprete principale del decennio decisivo che si apriva fu il fondatore e capo del Partito Radicale Serbo, Nikola Pasic, uomo dello schieramento liberale e dotato di grandi capacità di convincimento e mediazione, tanto da essere spesso paragonato all’italiano Giovanni Giolitti.
Con un’opera per molti versi simile a quella percorsa meno di un secolo prima per forgiare la coscienza nazionale italiana, Pasic si adoperò strenuamente per la formazione dell’identità degli Slavi del Sud, tramite congressi della gioventù, incontri di letterati e pubblicisti, club di studiosi e politici.
Se la Serbia ambiva ad essere almeno una potenza regionale, lo scontro con l’Austria-Ungheria diveniva inevitabile e numerosi si susseguirono gli attentati della Giovane Bosnia nei confronti dei funzionari asburgici.
Dal punto di vista della costruzione dello Stato, Pasic si dichiarò subito ostile a soluzione federaliste che temeva divenissero il cavallo di Troia per il ritorno dell’influenza tedesca.
La situazione gli divenne chiara quando nel 1875 scoppiò in Bosnia un’insurrezione contro i turchi; Pasic cominciò subito ad organizzare riunioni per venire in aiuto ai fratelli serbi di quella regione e il giornale sul quale scriveva, Liberazione, giunse a reclamare l’appoggio attivo del Governo di Belgrado a favore degli insorti.
Dimessosi dal suo impiego presso il Ministero dei Lavori Pubblici egli partì per la Bosnia e capì subito che gli austriaci si preparavano a sostituire gli ottomani quale potenza dominante nei Balcani.
Sulla sua figura sono estremamente significative le memorie diplomatiche del conte Carlo Sforza, per il quale Pasic <<consacrò la sua vita al perseguimento di una grande opera nazionale>> ma ebbe quale unico difetto il <<disprezzo eccessivo di qualsiasi mezzo di propaganda e di pubblicità nell’interesse dello Stato>>, elemento tipico anche oggi del carattere dei serbi.
Al contrario la sua serenità e la sua fiducia nell’avvenire ispiravano fede intorno a lui e i serbi, oltre a riconoscersi in Pasic, riconobbero in lui proprio ciò che sentivano mancare loro, perciò lo seguirono.
Come ricorda Sforza, tutti gli esiliati politici – anche Mazzini – ebbero momenti di sconforto, Pasic (esule dal 1883 al 1889) mai.
Storici e critici serbi paragonarono il carattere e la vita di Pasic a quelli di Francesco Crispi: entrambi cospiratori, entrambi per diversi anni in esilio, entrambi appassionati amanti della propria nazione, mentre altri lo accostarono a Cavour per la sua azione in politica estera e a Giolitti per quella in politica interna.
Approfittando delle difficoltà dell’Impero ottomano, dovute proprio all’attacco italiano in Libia (1911), la Serbia con i suoi alleati balcanici riconquistò nel 1912 Kosovo e Macedonia ma dovette subire come contrappeso nei Balcani la creazione dell’Albania (28 novembre 1912) su auspicio sempre dell’Italia e dell’Austria.
Tuttavia, quando il 9 agosto 1913 il marchese di San Giuliano (Ministro degli Esteri italiano) ricevette dall’Ambasciatore a Roma, Kajetan Merey, la comunicazione che l’Austria intendeva invadere la Serbia e chiedeva all’Italia comprensione in base alle clausole del trattato di amicizia tra i due paesi, Giolitti rispose chiaramente: <<Se l’Austria attacca la Serbia, questa è la prova che non può essere questione di casus foederis. Essa agirebbe per proprio conto e non per propria difesa, poiché nessuno pensa ad attaccarla. E’ necessario dichiarare questo all’Austria nella maniera più esplicita … >>.
Se Giolitti non avesse replicato in modo così categorico, può darsi che la guerra provocata nel 1914 dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando sarebbe scoppiata un anno prima, senza il minimo pretesto.
Giova peraltro ricordare che l’organo del Movimento per la Grande Serbia e dell’associazione segreta La Mano Nera, che armò la mano di Gavrilo Princip a Sarajevo, si chiamava proprio Piemonte.
Anche rispetto all’umiliante ultimatum rivolto da Vienna a Belgrado dopo l’omicidio del principe ereditario, le memorie diplomatiche di Sforza non lasciano dubbi e lo giudicano <<inaccettabile e comunicato al Governo italiano solo all’ultimo momento>>; peraltro, ricorda Sforza: <<il Governo austriaco arrivò perfino a prescrivere delle consultazioni con un giurista sicuro per trovare il mezzo di arrivare alla guerra, anche nel caso inconcepibile di un’accettazione incompleta, da parte della Serbia, di tutte le condizioni più umilianti>>.
Già con la dichiarazione di neutralità il 3 agosto 1914 l’Italia manifestò ufficialmente la sua opinione di trovarsi di fronte ad un’aggressione austriaca, assumendo di conseguenza un atteggiamento favorevole a Belgrado.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale non solo San Giuliano sottolineò come la Serbia sarebbe stata un’alleata di una forza morale enorme per l’Italia, ma diversi volontari italiani chiesero al nostro Governo di potersi battere al fronte insieme ai serbi senza però ricevere l’assenso del Primo Ministro Antonio Salandra.
Un temporaneo momento di rottura si verificò negli anni 1915-1916 in quanto l’Italia considerava la Dalmazia facente parte del proprio spazio geopolitico (e lo stesso avvenne naturalmente dopo la costituzione della Jugoslavia alla fine del conflitto): tuttavia, l’atteggiamento filo-serbo del Risorgimento italiano continuò a manifestarsi negli articoli, nelle traduzioni delle poesie, in molte presentazioni e interpretazioni del pensiero risorgimentale dei due paesi.
Non a caso Mazzini considerò sempre la Dalmazia slava e lo stesso valeva per Bissolati, mentre il capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano, generale Armando Diaz, si dichiarò strategicamente contrario ad un acquisto che <<avrebbe dovuto essere evacuato in caso di nuove guerre>>.
L’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia il generale Luigi Cadorna constatò l’assoluta mancanza di collaborazione dell’esercito serbo, che aveva cessato qualsiasi attacco contro l’Austria per rivolgersi verso l’Albania.
Il 27 aprile 1915 Pasic telegrafò al ministro serbo a Pietrogrado, Miroslav Spalajkovic, che: <<Una importante frazione del nostro popolo e del suo territorio deve essere sacrificata all’Italia ma i capi dei serbi, dei croati e degli sloveni soggetti all’Austria-Ungheria mi hanno giurato di condurre una lotta senza quartiere contro l’esercito italiano qualora esso comparisse come conquistatore in territorio slavo>>.
L’importante studio di Mario Toscano, condotto sui documenti diplomatici russi, conferma comunque che durante i colloqui di Londra, quanto alla questione della Croazia, nemmeno da parte di Mosca si volle prendere posizione per un suo incorporamento nella Serbia.
A complicare i rapporti italo-serbi, comunque, collaborarono sia le potenze alleate che non avevano alcuna intenzione di mettere mano al problema jugoslavo, sia la Russia che fece intendere a Pasic la possibilità di una revisione del Patto di Londra e delle promesse fatte al Governo di Roma.
Si ebbe l’impressione che i rappresentanti dell’Intesa cercassero di far convergere il malumore serbo sul nostro paese dopo gli errori commessi durante i negoziati con Bulgaria e Romania, sia per la zona contestata della Macedonia sia riguardo il possesso del Banato ungherese.
Il 15 maggio 1915 il Comitato jugoslavo londinese non mancò di salutare ufficialmente l’Italia come nuova collaboratrice nell’opera di <<liberazione e di unione di tutta la nostra razza>>, ma avvertendo che l’anima jugoslava si sarebbe ribellata al solo pensiero che un suo territorio potesse divenire colonia di uno Stato straniero: <<Se l’Italia domanda la costa settentrionale ed orientale dell’Adriatico, vale a dire la frontiera attuale fino a Fiume, oltre alla Dalmazia settentrionale e centrale e alle isole del Quarnero, è necessario allora ch’essa sappia che mai la nostra nazione consentirà a che degli organi vitali siano strappati dal suo organismo>>.
Il 9 giugno 1915 il Ministro degli Esteri greco trasmise al suo omologo russo un’informativa in base alla quale si stavano delineando le condizioni per una pace separata tra Austria e Serbia; quest’ultima si sarebbe estesa fino a Durazzo e in cambio avrebbe ostacolato le mire egemoniche italiane in Albania e nel Nord dell’Adriatico.
Il nostro Ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, non valutò in quel frangente l’importanza di un accordo diretto con Pasic, perché da subito si sarebbe potuta ampliare la zona costiera dell’Adriatico da assegnare alla Serbia.
In definitiva, alla base della tensione italo-serba stava tutta una serie di malintesi, di errori di valutazione, di difettose informazioni e di influenze esterne negative, per cui la mancata reazione agli insegnamenti dell’estate 1915 preparò la base alle delusioni del 1919.
Ma fu poco dopo che si manifestò, paradossalmente, il più importante episodio storico dell’amicizia tra Italia e Serbia.
Ormai stremato dalla guerra, per evitare che i propri Ministri e gran parte della popolazione cadessero prigionieri nelle mani degli austriaci, l’esercito serbo iniziò alla fine del 1915 una terribile ritirata sull’Adriatico che lo doveva condurre a Corfù, dove avrebbe riorganizzato non solo le proprie truppe ma lo stesso governo.
La morte o la cattura del governo serbo e dello stesso Pasic avrebbero potuto rivelarsi un elemento determinante per il prosieguo della guerra nei Balcani.
Di questa epica impresa l’Italia fu assoluta protagonista, come ben descritto dalle immagini pittoriche ritratte dal tenente di fanteria Aldo Carpi nell’opera intitolata Serbia eroica.
Si trattò della tragica ritirata di un intero popolo, assalito dalle bande albanesi di re Zogu tra le montagne e bombardato dalle cannonate delle navi austriache nel Mar Adriatico, flagellato dalle più crudeli malattie epidemiche, alla mercé del freddo e della fame.
Il Città di Catania, a Brindisi, per quattro giorni si trasformò nella sede del Governo serbo, finché il 19 gennaio 1916 non ricevette l’ordine di trasportare i Ministri a Corfù.
Durante l’opera di soccorso italiana i nostri soldati e marinai, in maniera infaticabile, distribuirono viveri e indumenti, disciplinarono con cura l’imbarco di centinaia di migliaia di persone, accesero i primi fuochi, costruirono dei ricoveri, apparecchiarono pontili e maone per il trasporto dei malati più gravi sulle navi-ospedale, distribuirono il pane, curarono malati e feriti.
Quando alcuni giornali transalpini si vantarono del fatto che fosse stata la Francia ad aver salvato i serbi in Albania, il governo di Belgrado elencò i nomi delle imbarcazioni che avevano trasportato il proprio popolo: erano tutte navi italiane.
Sforza ricorda che di tutti gli stranieri sbarcati in armi a Corfù, quelli per i quali gli abitanti dell’isola provarono più simpatia furono i serbi: perché si affrettavano a spendere tutto il loro denaro appena lo ricevevano, perché furono sempre rispettosi delle donne corfiote e soprattutto perché nessuno di loro desiderava restare, non aspirando ad altro che a tornare nella propria patria.
Riorganizzato l’esercito riparato in Macedonia i rapporti fra italiani e serbi durante la Prima Guerra Mondiale diventarono presto cordialissimi, al punto che alcuni comandanti lamentarono il fatto di distribuirsi troppi complimenti reciproci.
Le dispute tra i due paesi, come già anticipato, arrivarono al termine della Prima Guerra Mondiale; destinataria – secondo il Trattato di Roma firmato con le potenze dell’Intesa nel 1915 – di vasti territori della Carniola, dell’Istria e della Dalmazia, alla fine del conflitto l’Italia presentò il conto agli alleati ma questi si trovarono di fronte al veto di Belgrado (che ai colloqui di Londra non era stata invitata) che voleva semplicemente mantenere le frontiere asburgiche alle porte orientali d’Italia.
Nel novembre 1918 l’esercito serbo si spinse a nord, oltre i fiumi Drina e Sava nei territori asburgici, per dar man forte ai raggruppamenti nazionali ma anche per garantirsi il controllo del territorio, perché la sua presenza arrestò sulla via di Lubiana l’avanzata delle truppe italiane.
Se la Bulgaria avesse finito per far parte della Jugoslavia, così come auspicato da Mazzini, la maggior parte delle difficoltà dovute al problema Adriatico si sarebbero probabilmente attenuate.
Invece nel 1919 il Governo provvisorio serbo-croato-sloveno dovette fronteggiare la prima grossa crisi internazionale quando i reparti irregolari italiani di Gabriele D’Annunzio occuparono la cittadina italiana di Fiume, proclamandovi la “Reggenza del Carnaro”, mentre paradossalmente il semi-clandestino “Comitato Croato-Sloveno” si rivolse poco dopo al Governo Giolitti per ottenere aiuti a favore della causa indipendentista di Croazia, Slovenia e Montenegro.
Fortunatamente per Belgrado il moderato Giolitti non era in grado di concepire una diplomazia attivistica, così come l’omologo bulgaro Aleksandar Stambolijski non poteva riaffermare i diritti di Sofia sulla Macedonia; con l’Italia si giunse perciò ad un accomodamento con il Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) in base al quale il Governo di Roma otteneva Istria e Zara, il Regno serbo-croato-sloveno la Dalmazia e Fiume diveniva Stato libero (finché nel 1924 non passò all’Italia con il Patto di Roma).
Il pasticcio maggiore era stato combinato comunque dagli Alleati, quando agli inizi della Prima Guerra Mondiale promisero al Governo serbo, in caso di vittoria, l’acquisizione di nuovi territori, in particolare la Bosnia Erzegovina e gran parte della Dalmazia, facendo prospettare così l’ipotesi della Grande Serbia.
I serbi, al contrario, tenendo conto dei desideri e delle aspettative dell’intellighenzia croata e slovena che voleva salvarsi dall’annessione all’Italia e da quanto le era stato promesso con il Patto di Londra, si allearono ai fratelli di Lubiana e di Zagabria dando vita alla prima Jugoslavia.
Stefano Vernole
Bibliografia
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