Intervento di Stefano Vernole al convegno “Guerra in Siria. Tra geopolitica e diritto”

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Pubblichiamo l’intervento di Stefano Vernole al convegno Guerra in Siria. Tra geopolitica e diritto che si è tenuto a Bologna il 9 ottobre 2017.

Situazione storica siriana: Hafez al Assad, baathista, è un fiero avversario di Israele che combatte nelle guerre del 1967, 1973 e 1982 (in Libano); la Siria è geopoliticamente vicina al campo sovietico, da Mosca l’esercito di Damasco (servizi segreti compresi) riceve il suo addestramento militare.

Caduta l’URSS, con la Guerra del Golfo Persico assistiamo al primo avvicinamento tra Siria e Occidente (ricordiamo che Damasco è alleata di Teheran, mentre il baath siriano è rivale di quello iracheno), in cambio di una sorta di protettorato siriano sul Libano.

Tuttavia dopo la Guerra all’Iraq, il Centro studi strategici di Washington elabora un rapporto che chiarisce come: “Per quanto riguarda i siriani, la sfida è convincere la Siria a trattare seriamente con Israele, l’alternativa è la guerra o l’isolamento siriano, Gli USA hanno come alleati importanti, oltre ad Israele e Turchia, Egitto e Arabia Saudita, i cui rapporti vanno utilizzati per contenere la Siria obbligandola ad adattarsi alla politica della coalizione a guida statunitense”.

La Siria continua perciò nella sua politica antimperialista, appoggiando Amal ed Hezbollah in Libano, con la liberazione del sud del Paese (2000); rimane aperta la questione delle Alture del Golan, alle quali Israele annette le fattorie di Shebaa.

Viste le minacce della Casa Bianca dopo l’11 settembre 2001 – Bush r. inserisce Damasco nell’”Asse del Male” – vengono promulgate alcune leggi USA per fare pressioni su un possibile “cambio di regime”, la Siria sostiene in parte la resistenza irachena contro l’occupazione statunitense e concede ospitalità ai capi di Hamas.

Improvvisamente, con gli sciiti al Governo a Baghdad e il rafforzamento dell’Iran (il quale propone un accordo di libero scambio ad Iraq, Libano, Siria e Turchia), la situazione geopolitica nell’area torna a mutare; Qatar e Turchia iniziano a corteggiare la Siria, la quale accetta di normalizzare i rapporti e si dice pronta ad una trattativa anche con i Paesi occidentali.

Scoppiano allora le “rivolte arabe”, in parte frutto di moti spontanei in parte eterodirette, dovute ad una serie di fattori economici (speculazione sul prezzo del cibo), all’utilizzo dei social network, delle tv come Al Jazeera ed Al Arabiya ecc. Esse ricordano molto le “rivoluzioni colorate” made in USA.

Il colpo di Stato contro Gheddafi non riesce, perciò nel 2011 gli si scatena una vera e propria guerra, manipolando una Risoluzione dell’ONU che prevedeva il divieto di voli nello spazio aereo; contemporaneamente francesi e statunitensi attuano un golpe anche in Costa D’Avorio.

Va sottolineato come in quel momento, Libia, Libano, Siria e in parte l’Algeria siano le uniche nazioni dell’area che non fanno parte del programma della NATO “Dialogo Mediterraneo”; ricordiamo che il 65% del petrolio e del gas naturale consumati in Europa passa attraverso il Mediterraneo

Mentre si aggredisce la Libia si destabilizza la Siria, Bashar al Assad viene minacciato e il Paese sanzionato; una prima rivolta, frutto anche dell’incompetenza delle autorità locali, scoppia in marzo a Daraa, mentre a Damasco compaiono i primi cecchini stranieri (sull’esempio di Timisoara e Kiev).

Qual è la colpa di Assad? Aver rifiutato nel 2009 dieci miliardi di dollari e il progetto del gasdotto sponsorizzato dal Qatar, che avrebbe dovuto attraversare il territorio siriano, Arabia Saudita, Giordania e Turchia per poi vendere il gas qatariota in Europa.

Damasco non tradisce gli alleati e nel 2010 tratta con l’Iran per un gasdotto che, attraversando il territorio siriano ed iracheno, trasporti il gas naturale del giacimento di South Pars verso l’Europa.

Nel giugno 2011 gli Emirati Arabi Uniti arrivano ad offrire 150 miliardi di dollari (il triplo del bilancio annuale statale di Damasco) per rompere l’alleanza con Teheran, promettendo che in cambio sarebbe anche finita la rivolta esportata da Daraa e Damasco verso Hama. Assad rifiuta e nel luglio 2011 l’Ambasciatore USA in Siria Ford, seguito da quello francese, incontra i ribelli ad Hama. Ricordiamo che già nel 1982, proprio in quella città, Assad padre aveva dovuto sedare nel sangue la ribellione dei Fratelli Musulmani siriani.

Nel frattempo almeno metà della popolazione siriana scende in piazza in diverse manifestazioni a favore di Assad, il quale vara alcune riforme per il pluripartitismo, tra le quali una certa autonomia ai curdi e propone un’amnistia.

Peraltro proprio il Partito comunista siriano e il partito sociale nazionale siriano sostengono il Baath in questa fase.
Gli Stati Uniti, per bocca di Hilary Clinton, lanciano un ultimo avvertimento ad Assad: la rivolta siriana finirà se romperà l’alleanza con l’Iran, riconoscerà Israele e porterà due o tre Ministri dei Fratelli Musulmani al Governo (come richiesto dalla Turchia e dal Qatar).

Ovviamente Assad rifiuta, la situazione diviene particolarmente critica nelle aree di frontiera con Giordania, Libano, Iraq e Turchia da dove affluiscono gruppi di jihadisti armati che si scontrano con l’esercito siriano. A Damasco, nel novembre 2011, si contano già 1600 morti tra i soldati, tuttavia la capitale appare tranquilla, ordinata, le persone escono di sera senza problemi e i delegati della Lega Araba presenti sembrano intenzionati a trovare un compromesso; c’è ancora la possibilità di evitare il peggio. Assad accetta il Piano di Kofi Annan e il dispiegamento di osservatori internazionali in Siria.

Nel gennaio 2012 Stati Uniti, NATO e Consiglio di Cooperazione del Golfo istituiscono però una Task Force e alcuni gruppi di lavoro per rovesciare ufficialmente il Governo siriano. Russia e Cina, così come gli altri Paesi BRICS, l’Iraq ecc. difendono le ragioni di Damasco all’ONU, la Lega Araba getta la maschera e si schiera contro Damasco. A Tunisi viene creato il Consiglio Nazionale Siriano che raggruppa gli oppositori di Assad.

Obama, che nel novembre 2012 deve essere rieletto, accetta il programma neocons sionista del grande caos in Medio Oriente e della balcanizzazione dell’area, come già prefigurato dal Piano Yinon e confermato dallo schema Yaalon; dalle basi turche, libiche e giordane arrivano armi e mercenari finanziati e addestrati da alcuni Paesi arabi come dai servizi segreti occidentali. L’episodio più clamoroso a questo proposito viene indirettamente rivelato dall’uccisione dell’Ambasciatore USA Stevens, ucciso a Bengasi, che su ordine della Clinton si apprestava a trasferire missili anticarro dalla Libia ai ribelli siriani. Analoghe triangolazioni di armi, con finanziamenti che giungono soprattutto da Qatar e Arabia Saudita, vengono condotte dagli USA tramite Croazia, Ucraina e Bulgaria. L’Isis si finanzia anche con il traffico di petrolio che, mischiato a quello curdo, viene innanzitutto raffinato in Turchia (grazie ad una società che fa capo al figlio di Erdogan) e in Israele, per essere poi ripulito e venduto in Europa.

Stando ad un’inchiesta del “Washington Post”, il 7% di tutti i fondi della CIA sarebbe stato investito nella guerra siriana.

Nasce l’Esercito Libero Siriano con i vari gruppi armati jihadisti, al Nusra (emanazione di Al Qaeda) e l’Isis (che vuole creare lo Stato islamico), i quali tentano la presa militare di Damasco ma entrati nella capitale non trovano sostegno popolare, per cui vengono respinti e decidono di concentrarsi su Aleppo (rivendicata storicamente dalla Turchia) e sul Nord-Est della Siria.

Assad resiste inizialmente solo grazie al suo esercito popolare (composto in gran parte da alawiti) e creando le milizie popolari nei quartieri cittadini; tutte le minoranze religiose siriane si compattano intorno a lui, Assad non vuole ancora l’appoggio militare alleato, ma in un secondo momento è costretto ad accettare il sostegno di Hezbollah, dei pasdaran iraniani e dell’esercito russo che alla fine si rivelerà decisivo.

Dall’altra parte, dopo aver ventilato un possibile intervento militare della NATO bloccato dall’opposizione diplomatica di Mosca e Pechino, confluiscono decine di migliaia di combattenti dell’internazionale islamista, così come i volontari dai Paesi europei.

L’opinione pubblica occidentale alimenta per anni la minaccia dello Stato islamico e accentua anche l’emergenza immigrazione, due fattori che servono da pretesto per intervenire militarmente contro la Siria e creare basi militari permanenti a cavallo con l’Iraq, si veda a questo proposito il Rapporto della Brookings Institution.
L’intervento militare russo del settembre 2015, su richiesta del Governo di Damasco, ribalta sia la situazione militare sia quella geopolitica.

I gruppi jihadisti vengono man mano distrutti e ridimensionati, i cosiddetti oppositori risultano essere una risicata minoranza, fallisce il piano di divisione in tre parti della Siria, mentre il Qatar viene scalzato dall’Arabia Saudita nel sostegno agli islamisti; la Turchia accetta il piano russo-iraniano di creazione delle “zone di sicurezza” e partecipa ai colloqui di riconciliazione e pace ad Astana.

Gli USA di Trump si limitano a qualche bombardamento simbolico contro l’esercito e le basi militari siriane ma non sembrano in grado di arrestare l’offensiva russa.

Baghdad, Ankara (specie dopo il tentato golpe contro Erdogan), Il Cairo e Tripoli si schierano con la Russia, che appoggiando Sisi ed Haftar guadagna influenza anche in Libia.

Il Qatar, rimasto isolato, trova il sostegno di Turchia (militare) ed Iran (economico).

L’Arabia Saudita, nonostante l’appoggio militare USA, si trova ora alle prese con una crisi economica devastante e, visti sfumare i suoi obiettivi geopolitici (schiacciare l’asse sciita in Medio Oriente), chiede anch’essa aiuto a Mosca.

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