Il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo pubblica questo articolo a firma del dottor Matteo Russo su gentile concessione dell’autore.
Oggi più che mai il terrorismo di matrice islamica sembra rappresentare la più grande sfida e al contempo la più grande minaccia per il cosiddetto mondo Occidentale. A ben vedere, tuttavia, nonostante tale delicato tema abbia monopolizzato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, assurgendo a vero e proprio argumentum principis in tema di sicurezza internazionale, di esso, purtroppo, si ha un quadro storico e giuridico tutt’altro che esaustivo. Se ciò accade – verosimilmente non a causa di derive oscurantiste o complottiste – è perché si è ormai radicata l’erronea convinzione che parlare di terrorismo significhi rimandare automaticamente a un concetto sedimentato nell’immaginario collettivo, di cui la moltitudine può percepirne, senza ulteriori specificazioni, il profondo disvalore. Tale assunto può essere dato per vero fino a un certo punto, ma probabilmente non aiuta a circoscrivere il fenomeno oggetto di studio.
Cercherò, a tal proposito, di mostrare come sia la sua profonda ambiguità, semantica e concettuale, leggibile nel suo decorso storico, a causare le maggiori difficoltà circa la sua comprensione.
È noto che il termine “terrore” derivi dalla parola latina terror, che in origine designava l’atto del tremare e in seguito assunse il significato di “stato emotivo di estrema paura”. Storicamente, uno dei primi esempi di terrorismo viene considerato quello perpetrato dai Sicarii, una setta religiosa attiva in Palestina al fianco degli Zeloti nella lotta contro i Romani durante la prima guerra Giudaica (66-74 d.C.). L’azione particolarmente cruenta faceva dei Sicarii temibili avversari che, stando alle fonti del tempo, incutevano sommo terrore. Pressappoco contestualizzato nella stessa area
geografica, vale la pena ricordare un movimento, fondato in Persia e diffusosi anche in Siria, divenuto celebre con il nome di Assassini, formato da mercenari al servizio degli Ismailiti, allora seconda grande corrente del mondo islamico di confessione Sciita. Il loro modus operandi, contraddistinto da una forte carica messianica, consisteva in azioni sanguinarie verso obiettivi politico-religiosi di cui non condividevano la visione “corrotta” della religione islamica. Anche l’India e l’Estremo Oriente, nel corso di alcuni secoli fino all’Ottocento, conobbero alcune corporazioni e società segrete composte da membri dediti a furti, saccheggi e omicidi, le cui abilità erano messe al servizio di potenti locali dediti al culto della dea Kalì. Tra questi vi erano i Thugs, scaltri strangolatori affiliati a ricche caste locali da cui ricevevano approvvigionamento e protezione, al fine di combattere tramite azioni estemporanee l’avanzata imperiale di “Sua Maestà” Inghilterra.
A partire dall’Età Moderna, e soprattutto durante la Rivoluzione Francese , il termine “terrorismo” acquisì progressivamente un significato ben più ampio e complesso, per la politica in particolare, divenendo ciò che Hegel chiamerà Schreckenzeit, ossia il “tempo del terrore”.
Paradossalmente, la risonanza storica del termine si configurava come contrappeso concettualedogmatico alla nascita dei Diritti dell’Uomo, proprio durante la Grande Révolution che avrebbe da lì a poco negato i suoi principi ispiratori. La storicizzazione del fenomeno, indagato sotto una nuova luce e inscindibilmente legato a vicende rivoluzionarie, apre così nuove prospettive d’indagine: i termini “rivoluzione” e “terrorismo” da questo momento in poi sembrano coesistere in numerose analisi storiche come due facce di una stessa medaglia, distinti da un incerto e permeabile confine e aventi differenti connotazioni a seconda della voce narrante.
Il dibattito sull’uso della violenza per fini rivoluzionari è vastissimo. Soprattutto in seguito alla Rivoluzione Bolscevica del 1917, in tutti i partiti marxisti-leninisti le discussioni sull’uso dell’arma terroristica quale fattore necessario e legittimante risultano copiose. Interessante a questo proposito è la distinzione concettuale di fondo tra i fenomeni “rivoluzione” e “terrorismo”: il concetto di rivoluzione afferirebbe infatti a un processo di cambiamento, mentre quello di terrorismo a un metodo. In merito a questo, Hannah Arendt puntualizza come i due oggetti non debbano automaticamente fondersi, bensì separarsi. Occorrerebbe, perciò, distinguere i presupposti della rivoluzione dal semplice agire violento, rimarcandone il fine come «l’aspirazione a liberarsi e a costruire una dimora nuova dove la libertà possa abitare».
Al di là delle manifestazioni storiche del fenomeno terroristico, ciò che accomuna tutte le azioni, le organizzazioni e gli agenti è lo scopo politico coadiuvato da mezzi violenti per raggiungerlo e riconducibile a una dicotomia storica quanto mai attuale quale quella di “amico vs. nemico”. Ogni conflitto “pro e contro rivoluzionario”, sia che si consumi tra gruppi appartenenti a diverse fazioni o che si consumi tra Stato e nemici pubblicamente stigmatizzati, implica un’insanabile categorizzazione dicotomica-concettuale fondata sulla dialettica amico/nemico.
Se fino alla Prima Guerra Mondiale il terrorismo sembrava essere riconducibile a un fenomeno di matrice socialista – legato pertanto agli sconvolgimenti della Rivoluzione Bolscevica quale parte integrante di un conflitto sistematico – negli anni successivi l’azione terroristica, intesa come “guerriglia lampo” e caratterizzata da attentati prettamente dinamitardi il cui unico obiettivo era massimizzare il terrore a scapito di una fazione socio-politica, si diffuse come azione funzionale a istanze separatiste/nazionaliste. Negli anni ’30 e ‘40, le azioni terroristiche cominciarono ad
affacciarsi anche fuori dal vecchio continente europeo. Fra tutte vale la pena ricordare la Fratellanza Musulmana e Il Partito del Giovane Egitto quali mandanti dell’assassinio di due primi ministri e diversi funzionari in Egitto; i gruppi sionisti Irgun e LEHI che nella Palestina del Mandato Britannico si opposero al colonialismo inglese.
Il fenomeno terroristico fu contraddistinto nel corso del XIX e del XX secolo da moventi differenti, riconducibili sia all’azione di Stati che di gruppi socio-politici organizzati, posti in essere entro confini nazionali o al di fuori di essi. Nasceva così il concetto di “terrorismo di Stato” che identificava tanto l’uso del “terrore” da parte del Governo nei confronti della propria popolazione o parte di essa allo scopo di rafforzare o legittimare il potere acquisito, quanto le azioni intese a destabilizzare la popolazione di un Paese avversario in tempo di pace o nel corso di un conflitto
armato. Il terrorismo così delineato si presenta come filiazione diretta del “terrorismo colonialistico”, quale paradigmatico esempio di uso del terrore al fine di conservazione del dominio politico. Nella sua seconda e più diffusa accezione il termine “terrorismo” individua, invece, l’uso indiscriminato della violenza da parte di gruppi a matrice politica, rivoluzionaria, razziale, religiosa, indipendentista, separatista o secessionista.
La profonda ambiguità insita in questo concetto “scivoloso” si è inevitabilmente riflessa sui tentativi da parte degli Stati e della Comunità Internazionale di pervenire a una definizione giuridica di terrorismo che fosse universalmente condivisa. Infatti, ad eccezione di alcune Convenzioni di carattere settoriale non esiste ancora un quadro sufficientemente uniforme che inquadri tale materia.
La ragione di tale insuccesso deriva principalmente dalle implicazioni terroristiche all’interno dei conflitti Medio Orientali, in cui alcuni blocchi di Stati, assumendo posizioni radicalmente contrapposte e opponendo riserve, hanno contribuito non poco a ingenerare incertezze sulla comprensione del fenomeno. Si veda inoltre come lo sforzo compiuto del comitato ad hoc, istituito nel 1996 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite al fine di predisporre il testo di una Convenzione generale contro il terrorismo, non ha ancora prodotto un risultato concreto, a causa del disaccordo tra gli Stati intorno a quale tipologia di atti includere nella definizione. Infatti, nei dibattiti sorti a proposito di tale Convenzione, gli Stati arabi e afro-asiatici esercitarono forti pressioni affinché venisse riconosciuta la distinzione tra terrorismo e lotte di liberazione nazionale, diversamente dagli Stati occidentali che vi si opposero fermamente.
Di recente non sono mancati i tentativi di ricavare una definizione di terrorismo da talune risoluzioni del Consiglio di sicurezza, le quali, nel prevedere obblighi di carattere generale a carico degli Stati, si sarebbero riferite al terrorismo in termini generali e astratti, al punto da configurare un assai discusso potere “legislativo” di tale organo.
È evidente, tuttavia, come questa fumosità giuridica intorno al fenomeno in questione abbia incoraggiato politiche arbitrarie da parte dI quegli Stati che potevano esercitare de facto un grande potere all’interno del Consiglio di Sicurezza. In tal senso, una comunanza di vedute circa l’esatta determinazione giuridica del fenomeno in questione aiuterebbe molto gli Stati e i diversi attori internazionali a pianificare strategie trasversali e condivise, oltre a fornire una solida base giuridica che ne legittimi l’intervento. Si potrebbe forse così scongiurare il pericolo di una nuova War on Terror, di cui oggi, purtroppo, vediamo i drammatici esiti.
Matteo Russo
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