di Deborah Garofalo
Molti sono i minori attualmente impegnati in conflitti inter-etnici che stanno devastando alcuni Paesi del continente Africano. Guerre inumane combattute in località già decimate da condizioni di assoluta povertà. In ragione alla fluidità del fenomeno, ad oggi tuttora in espansione, si stima all’incirca la presenza di più di trecentomila bambini–soldato di età compresa tra i 6 e i 18 anni coinvolti in operazioni militari o illegali nel mondo, a partire dall’Africa fino a giungere nel Sud America.
I bambini–soldato e la guerra civile nel Sud Sudan. Un esempio rilevante è la guerra civile nel Sud Sudan scoppiata nel dicembre del 2013, due anni dopo la proclamazione d’indipendenza, al tempo in cui a Juba le milizie fedeli al presidente Salva Kiir e quelle del leader dei ribelli Riek Machare dettero inizio a una guerriglia trasformatasi in breve tempo in una vera guerra civile, con consequenziali uccisioni e violenze anche a danno dei civili. Salva Kiir aveva accusato Machare di aver pianificato un colpo di Stato per far precipitare il suo governo, innescando disordini e guerriglie interne tra le due principali etnie del Paese: i Dinka, gruppo dominante a supporto di Salva Kiir, e i Nuer, alleati di Riek Machare. Ne sono seguiti più di due anni di scontri. L’utilizzo dei “children straight eightenn” in questa guerra è divenuto sistematico: si valuta circa il 5% delle presenze per conflitto. In questo frangente, i minorenni risultano essere principalmente vittime e carnefici: rapiti dai propri villaggi e reclutati con l’uso spropositato della forza, si sono trovati immersi in conflitti armati ed esposti a brutalità inimmaginabili, privati così della loro infanzia e dei loro diritti inalienabili. Le leggi internazionali del Sud Sudan, secondo le quali reclutare ragazzi di età inferiore ai 18 anni è severamente proibito e sotto i 15 anni è considerato un grave crimine di guerra, non ha mai impedito ai soldati appartenenti alle due parti in conflitto di assoldare deliberatamente bambini al fine di utilizzarli come ipotetici combattenti. Ma per quale motivo nessun comandante sud sudanese è mai stato incriminato e successivamente processato per tale reato? Eppure i casi sono vari ed è accertato che le Autorità sono in possesso dei loro nomi. Un esempio eclatante è il caso di David Yau Yau che durante la rivolta nello Stato del Jonglei aveva costretto a combattere circa 1700 bambini–soldato; ne è altrettanto il caso del comandante dell’SPLA Matthew Puljang, che ha combattuto nello Stato di Unity usufruendo in prima fila di altrettanti minori.
Quarant’anni di violazioni. Nonostante a partire dagli anni Settanta siano state approvate convenzioni internazionali al fine di garantire la diminuzione dell’arruolamento di minori in conflitti bellici, negli ultimi decenni è stato possibile assistere ad un considerevole aumento di questo fenomeno. Motivo principale è considerato il cambiamento della natura della guerra, divenuta oggi prevalentemente religiosa ed etnica. Il reclutamento e l’utilizzo dei bambini–soldato sono una delle più pesanti violazioni delle norme che regolano i diritti umani nel mondo. L’Africa è spesso considerata l’epicentro di questo fenomeno. Ma che cosa spinge i militari a chiamare alle armi un bambino? Le motivazioni sono molteplici: l’uso di armi automatiche e leggere ha reso più facile l’arruolamento dei minori in quanto possono maneggiare con maggiore facilità mitra e fucili; si pensi che un minore è in grado di usare efficientemente un kalashnikov. Inoltre la durata dei conflitti rende continua e rapida la necessità di rimpiazzare le perdite con nuove reclute, pertanto un bambino si mostra più remissivo e meno esigente di un adulto. Sebbene la maggior parte di questi “piccoli guerrieri” sono maschi, anche le femmine rappresentano un numero significativo; nei casi più estremi, i bambini di ambedue i sessi sono usati non solo come soldati combattenti, ma come reclute soggette a violenze e allo stupro, attentatori suicidi, portatori di munizioni e fabbricanti di armi. Un altro motivo scaturisce dall’essere testimoni e autori di disumane crudeltà: esecuzioni generali, torture e soprusi spingono il bambino a desiderare di vendicare i massacri compiuti contro loro stessi o i loro familiari. Di conseguenza la differenza tra arruolamento forzato e arruolamento volontario tende ad assottigliarsi: la guerra diviene il loro unico destino dal momento che la distruzione della loro infanzia e dei legami affettivi gli impedisce di tornare alla vita quotidiana e
sociale, dove la violenza diffusa e la povertà rendono ancora più scarse le alternative al mestiere di soldato. La guerra ha strappato loro anche il diritto all’istruzione; spesso infatti le scuole sono usate dagli eserciti come basi o rifugi militari. Il 23 giugno, il Sud Sudan ha approvato la Dichiarazione “Scuole sicure”, un impegno politico internazionale che descrive le azioni che il paese dovrebbe intraprendere per consolidare la prevenzione e la risposta agli attacchi contro le scuole e il loro uso.
Accordi semi–rispettati. Il 26 agosto del 2015 grazie alla meticolosità della comunità internazionale, le due fazioni in lotta sono state indotte a firmare un accordo di pace allo scopo di interrompere i combattimenti, liberare i bambini–soldato e demilitarizzare la capitale Juba: opporsi avrebbe comportato il divieto all’acquisto di armi e portato gravi sanzioni economiche al governo del Sud Sudan. I recenti rapporti hanno evidenziato il rilascio di oltre 1.500 minori. La difficoltà affrontata nell’inserirsi nuovamente in un contesto sociale e familiare è stata alquanto rilevante, date le molteplici ripercussioni psicologiche dovute al fatto di essere stati testimoni di tanta ferocia e all’essere soggetti a ripetere azioni crudeli quali lo stupro e la violenza fisica sugli altri.
Purtroppo, nonostante gli accordi, sono ancora molti i bambini–soldati impegnati in conflitti bellici e altrettanti gli imminenti reclutamenti.
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