Della sterminata bibliografia disponibile del massimo orientalista italiano del Novecento – Giuseppe Tucci – probabilmente vi è un volume che più di ogni altro riesce ad indagare e sviscerare gli aspetti più strettamente teologici e strutturali della religione del Tibet. O meglio delle religioni del Tibet, visto che secondo Tucci non si può affatto parlare coerentemente di un unico corpo dottrinario riguardo le differenti scuole lamaiste locali, nonché tra le stesse – con il loro meticoloso e scrupoloso dibattito scolastico e formalistico – e una religiosità popolare diffusa in cui continuano ad innestarsi elementi sincretici derivanti dalle tradizioni bon e sciamaniche.
Il libro Le religioni del Tibet, apparso per la prima volta nell’edizione tedesca nel 1970 e in quella italiana nel 1976, è quindi una lettura di imprescindibile importanza al fine di comprendere pienamente tutte le articolazioni del Buddhismo tibetano, indagandone presupposti spirituali, approfondendo le vicissitudine storiche ed elencando le pratiche rituali di maggiore diffusione. In tal senso, una questione formale-linguistica che ne rimanda ad una ben più significativa dal punto di vista concettuale è data dall’abituale termine con cui Tucci si riferisce al Buddhismo tibetano, ovvero con il termine di lamaismo. D’altra parte, non fu affatto un caso se lo stesso Tucci curò la voce “lamaismo” già nell’edizione del 1933 dell’Enciclopedia Treccani. In quell’occasione, Tucci così si espresse a proposito della religione tibetana: «La parola è ormai diventata d’uso generale per indicare il buddhismo tibetano. Essa deriva da bLama “maestro”, appellativo usuale e onorifico con cui ogni tibetano laico designa i monaci. Ma negli ambienti religiosi “lama” può chiamarsi soltanto chi è notoriamente arrivato a un alto grado di santità e dottrina ed è perciò in grado di comunicare agli altri le sue esperienze o la sua sapienza. Si è convenuto dare questo nome di lamaismo alla religione tibetana e per sottolineare il carattere prevalentemente magico che essa a prima vista presenta e per contrapporre il buddhismo tibetano a quello indiano, che ancora prospera nei conventi di Ceylon. Occorre però notare che quella contrapposizione ha scarso valore perché il buddhismo tibetano continua le tradizioni non già del “piccolo veicolo” (hīnayāna), che sopravvive a Ceylon, ma del “grande veicolo” (mahāyāna) di cui esso è derivazione diretta, e che inoltre il lamaismo non si riduce soltanto a semplice magia ed esoterismo, ma degnamente perpetua le tradizioni esegetiche e dogmatiche delle grandi università indiane. Fino a oggi si è data troppa importanza alle manifestazioni popolari e spesso anche degeneri del lamaismo, mentre si è trascurata la parte dottrinale che esso pure contiene, e della ritualistica tibetana, che del resto quasi in nulla si differenzia da quella indiana, si è vista soltanto la forma esteriore e poco si è compreso della sua significazione reale e del suo contenuto simbolico e mistico. Sono dunque due gli aspetti principali sotto cui ci si presenta il lamaismo, e conviene tenerli ben separati, perché non si corra il rischio di giudicare imperfettamente tutte quante le manifestazioni di questa religione. L’aspetto popolare non si presta ancora a una descrizione completa, perché è vivo nella pratica anziché codificato o sistemato in un corpo di dottrine, e perciò necessariamente vario. Possiamo soltanto dire che esso conserva e accoglie molti culti e credenze e riti e persino deità, oggi più o meno trasfigurate in veste buddhistica, della primitiva religione dei bon po. Questa religione sistemata, specialmente, nel Tibet occidentale (Guge), per opera del riformatore gŠen rabs subì in tale sua formulazione definitiva larghi influssi indiani e anche iranici, forse dopo l’introduzione del buddhismo nel Tibet; ma nella sua essenza è di origine antichissima e certo autoctona. Essa si riduce a un complesso animismo che popola di spiriti e demoni ogni passo di montagna, la terra (sa bdag), i fiumi (klu) e le sorgenti: sono tutte deità nocive e irascibili che conviene in vario modo propiziare, molte volte anche con sacrifici cruenti e persino umani, come fino a poco tempo fa si costumava nell’alta valle della Sutlej e come ne resta traccia in molta ritualistica simbolica delle feste religiose tibetane».1
Alcune considerazioni. Anzitutto Tucci ammette una sinonimia completa tra i termini lamaismo e Buddhismo tibetano; inoltre sottolinea come questa versione del Buddhismo – il cosiddetto vajrayāna che risulta essere più prossimo alla corrente mahāyāna rispetto a quella hīnayāna – sia intrisa di elementi magici, esoterici e mistici; infine – altro elemento di fondamentale importanza – è quello rispetto alla centralità della gerarchia “ecclesiastica” di questa corrente buddhista, in cui il ruolo del lama (maestro) è non solo caratterizzante dal punto di vista spirituale, ma diventerà poi propedeutico all’impostazione di un’architettura sociale di tipo essenzialmente teocratico. Non è un caso – con assoluta coerenza analitica – che Tucci riferendosi al lamaismo lo definisca come una forma trasfigurata del Buddhismo vero e proprio.
Nei nostri precedenti lavori abbiamo già avuto modo di ricordare che il Buddhismo tibetano pratica la forma del “Veicolo di diamante” (vajrayana). Secondo la tradizione, la penetrazione del buddhismo nel Tibet è legata all’opera del re Sron-btsan-sgam-po (620-649 ca.) ma è probabile che una prima penetrazione di dottrine buddhiste di provenienza cinese e centro-asiatica si sia verificata ancora prima di quest’epoca. Il periodo che va dal X al XV secolo vide il consolidamento del Buddhismo in Tibet e la definitiva sistemazione del Canone, che risultò diviso in due grandi sezioni, una contenente i sutra, il tantra, le regole di disciplina, l’altra la letteratura esegetica. La crescente mondanizzazione della setta Sa skya pa (così chiamata dal monastero di Sa Skya, fondato nel 1073), finì con l’accentrare il potere temporale nelle mani dei religiosi e consentì loro di esercitare per secoli un forte dominio teocratico su tutto il paese. Tale potere venne legittimato politicamente dallo stesso Kubilai khan (capo dei tartari, nipote di Gengis Khan) nel XIII secolo, che concesse loro la sovranità (ereditaria di fatto, in quanto gli abati di questa setta, non vincolati al celibato, potevano contrarre matrimonio e quindi trasmettere il potere ai propri figli) su tutto il Tibet. Si stabilirono in questo modo quelle relazioni ufficiali tra i due popoli che porteranno al vassallaggio del Tibet sotto i Mongoli e poi sotto l’Impero cinese. Il Buddhismo tibetano è chiamato lamaismo dal termine lama, cioè maestro. Il potere teocratico del lamaismo si esercita attraverso una comunità fortemente gerarchizzata a capo della quale sono due Lama: il Dalai Lama (ovvero maestro che è oceano di saggezza) e il Pan c’en-Lama. Il primo risiedeva nel convento Potala a Lhasa e deteneva il potere supremo sul Tibet; il secondo invece dimorava nel monastero di Ta-shi-lhum-po e deteneva il potere spirituale. In ordine di dignità ai due grandi lama, seguono 180 Hutuktu, considerati incarnazioni di bodhisattva e di dèi. Ogni volta che un lama muore, i dignitari religiosi si pongono alla ricerca di un bambino nel quale si può avere la certezza (in base ad eventi straordinari) che si è rifugiata l’anima del lama defunto: ove le prescritte prove di accertamento confermino la validità delle scelte, il predestinato viene ad occupare di diritto il posto del lama deceduto. Tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è quello dei “Buddha viventi”, ossia dei grandi monaci i quali, durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione come esseri divini. Il Lamaismo è oggi presente, oltre che in Tibet/Xizang, in Mongolia, nella Cina del Nord e dell’Ovest, in Turkestan, Nepal, Bhutan, Sikkim e in alcune regioni russe quali Buriazia e Calmucchia.
Tornando al testo di Tucci, si può senza dubbio affermare che esso risulti ancora oggi una guida completa dei fenomeni religiosi e spirituali dell’area tibetana. Infatti l’autore propone, dopo una guida propedeutica alla comprensione della scrittura e della pronuncia di vocaboli tibetani e indiani, anzitutto una disamina storica approfondita della penetrazione buddhista nella regione, occupandosi della prima diffusione del buddhismo nel Tibet, della coesistenza iniziale e poi dell’antitesi tra i diversi indirizzi, delle procedure di ordinazione, fondazioni di monasteri, donazioni a monasteri, dell’influsso delle filosofie indiane e cinesi. In seguito, si passa ad una parte più teoretica, esaminando i caratteri generali del lamaismo, i principali indirizzi didattici, i noti contrasti tra le scuole e loro importanza per la storia politica del Tibet, il ruolo della figura del Dalai Lama e del Panchen Lama, quindi la vita del monachesimo, la vita monastica, il calendario religioso e le feste , l’organizzazione delle comunità monastiche ed il loro ordinamento gerarchico e le rispettive cariche, la proprietà del convento e sua amministrazione. Infine ci sono altri due capitoli dedicati alla religione popolare e alla religione Bon, in cui si prendono in esame le loro caratteristiche generali, il ruolo dell’uomo di fronte alle forze divine e demoniache, aspetti quali la protezione personale e protezione della casa, il concetto di anima e il rapporto con la morte, la visione del futuro attraverso l’indagine sui segni di buono o cattivo auspicio, la protezione della proprietà e delle greggi. Insomma un compendio di ogni aspetto della vita monastica e laica del Tibet, sotto l’egida di quel complesso e frammentato universo spirituale che si è appunto definito lamaismo.
L’aspetto sul quale tenteremo di soffermarci maggiormente, onde chiarire a peculiarità del lamaismo rispetto alle altre varianti buddhiste, risulta essere quello relativo alle considerazioni teologiche e teoretiche proposte da Tucci nel suo volume. In tal senso, una prima considerazione va fatta a proposito della complessa stratificazione – che potrebbe definirsi sincretica a tutti gli effetti – attuata dal lamaismo rispetto all’assimilazione di elementi sciamanici ed animistici locali ad esso preesistenti. A tal proposito Tucci si esprime con le seguenti parole: «Perciò quando si parla di lamaismo bisogna sempre distinguere tra credenze, miti, riti e formule esorcistiche buddhistici e prebuddhistici in quanto questi ultimi sono stati abilmente elaborati e assimilati dal lamaismo. Quest’eredità magico-religiosa accolta dal lamaismo, certamente non interamente importata dall’India, ma piuttosto codificata in schemi rituali influenzati dall’India – somma di tutto ciò che assicura al Tibetano conforto e difesa dalle forze ostili – verrà trattata nel capitolo dedicato alla religione popolare. Tuttavia, sia la struttura dottrinale sia il rituale del lamaismo debbono sempre considerarsi in rapporto con la tradizione buddhistica in sé medesima. Tale discorso non ci deve indurre a definire il lamaismo come una specie di appendice, o di inserire la sua descrizione di ciò che esso è in un sommario generico del buddhismo. Una semplificazione di tal genere è inammissibile. Il pensiero tradizionale indiano è senza dubbio alla base dell’interpretazione lamaista del rapporto fra mondo apparente e realtà. Non per questo può negarsi che il pensiero lamaista è, sotto molti punti di vista, singolare, e che certi suoi aspetti pratici e speculativi hanno un rilievo importante per causa del suo manifestarsi in scuole di diverse tendenze. Sono precisamente casi concreti di questo genere, accentuazione e convergenze che suscitano interessi particolari nel suo contesto. Anche se siamo costretti, in questa esposizione, a ripetere cose familiari a chi conosce il buddhismo indiano, in particolare vorremmo tuttavia tentare di chiarire certi problemi sui quali il buddhismo tibetano ha portato una singolare attenzione. Saremo pertanto costretti a riassumere tutto ciò brevemente, sebbene i particolari del processo di liberazione siano estremamente complicati, le omologie fra i momenti di contemplazione e di meditazione da una parte, i gradi corrispondenti dell’ascesi e di purificazione dall’altra, meriterebbero una trattazione più elaborata, e che entrasse più a fondo in particolari specifici. Tenendo conto di siffatte limitazioni, bisogna sempre insistere sul fatto innegabile che nel Tibet la dottrina buddhista e il suo ulteriore sviluppo dommatico si presentano come la continuazione di quel buddhismo indiano che professavano le comunità buddhistiche dell’India, dell’Asia centrale e della Cina. Ciò significa che nella sua penetrazione nel Tibet il buddhismo portò con sé non solo impostazioni dommatiche divergenti, ma anche idee di diverso genere, spesso parallele, più o meno chiaramente formulate e commentate. Inoltre introdusse una liturgia estremamente complessa interpretata con sottile simbolismo, pratiche mistiche e pratiche yoga per il più facile raggiungimento di esperienze straordinarie e un’eredità di magia dalle forme smisuratamente varie, alimentata da sorgenti molto lontane nel tempo. Un sistema siffatto non poteva non soddisfare le aspettative delle masse popolari meno colte».2
Come anticipato, oltre al sincretismo teorico un secondo elemento caratterizzante del lamaismo risulta essere quello della codifica di una gerarchia ben determinata, impersonificata dalla figura dei maestri-lama. Tucci ha modo di esprimersi su questo argomento, riconducendo tale figura alla tradizione indiana ed all’analoga figura dei guru: «Riprendendo e sviluppando la tradizione indiana, il lamaismo pone al centro la figura del maestro, bla-ma; ma è da tener presente che non tutti i monaci possono essere considerati bla-ma; in India, nelle scuole che potremmo definire magico-gnostiche, sia buddhiste sia scivaite, il maestro (sanscrito guru) appare il pilastro principale della vita mistica. Quando è adirato Siva – insegnano le scritture scivaite – il guru lo può placare, ma quando è adirato il guru nessuno lo può placare. Anche nel buddhismo mahàyàna e vajrayàna il guru (tibetano bla-ma) è considerato capace di trasmettere, grazie al contatto vivo e diretto, la lettera e il significato riposto della dottrina e di accendere la scintilla dalla quale divampa il fuoco della vita mistica. Il vincolo che lega il maestro al discepolo è un rapporto di padre a figlio di tipo mistico (t’ugs sras), quindi più importante dei vincoli del sangue: yab sras – padre e figlio – significano maestro e discepolo. In India la continuità spirituale che unisce il maestro al discepolo, grazie alla quale i due rappresentano gli anelli di una catena che assicura la durata ininterrotta della dottrina e dell’esperienza mistica, è detta sampradàya, nel Tibet brgyud. Parola (tu;’) e potere (dba;,) vengono trasmessi dall’uno all’altro nella loro unione inscindibile. Parole ed esperienze vengono tramandate come cose vive, secondo la norma detta govatsanyaya dagli asceti indiani, cioè «coesione viva come tra mucca e vitello alimentato col latte della madre» 8. L’istruzione basata unicamente sulla parola scritta, non confortata dall’assistenza di un bla ma, non solo rimane senza effetto, ma può addirittura deviare dalla retta via ed essere dannosa. Se questa catena si interrompe, la dottrina contenuta solo negli scritti perde la propria efficacia; è come un corpo morto che nessuna forza al mondo può risuscitare. Quindi nella figura del maestro, il bla ma, sono riunite due funzioni, anche se i due aspetti possono esser definiti con la stessa parola e possono essere riuniti nella stessa persona: il bla ma da un lato tramanda la parola (tun), continua la dottrina, dall’altro conferisce il potere (idban) mediante l’iniziazione o consacrazione (dbati). Anche in India, oltre allo siksa-gur (il maestro della dottrina), troviamo il diksa-guru, il maestro dell’iniziazione. In casi speciali la rivelazione ha luogo nel sogno o mediante comunicazione diretta da parte di una divinità. Questo non deve meravigliare; il sogno ha un significato particolare nella vita mistica di ogni religione e in special modo nell’induismo e nel buddhismo. Perciò nel lamaismo bisogna distinguere due aspetti: il mondo religioso, monastico o eremitico, dedicato – a seconda della scuola o della. tendenza – alla dommatica o alla liturgia, all’ascesi o allo yoga, soggetto a regole fisse, esperto di dottrina e di ritualistica, iniziato alle esperienze mistiche, in virtù della consacrazione; e il mondo laico, esterno al primo ma strettissimamente collegato con esso, che respira la stessa aria religiosa e spirituale».3
Un terzo elemento di differenziazione tra lamaismo e Buddhismo lo si può evincere, sempre secondo l’orientalista italiano, dal ruolo di superiorità spirituale riconosciuta alla figura del lama, aspetto del tutto assente nelle altre varianti maggioritarie diffuse hīnayāna e hahāyāna, le quali prediligono, sia pur con sfumature assai differenti, l’aspetto meditativo, immateriale e psicoterapeutico della disciplina spirituale: «Certo tra il laico e il monaco esiste sempre la linea divisoria tra i voti minori e l’osservanza dei maggiori e delle regole disciplinari. Se questi diversi modi separano il laico dal monaco – con le diversità che caratterizzano le varie comunità monastiche (rab-byun) – tuttavia nella vita pratica l’osservanza delle prescrizioni etiche sancite dal buddhismo antico per i laici (le cinque astensioni: non uccidere, non rubare, non asserire il falso, non fornicare, non ubriacarsi) subì una certa mitigazione; nella tradizione antica invece queste prescrizioni dovevano essere rispettate senza eccezione sia dal laico (dge bshen, upasaka) che dal monaco. In seguito si diffusero le regole mahàyàniche, piu tolleranti: il Mahàyàna dà importanza soprattutto al voto di conseguire l’illuminazione; perciò è definito anche Veicolo dd Pensiero dell’Illuminazione (byan c’ub t’eg). Le prescrizioni mahàyàna stabiliscono tre norme morali essenziali: voto di astensione dal male, accumulazione di opere buone (dge ba c’os sdud), agire per il bene di tutte le creature (sems can don byed). Queste regole valgono sia per il laico che per il monaco. Per il monaco queste tre norme si fondono con quelle della disciplina monastica. Secondo il Veicolo Esoterico, il Vajrayiina (sNags t’eg), negli individui di condizione spirituale superiore (quale esempio classico viene citato Indrabbùti) queste tre norme si realizzano insieme, mediante accettazione pronta e libera, in quelli di condizione spirituale media si realizzano per grado e in quelli di indole inferiore con ritmo ancora più lento. Per quanto riguarda il monaco, non tutte le scuole gli impongono il voto di castità e di astinenza dalla carne e dalle bevande alcoliche».4
Venendo alle conclusioni, per quanto questo testo richiederebbe una disamina assai meno riduttiva costituendosi quale e vera e propria summa della religiosità tibetana tradizionale, basti affermare lo studioso di Macerata ha avuto tra gli altri il merito di distinguere nel lamaismo due aspetti che non si contrappongono ma si completano: la speculativa e la gnostica. Se la prima è l’introduzione teorica, la seconda è l’effetto, l’esperienza mistica; iter meditativo quella, pratica ascetica yoga ed esoterica questa; due rami di un medesimo tronco. Se non è affatto facile ad intendere il Buddhismo tibetano, perché la terminologia non sempre può tradursi in modo adeguato nel nostro linguaggio filosofico; la via della gnosi è esperienza altrettanto impervia: introspezione, autoallucinazione, pratiche mistiche che coinvolgono la vita psicosomatica dell’individuo. È dunque il Buddhismo del “Grande Veicolo”, o soprattutto del Veicolo di Diamante (non del Piccolo Veicolo) quello che percorse trionfalmente l’Asia dall’Iran, che vi introdusse elementi nuovi, alla Cina, al Giappone; religione forse oggi in risveglio nel declinare di altre soffocate da un conformismo svuotato di un concreto e vivificante contenuto spirituale. Anzi il Buddhismo dà segno di nuovo vigore e ripresa non soltanto in Giappone ma in Europa e soprattutto nei paesi occidentali. Difficile è seguire la via meditativa, più difficile ancora descrivere i vari momenti che si succedono nella vita dell’iniziato, in progressivo transfert dalla persona umana ad un piano transumano e metafisico. Lo scopo è per tutti quello di diventare Buddha, ma si può rinunciare a questo definitivo salto di piani per restare nella vita, esempio edificante e redentore delle virtù con lo scopo di guidare gli altri alla salvazione. Il nostro corpo è un mezzo necessario alla redenzione: i cinque componenti materiali di cui è il risultato si trasformano nei cinque Buddha supremi, ma anche nelle cinque passioni innate in noi. Le complesse meditazioni consistono nell’attuazione di piani diversi, in liturgie in cui la donna è una partner indispensabile, come lo è in molte scuole tantriche, ma per conseguire l’innata, indefinibile unità primordiale, al di là di ogni definizione od espressione verbale.
L’eccezionale importanza di Tucci, e di questo suo lavoro nella fattispecie, ha in definitiva diverse ragioni: prima di tutto ha condotto numerose spedizioni di carattere veramente pionieristico, condotte spesso a piedi e con una pistola in mano, attraverso il Tibet, il Nepal e altri paesi asiatici in un momento in cui questi paesi in Europa erano praticamente sconosciuti. Secondariamente, ha poi fondato a Roma il primo Museo Nazionale di Arte Orientale, dove ha riunito i suoi e altri tesori e infine, ha creato la più grande collezione europea di testi tibetani, incluso molti rari manoscritti che ha salvato dalla distruzione. Oltre a questo ci sono 500.000 fotografie del tempo di questi paesi, che provengono perlopiù dai suoi compagni di spedizione come Fosco Maraini. Lo stesso Tucci ha scritto circa 400 opere sulla geografia, la storia, l’archeologia, la filosofia, la religione e il folclore dell’Asia. Molte di loro, nonostante sia passato del tempo, sono ancora delle vere e proprie opere di base. Questo vale particolarmente per i suoi tre volumi del suo monumentale lavoro Tibetan Painted Scrolls sull’arte delle thangka. Molte opere d’arte, mostrate nei loro colori originali, si possono ammirare solo in questo lavoro dal momento che sono ormai perse. Dal punto di vista linguistico Tucci era ideale per questo lavoro perché padroneggiava, oltre alle classiche lingue europee, anche il tibetano, il sanscrito, il pali, il cinese, il persiano e l’ebraico e traduceva da queste e in queste lingue. I suoi dettati dei sacri testi, dal cinese tradotti di nuovo in sanscrito, lingua in cui questi testi sono andati persi, sono diventati famosi. Ed anzi imprescindibili per chi oggi vuole affacciarsi nel complesso ma affascinante mondo della spiritualità centro-asiatica.
Marco Costa
BIBLIOGRAFIA
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G. Tucci, Le religioni del Tibet, Edizioni Mediterranee, Roma, 1976.
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G. Tucci, Il Buddhismo. Scuole, dottrine e storia, Ghibli, Milano, 2013.
-
C. Seccaroni, Dipinti tibetani dalle spedizioni di Giuseppe Tucci, De Luca Editori, Roma, 2008.
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E. Garzilli, Enrica Garzilli, L’esploratore del Duce. Le avventure di Giuseppe Tucci e la politica italiana in oriente da Mussolini a Andreotti, Memori, Roma, 2012.
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F. Maraini, Segreto Tibet, Corbaccio, Milano, 1998.
1 Vedi http://www.treccani.it/enciclopedia/lamaismo_(Enciclopedia-Italiana)/
2 Vedi G. Tucci, Le religioni del Tibet, Edizioni Mediterranee, Roma, 1976, pp. 51-52.
3 Vedi G. Tucci, Le religioni del Tibet, Edizioni Mediterranee, Roma, 1976, pp. 67-68.
4 Vedi G. Tucci, Le religioni del Tibet, Edizioni Mediterranee, Roma, 1976, pp. 68-69.
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