Articolo originale: http://www.ilcaffegeopolitico.org/37948/gli-usa-il-pivot-anticinese-e-i-pericoli-di-guerra
La Cina rappresenta davvero una minaccia a livello geopolitico per gli Stati Uniti e i Paesi ad essa confinanti nella regione del Pacifico? Vi presentiamo un estratto del Prof. Domenico Losurdo che analizza alcune questioni relative alla cosiddetta “minaccia cinese”
IL PIVOT ASIATICO – Il “pivot” viene spesso presentato in Occidente come una risposta alla “minaccia“proveniente da Pechino. Non c’è dubbio che con l’ascesa o, più esattamente, col ritorno della Cina, dopo la fine del “secolo delle umiliazioni“, e con l’avanzare del processo di maturazione della Repubblica popolare, il quadro internazionale sta cambiando in modo radicale. Nel marzo 1949 il generale statunitense MacArthur poteva constatare compiaciuto: «Ora il Pacifico è diventato un lago Anglo-Sassone» (in Kissinger 2011, p. 125). Dati i rapporti di forza esistenti, gli USA potevano sperare di bloccare con il loro intervento l’ascesa al potere del partito comunista e di Mao Zedong; la speranza andava rapidamente delusa e a Washington, tra polemiche furibonde, si scatenava la caccia al responsabile della “perdita” del grande Paese asiatico.
Il Pacifico non era più in senso stretto “un lago Anglo-Sassone” ma, come sappiamo, ancora alla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti violavano indisturbati lo spazio aereo e marittimo cinese. Erano gli anni in cui la superpotenza ormai solitaria cercava di consolidare e rendere permanente e incolmabile la sua già netta superiorità militare mediante la Revolution in Military Affairs. Questa conosceva il suo trionfale battesimo del fuoco nel corso della prima guerra del Golfo: pur armato in misura non trascurabile, l’Irak di Saddam Hussein subiva una disfatta rapida e irreparabile. Suonava un campanello d’allarme soprattutto per i paesi che da poco si erano scossi di dosso il giogo coloniale.
A Pechino, nel giugno 1991 Jiang Zemin (2010, pp. 134, 136 e 591) esprimeva la sua preoccupazione: «Se anche una guerra mondiale non è imminente, il mondo è ben lungi dall’essere pacifico»; «particolarmente preoccupante è la Guerra del golfo». «Il ruolo della tecnologia militare è diventato una questione importante»: per quanto riguarda la Cina, in certi settori dell’apparato militare «il gap si sta aggravando». È un concetto precisato e ribadito cinque anni dopo: «L’applicazione su larga scala di tecnologie nuove e sofisticate sta cambiando il mondo in profondità sul piano non solo sociale ed economico ma anche militare e sta introducendo mutamenti rivoluzionari nella sfera militare». Il mancato appuntamento con la prima rivoluzione industriale e tecnologica aveva segnato l’inizio del «secolo delle umiliazioni»; il mancato appuntamento con la rivoluzione industriale tecnologica e militare in corso avrebbe comportato il ripetersi della tragedia forse su scala più larga. In questo quadro vanno inseriti gli sforzi in questi ultimi anni dispiegati dalla Cina per ridurre il suo ritardo sul piano militare.
MINACCIA CINESE? – Argomento di fantapolitica anche nel passato più recente, la «minaccia cinese» ha assunto improvvisa realtà e concretezza ai giorni nostri? Diamo la parola a uno studioso statunitense di origine cinese, autore di un libro pubblicato da un’istituzione in qualche modo ufficiale del Paese-guida dell’Occidente (Strategic Studies Institute, U. S. Army War College). Ebbene, in questo studio possiamo leggere che, secondo alcuni analisti, i missili cinesi potrebbero «costringere la Marina statunitense a operare a più lunga distanza dalla costa [cinese], almeno nella fase iniziale del conflitto» (Lai 2011, p. 217). Stando così le cose, si possono capire i rimpianti di Washington per il fatto che il Pacifico non è più (nella sua parte occidentale) “un lago Anglo-Sassone”, anzi un “lago privato”(Dyer 2014, p. 2), o per il fatto che non è più agevole violare lo spazio territoriale, aereo e marittimo, del grande Paese asiatico; e tuttavia sembrerebbe azzardato parlare di “China Threat” o di “pericolo giallo“! Attualmente, la marina militare statunitense, che gode di una schiacciante superiorità, «opera a poche miglia di distanza da molte delle più importanti città cinesi» (Dyer 2014, p. 1). Se questo è già sinonimo di «minaccia cinese», cosa si dovrebbe dire di una situazione rovesciata, in base alla quale fosse una superiore marina militare cinese a tenere sotto controllo e sotto minaccia, a distanza di poche miglia, San Francisco e New York? In realtà, su Foreign Affairs, l’autore dell’articolo che già conosciamo sulla capacità di primo colpo nucleare conseguita dagli USA, sottolinea compiaciuto «il passo glaciale della modernizzazione delle forze nucleari cinesi»: dunque, «le probabilità che Pechino acquisisca nel prossimo decennio un deterrente nucleare capace di sopravvivere sono esili […] Contro la Cina gli Stati Uniti hanno oggi una capacità di primo colpo e saranno capaci di mantenerla per un decennio e anche più» (Lieber, Press 2006, pp. 43 e 49-50).
Ma come spiegare allora i conflitti per alcune isole collocate nel Mar Cinese Orientale e nel Mar Cinese Meridionale? Riprendiamo la lettura dello studio pubblicato dallo statunitense Istituto di Studi Strategici:
«La Cina ha una lunga storia di pescatori che pescavano in queste acque così come di rivendicazioni ufficiali di queste isole. Presumibilmente, i cinesi per primi dettero loro un nome, le utilizzarono come punti di riferimento per la navigazione, tentarono di designarle come territori cinesi collocandole sotto la giurisdizione delle province costiere meridionali della Cina e definendole come tali sulle mappe. Per secoli i cinesi hanno dato per scontato che questo titolo storico (historical reach) stabiliva la loro proprietà su queste isole e sulle acque circostanti» (Lai 2011, p. 127).
Intervenivano poi il declino della Cina e l’espansionismo coloniale: «negli anni ’30 i francesi presero possesso delle isole Paracelso [Xisha in cinese] e Spratly [Nansha in cinese] in modo da espandere la portata del loro protettorato coloniale», mentre «durante la seconda guerra mondiale il Giappone assunse il controllo di tutte le isole del Mar Cinese Meridionale» (Lai 2011, p. 128). Con la Dichiarazione del Cairo (1943) e la proclamazione di Potsdam (1945) il Giappone si impegnava a restituire tutti i territori che «aveva rubato». Sennonché, in seguito allo scoppio della guerra fredda, alla Conferenza di Pace di San Francisco non venivano invitate né la Repubblica popolare cinese né la Repubblica cinese (Taiwan); il Giappone alleato degli USA poteva così trattenere le isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi). Esse avrebbero dovuto essere restituite ma nelle nuove circostanze erano di grande utilità quale pistola puntata contro il nemico scaturito da una grande rivoluzione anticoloniale e ispiratore in Asia di un’ulteriore ondata di rivoluzioni anticoloniali. Dava prova di preveggenza il primo ministro Zhou Enlai, che alla vigilia della conferenza condannava gli USA per il fatto «di privare la Cina del suo diritto a recuperare i suoi territori perduti» e «di varare un trattato per la guerra, non per la pace, nel Pacifico Occidentale» (Lai 2011, p. 129).
Vale la pena di notare che sulle isole contese la Repubblica popolare cinese non assume una posizione diversa dalla Repubblica di Cina (Taiwan). Anzi, sembrerebbe che quest’ultima abbia dato prova di maggiore fermezza, a giudicare almeno dalla fonte statunitense più volte citata:
«Nel 1946, il governo della Repubblica di Cina inviò navi da guerra per “recuperare” le isole Paracelso e Spratly. In un mondo che enfatizzava il controllo di fatto piuttosto che le rivendicazioni storiche, la Cina avrebbe potuto mantenere lì le sue truppe al fine di esercitare il controllo di fatto su quei territori e affermare il possesso fermo e incontestabile di quelle isole. Per aver mancato di far ciò e aver trascurato per decenni le isole del Mar Cinese Meridionale i leader cinesi [in primo luogo della Repubblica popolare] hanno da rimproverare se stessi […] I leader cinesi [della Repubblica popolare] sciuparono tutto il loro tempo e tutte le loro energie impegnando i cinesi gli uni contro gli altri in “perpetue rivoluzioni e lotte di classe”, mentre lasciavano incustoditi i territori contesi in mare aperto» (Lai 2011, p. 130).
PECHINO VS. TOKYO – A rivelarsi particolarmente intrattabile è il conflitto tra Cina e Giappone, ma è quest’ultimo ad averlo provocato. La verità finisce con l’emergere dalle stesse analisi di giornalisti e studiosi occidentali: “ragionevole” è la rivendicazione avanzata da Pechino sulle isole Diaoyu (ovvero Senkaku); e si tratta di una rivendicazione avanzata dalla nazione cinese nel suo complesso, che anzi spesso rimprovera ai suoi governanti di assumere un atteggiamento «troppo conciliante e molle»(Kristof 2013). Nonostante ciò – sottolinea un sociologo britannico – la Cina si accontenterebbe di definire “contesa” l’appartenenza di quelle isole, rinviando la soluzione del problema alle future generazioni. Si tratta di una proposta già avanzata a suo tempo da Zhou Enlai e inizialmente accettata dal Giappone, che ora invece la respinge seccamente. È una «follia» che si spiega con l’ondata sciovinistica che scuote il Paese (Dore 2013). Si tratta di una nazione – occorre aggiungere – che fatica a fare i conti col suo passato. Nel 1965, mentre infuriava l’aggressione contro il Vietnam, il primo ministro giapponese Eisaku Sato sollecitava il segretario statunitense alla difesa, Robert McNamara, a far ricorso all’arma nucleare nel caso di guerra contro la Cina, colpevole di aiutare il Vietnam (International Herald Tribune 2008). Ai giorni nostri, incoraggiato e reso spavaldo dall’appoggio degli USA e dal «pivot» anticinese da essi inscenato, il governo giapponese si ostina in un negazionismo che, […] a causa del suo radicalismo, finisce con l’inquietare anche Washington.
In ogni caso, del tutto pretestuosa si rivela la parola d’ordine del “China Threat” (ovvero del “pericolo giallo”): questa parola d’ordine è un completo stravolgimento della verità. Il fatto è che non possiamo considerare definitivamente conclusa la lotta di liberazione nazionale che ha presieduto alla nascita della Repubblica popolare cinese. Non si tratta solo di Taiwan. Insistenti risuonano le voci che prevedono o auspicano per il grande paese asiatico una fine analoga a quella subita dall’Unione Sovietica o dalla Jugoslavia: «una nuova frammentazione della Cina è l’esito più probabile» – annunciava un libro di successo pubblicato a New York l’anno stesso dell’«implosione» del paese sconfitto nel corso della guerra fredda (Friedman, Lebard 1991).
L’IPOTESI DELLA DISGREGAZIONE – Da allora, negli USA e nei paesi a essi alleati, si sono moltiplicate le prese di posizione di analisti, strateghi, politici, uomini di Stato che prevedono o invocano la “frammentazione del colosso cinese”, il suo smembramento in “sette Cine“ o in “molte Taiwan“. L’ideale sarebbe procedere a una “disintegrazione dall’interno” (disintegration from within). In ogni caso Washington è chiamata ad «affrontare in maniera più coerente la futura frammentazione della Cina». Siamo in presenza di una campagna che si muove su vari fronti: dà da pensare il premio conferito dal Los Angeles Times a un libro che invoca il ritorno alla Cina della dinastia Ming (che vede la sua fine nel 1644), con esclusione quindi del Tibet, del Xinjiang, della Mongolia interna e della Manciuria. […] Ma, ovviamente, l’autore qui citato ha di mira solo la Repubblica popolare cinese: assieme dunque a secoli di storia, dovrebbe essere rimessa in discussione una parte assai considerevole (pressappoco la metà) del suo odierno territorio. Ancora oltre va un altro libro acclamato in Occidente (Ross Terrill, 2003, The New Chinese Empire And What It Means for the United States): occorre contrastare il governo di Pechino anche a proposito dell’«invenzione di un’unica etnia di cinesi Han»; in realtà al loro interno sussistono notevoli differenze per quanto riguarda la stessa lingua, e dunque….
Talvolta, il desiderio di sbarazzarsi di un potenziale concorrente ama camuffarsi come previsione storica: «Alcuni esperti hanno addirittura profetizzato il ripetersi di uno di quei cicli storici in cui si è assistito allo smembramento del Paese, che farebbe svanire i sogni di grandezza della Cina» (Brzezinski 1998, p. 218). Qualunque sia il linguaggio di volta in volta usato, abbiamo a che fare con un obiettivo perseguito indipendentemente dalla politica messa in atto dal governo di Pechino sul piano nazionale o internazionale: nel 1999, l’anno del bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado, un esponente di rilievo dell’amministrazione statunitense dichiarava che, già solo per la sua «dimensione», la Cina costituiva un problema ovvero una potenziale minaccia (Richardson 1999).
Non stupisce allora che, nel ricevere il Premio per la Pace dei librai tedeschi, il «dissidente» cinese Liao Yiwu abbia pronunciato un discorso la cui parola d’ordine era, in riferimento al suo paese: «Questo Impero deve finire in pezzi» (auseinanderbrechen) (Köckritz 2012). Come si vede, lo smembramento della Cina, comunque conseguito, viene considerato un contributo alla causa della pace. Resta il fatto che è il Paese di cui si progetta, o si invoca o si sogna, lo smembramento a essere realmente minacciato.
Domenico Losurdo
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