Progetto di ricerca CeSEM, FOCUS – Balcani, la storia in movimento: quali conseguenze per l’Europa?
Risulta ancora oggi interessante ricordare la specificità del modello socialista jugoslavo che, sia pure ormai archiviato da un ventennio sullo “scaffale della storia”, per oltre quattro decenni del secolo scorso ha caratterizzato l’economia e l’inquadramento geopolitico di una importante nazione ai nostri confini. Rispetto al campo dei paesi socialisti del Novecento, la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia ha infatti detenuto il primato (meritevole o deplorevole, a seconda dei diversi e legittimi punti di vista) di essersi posta come prima “eresia” dei paesi del cosiddetto “socialismo reale”.
Per comprendere le grandi e frequenti trasformazioni subite dal sistema economico jugoslavo basato sull’autogestione, e scoprirne le origini, è necessario risalire nel tempo almeno fino alla rottura con l’Unione Sovietica. Non è questa la sede per esaminare particolareggiatamente le circostanze che portarono alla decisione presa dal Cominform nel giugno del 1948; tuttavia dobbiamo accennare brevemente ad alcune cause dei contrasti che si erano venuti formando tra i due paesi. Tali cause si possono far risalire al 1937 durante l’esilio a Mosca dei comunisti jugoslavi, nel periodo delle cosiddette “purghe” staliniane. Da alcuni discorsi di Tito traspare una forte volontà autonomistica già radicata nel gruppo dirigente del PCJ negli anni precedenti la guerra di liberazione popolare, per quanto quest’ultima sia stata condotta in nome di un internazionalismo che riconosceva ancora la guida dell’Unione Sovietica e s’impegnava a difenderla, come unico paese socialista, contro gli attacchi dell’imperialismo. Tuttavia i primi veri dissensi nacquero durante la guerra di liberazione, si accentuarono durante l’entrata dell’Armata Rossa in territorio jugoslavo e, immediatamente dopo la guerra, in occasione dell’organizzazione della polizia segreta. Vennero poi le polemiche sulla federazione con la Bulgaria (possibile centro socialista balcanico alternativo a Mosca) , sull’autenticità della rivoluzione jugoslava e sul modello di costruzione del socialismo. Nel giugno del 1949 il Komunist, organo del Partito comunista jugoslavo per la teoria e la prassi marxista, pubblicò un articolo di Milentije Popovic, uno dei principali esponenti della direzione ideologica del paese, intitolato Dei rapporti economici tra i paesi socialisti, che forse ci permette di scoprire la ragione decisiva della rottura tra la Jugoslavia e i paesi cominformisti. L’articolo denuncia lo sfruttamento economico compiuto dall’Unione Sovietica e dagli altri paesi dell’Europa orientale a spese della Jugoslavia attraverso il commercio internazionale. Già nel novembre del I948, in un discorso tenuto a Lubiana, Tito aveva affermato che «i rapporti economici tra i paesi socialisti ancora oggi si fondano sui principi dello scambio capitalistico di merci», e su questa premessa Popovic basò la sua analisi, sostenendo che esisterebbe un tasso di profitto medio mondiale che, nello scambio internazionale, regola la distribuzione del profitto favorendo i paesi più sviluppati, i quali posseggono una composizione organica del capitale superiore alla media mondiale. Nei paesi arretrati il livello della produttività e dell’intensità del lavoro è inferiore a quello medio mondiale; e inoltre, poiché privi di una industria competitiva, essi sono costretti a entrare nel mercato internazionale mediante prodotti agricoli e dell’industria estrattiva, cioè con merci prodotte dai settori generalmente meno produttivi, peggiorando così ulteriormente le loro condizioni di scambio. La Jugoslavia che, secondo i dati forniti da Popovic, era il paese meno sviluppato del blocco comunista in quasi tutti i settori produttivi, si rifiutò di accettare la struttura degli scambi, i prezzi e le società miste che le venivano imposti, appellandosi a principi di solidarietà e di aiuto del mondo socialista.
Tuttavia, immediatamente dopo la rottura, gli jugoslavi cercarono di riacquistare l’amicizia dei fratelli socialisti, pur riaffermando la loro indipendenza, e «il V Congresso del PCJ [svoltosi nell’ottobre del 1948] constata che, nonostante le ingiuste accuse e le divergenze […] la direzione del PCJ e il PCJ sono rimasti del tutto fedeli ai principi della solidarietà proletaria internazionale e dell’unità del fronte democratico antimperialista». Furono ribadite soltanto le condizioni specifiche in cui si trovava il paese e che condizionavano la forma di edificazione del socialismo. Uno dei punti più controversi della polemica ufficiale tra il PCUS e il PCJ era il problema contadino. Nelle famose lettere scambiate dai comitati centrali dei due partiti nel 1948, i comunisti jugoslavi erano definiti un partito di kulakí e Kidriš si difese contro questa accusa dicendo: «Il corso della nostra rivoluzione non soltanto permetteva, ma esigeva – e seppe realizzare – un’alleanza continua con il contadino medio, nonostante le sue varie esitazioni, mentre nella rivoluzione russa, durante la lotta contro il potere borghese, chi esitava e si opponeva maggiormente era proprio il contadino medio e perciò a quel tempo si rese necessaria una politica di alleanza col contadino povero e di neutralizzazione del contadino medio».
La tensione con l’Unione Sovietica crebbe rapidamente, e il congresso del 1952 fu il congresso della rottura definitiva. Gli oratori del gruppo dirigente jugoslavo scesero in campo con parole di fuoco contro Stalin. L’emotivo e mediterraneo Djilas, in un intervento memorabile, interpretò lo spirito generale del momento: il crollo delle illusioni. Dalla polemica con l’Unione Sovietica si passò alla critica della società sovietica e quindi alla critica del modello che la stessa Jugoslavia aveva adottato: un paese che conduceva una tale politica estera doveva contenere all’interno del proprio sistema le cause di tale comportamento considerato come neo-imperialista. Questo fu il momento “eroico” del socialismo jugoslavo, che cercava di rompere gli schemi in cui si era fossilizzata la società socialista. Alla luce di una reinterpretazione del marxismo, gli jugoslavi compirono un’analisi del sistema sovietico che definirono una forma di capitalismo di stato, denunciarono la forma statale di proprietà dei mezzi di produzione, l’espropriazione compiuta dalla classe burocratica a spese della classe operaia, il pesante dirigismo dello stato. I punti fondamentali della critica al vecchio modello e della nuova via socialista jugoslave si possono descrivere nelle loro linee generali secondo i seguenti punti. I cambiamenti nella forma di proprietà dei mezzi di produzione non comportano cambiamenti nelle condizioni materiali produttive e nell’organizzazione sociale del lavoro. Sulla base delle forze produttive esistenti, ereditate dal precedente modo capitalistico di produzione, si è creata una determinata struttura di divisione sociale del lavoro che si traduce nell’esistenza di un gran numero di imprese che svolgono diverse attività economiche. Questa base produttiva non si può trasformare con una decisione amministrativa. In realtà cambia soltanto il ruolo e la posizione delle unità produttive: le imprese relativamente autonome si trasformano in organizzazioni tecnico-produttive, che entrano in rapporto tra loro attraverso forme naturali di collegamento economico (piano, forme di calcolo tecnico-naturali, distribuzione amministrativa ecc.). Mediante questa organizzazione della produzione si spinge il sistema verso un tipo di sviluppo che ha per obiettivo il raggiungimento dei paesi capitalistici tecnologicamente sviluppati. Si afferma inoltre che il socialismo amministrativo è la forma naturale dell’accesso al potere da parte della classe operaia, necessario per l’organizzazione della nuova società, ma deve essere un periodo transitorio di breve durata. L’alternativa deve consistere nella ricerca di una soluzione capace di garantire uno sviluppo economico rapido ed equilibrato, ma subordinatamente ai seguenti principi: 1) la classe operaia rappresenta la forza sociale fondamentale che costruisce il socialismo; 2) i rapporti socialisti si sviluppano mediante l’autogestione dei lavoratori; 3) lo Stato gradualmente si estingue.
La riforma economica del 1965 fu preceduta da una discussione politico-economica ininterrotta dal 1961 al 1965, in cui intervennero sia economisti di professione sia responsabili politici come Vukmanovic-Tempo, allora responsabile dei sindacati e fautore della riforma. Essa non si svolse poi bruscamente, ma fu preceduta da misure diverse che vi erano state inserite. Una di esse fu la soppressione, nel 1963, dei fondi sociali d’investimento, le cui risorse furono trasferite alle banche che avrebbero dovuto gestire i loro fondi secondo criteri di economicità. La Federazione poteva ormai istituire solo fondi specifici, ad esempio quello per l’aiuto alle regioni meno sviluppate che cominciò a funzionare nel 1965. Lo smantellamento di tali fondi, fra i quali il fondo generale d’investimento, trasformò la pianificazione in un semplice indirizzo, mentre gli investimenti si realizzavano solo nelle imprese e attraverso il sistema bancario. Parallelamente a tale soppressione dei fondi d’investimento furono introdotti l’alleggerimento della fiscalità e la trasformazione del sistema bancario, che caratterizzarono la riforma sul piano strettamente economico. Furono soppresse o diminuite varie imposte gravanti sulle imprese: la tassa sui redditi delle imprese venne del tutto abolita, quella sulla cifra complessiva del giro d’affari trasferita dalla produzione al commercio in dettaglio, associata a una tassa sui prezzi dei servizi. Il tasso d’interesse sui fondi fissi delle imprese passò dal 6 al 4%; la quota di valore aggiunto, che era affidata alla responsabilità delle imprese, progredì da una media del 47% alla fine del periodo 1960-1963 a una del 58% alla fine degli anni Sessanta. La trasformazione del ruolo delle banche fu ancor più significativa. Fino al 1965, le banche erano istituzioni destinate a gestire i fondi sociali sotto il controllo delle “comunità socio-politiche” secondo le direttive generali del piano. I consigli d’impresa erano dominati da uomini politici. La riforma distinse le banche per specializzazioni secondo una logica non priva di analogie con quella francese (e italiana) degli anni Sessanta: banche d’affari per investimenti a lungo termine e banche per il credito al consumo. Le banche potevano essere fondate da imprese o da “comunità socio-politiche” le quali in linea di principio non potevano possedere più del 20% del capitale. Gli impiegati non avevano alcun diritto di controllo sulla politica creditizia della loro banca nemmeno attraverso il loro consiglio operaio. I consigli d’amministrazione avrebbero dovuto essere dominati dalle imprese, nessuna delle quali doveva superare la quota del 10% del capitale. Ma gli osservatori del sistema concordano nell’osservare che l’osmosi fra i direttori delle imprese, quelli delle banche e le collettività locali fu assai spinta. D’altra parte, nell’ambito del funzionamento di un nuovo fondo di credito, i fondatori della banca potevano ricavare degli introiti provenienti dai profitti della banca in proporzione al loro apporto iniziale, delle specie di dividendi che potevano essere impiegati solo per aumentare i fondi d’investimento dell’impresa. Questa legge era la prima che permettesse ad un’impresa di percepire un reddito proveniente da un investimento di un’altra.
La riforma non poteva che riverberarsi sui prezzi e sul commercio estero. I prezzi interni furono ritoccati tenendo conto dei prezzi mondiali, e ciò si tradusse in un consistente aumento (nel 1970 i 2/3 dei prezzi erano liberi). A ciò si accompagnò una forte svalutazione del dinaro (il cambio con il dollaro era passato da 7,5 a 12,50 dinari). Le tariffe doganali si abbassarono: fra il 1965 e il 1971 la media dei diritti doganali percepiti sul totale delle importazioni passò dal 14 al 12%, quella sulle attrezzature dal 24 al 18%. Le restrizioni quantitative si attenuarono; alla fine del 1971 le quote e le licenze interessavano ormai solo 1/5 delle importazioni di attrezzature e il 37% delle importazioni di beni di consumo. Le divise teoricamente erano disponibili solo per le imprese che ne guadagnavano o potevano prenderne a prestito. Una delle innovazioni più significative fu l’apertura delle frontiere ai capitali stranieri. Nel 1967 fu autorizzata la formazione di joint-ventures che dovevano comprendere il 51% di capitali jugoslavi. Ma le altre limitazioni (imposta del 33% sui guadagni, obbligo di reinvestirne il 20% sul posto) resero tali investimenti non particolarmente attraenti per i capitali stranieri. Le conseguenze socio-economiche della riforma si fecero sentire ben presto, già a partire dal 1965: rallentamento della crescita economica e degli investimenti, aumento della disoccupazione e dell’emigrazione che le autorità non cercarono più di frenare. Nel 1971 furono censiti più di 300.000 disoccupati e 700.000 lavoratori emigrati, soprattutto in Germania. In altri termini, possiamo dire che la produttività del lavoro fra il 1961 e il 1971 aumentò dell’80%. Altre due conseguenze evidenti furono l’aumento del deficit con l’estero e dell’inflazione, due fenomeni che la Jugoslavia titoista aveva difficilmente conosciuto. Secondo il più illustre economista jugoslavo, Branko Horvat, l’aumento dei prezzi al dettaglio fu del 5,5% all’anno fra il 1955 e il 1964, cifra che sarebbe stata elevata anche per un paese europeo degli stessi anni, ma tanto più lo era per un paese a economia pianificata. La riforma provocò un ulteriore aumento dei prezzi del 30% nel ‘65 e del 14% in media alla fine degli anni Sessanta. L’aumento del deficit con l’estero e tipico di ogni economia sottosviluppata in fase di crescita, avida al tempo stesso di consumo e di investimenti, ma l’indebitamento che ne conseguì provocò una profonda crisi del titoismo e ostacolò l’autonomia di quella politica terzomondista che a Tito stava tanto a cuore. L’inflazione jugoslava è stata oggetto di numerose analisi. L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in numerosi rapporti annuali ha denunciato nell’autogestione una fonte specifica della forte inflazione jugoslava. Nel rapporto annuale del 1970 si affermò precisamente: “Un sistema istituzionale che permette ai consigli operai di fissare al tempo stesso i prezzi di vendita dei prodotti e la massa salariale da distribuire al personale dell’impresa costituisce un elemento strutturale di inflazione” D’altra parte l’influenza esercitata dalle imprese sulle banche, che si traduceva nell’impossibilità di rifiutare dei crediti per motivi finanziari, era anch’essa inflazionistica nella misura in cui ostacolava ogni politica creditizia recessiva. Anche l’importanza del sostegno delle autorità politiche locali alle banche produceva analoghi comportamenti. Ma il periodo 1965-1971 è comunque quello in cui le banche della Jugoslavia titoista seguirono il comportamento più economicamente corretto sul mercato dei capitali, anche se la diffidenza verso la proprietà privata derivante dai fondamenti ideologici e dalla conseguente insicurezza giuridica spiegano i limiti dell’esperimento economico razionalizzatore affidato alle banche.
Un rapporto della Banca mondiale del 1975 spiega che «utilizzando la loro influenza, le comunità socio-politiche ottenevano crediti bancari per il finanziamento dei loro progetti e in cambio proteggevano le banche contro le sanzioni quando le regole sulla liquidità e altri aspetti della politica creditizia non venivano rispettati». Il numero crescente degli scioperi e il progressivo rafforzamento dei gruppi di gestione (l’emendamento 15 alla costituzione del 1968 permise ai consigli operai di dotarsi di organi definiti esecutivi e responsabili nei loro confronti: i consigli operai diventavano, insomma, organi di gestione, e la loro parte passava dal 76% al 67% fra il 1960 e il 1970) rivelano di per se stessi le contraddizioni sociali della riforma. I direttori ritennero in molte occasioni che l’autogestione non fosse più adeguata al socialismo di mercato avanzato nella misura in cui i consigli, anche se la loro funzione economica veniva “aggirata” e neutralizzata, conservavano dei poteri di veto in particolare in materia di licenziamenti. Come affermò Bakaric nel 1969: «Nessun consiglio operaio accetterà mai di allontanare i lavoratori in esubero. In altri termini, non si può introdurre o mettere in pratica una tecnologia moderna se non a prezzo di nuovi e rilevanti investimenti che superano i fondi concessi all’impresa interessata. In un supplemento datato 16 novembre 1968 il settimanale The Economist parlava per la Jugoslavia di “capitalismo larvato”. L’autore dell’articolo sottolineava anche le possibilità di aggirare il sistema: «Le imprese jugoslave possono adesso associarsi per la realizzazione di progetti con condivisione delle entrate e delle responsabilità, ma è dubbio che i salariati possano influenzare l’operazione. Anche il più semplice accordo sull’investimento di un impresa in un’altra indebolisce il controllo dei lavoratori a un livello più elevato di quanto non appaia nel contratto e li limita; questo sistema nel quale sono assenti gli investitori di capitale di rischio presenta chiaramente un punto debole». In altri termini, un capitalismo senza capitalisti non è tale perché gli mancano la razionalità e il motore sociale a esso intrinseci. Il nuovo sistema aggravò gli antagonismi fra le e la contestazione degli studenti ideologicamente ispirati dalla nuova sinistra legata alla rivista marxista eterodossa Praxis. Esso legittimò d’altra parte il maggior potere conquistato dai nuovi strati tecnocratici e burocratici. Come sottolinea Duncan Wilson, il nono congresso permise il rinnovamento di molti membri dei comitati centrali delle Repubbliche: dei 300 eletti, il 70% erano nuovi, il 60% aveva meno di 54 anni e il 15% addirittura meno di 30 anni. Il 90% dei congressisti a livello delle Repubbliche non aveva mai assistito prima di allora a un congresso di livello così elevato. I sessantenni e settantenni che costituivano la memoria storica del titoismo rischiavano seriamente di perdere il controllo della situazione politica.
Da queste contraddizioni e dalla crisi croata del 1971 scaturì la riforma del 1974-1976: la Costituzione del 21 febbraio 1974 e la legge sul lavoro associato, straordinariamente lunghe rispetto alle norme abituali del paese, si proponevano di sfuggire al burocratismo e alle conseguenze dello sviluppo dell’economia di mercato senza perciò tornare al burocratismo dell’economia amministrata. Si sospettava che la tecnocrazia, contraria al socialismo dell’autogestione, si fosse rifugiata nell’eccessivo potere delle banche. Per porvi rimedio, si procedette a una sorta di rinazionalizzazione del sistema bancario. Venne modificato il diritto di voto delle imprese “membri” delle banche: ogni impresa aveva diritto a un voto, indipendentemente dalla rilevanza dei fondi apportati. Non erano più permessi i depositi permanenti e le risorse venivano anticipate in vista di obiettivi specifici nell’ambito di un piano adottato dall’assemblea generale delle imprese associate. In altri termini, l’autonomia delle banche venne ulteriormente ridotta in nome di un industrialismo di derivazione marxista (secondo il quale la sfera della circolazione non creava, di per sé, valore) e della preminenza della base (più un’attività faceva parte della sfera della circolazione, più era difficile controllarla da parte dell’autogestione operaia). Nelle imprese industriali, la volontà di garantire un’autogestione effettiva si tradusse nella creazione di “organizzazioni di base del lavoro associato” (OBLA), cioè in laboratori che dovevano costituire la nuova cellula di base dell’autogestione socialista Le OBLA dovevano essere libere di formare un’OLA (Organizzazione di lavoro associato), cioè un’impresa. A livello dell”OLA si era provveduto a introdurre norme che vietassero la burocratizzazione dei delegati dei consigli operai: limitazione dei mandati a due anni, non professionalizzazione, revocabilità. L’unità di base OBLA era libera di associarsi con qualsiasi altra organizzazione e anche di dissociarsi a condizione di non smantellare il processo di produzione. La legge del 1976 si proponeva di rendere impossibili tutte le eventuali derive esplicitamente indicate nella statalizzazione, nella proprietà di gruppo, nella restaurazione capitalistica. Per evitare quest’ultimo pericolo, le azioni e il mercato del capitale vennero vietati anche se Kardelj accettava l’idea di introdurre le obbligazioni. In teoria si era reintrodotta la pianificazione sotto la formula di “pianificazione autogestionaria”. La pianificazione puramente indicativa del periodo 1965-1974 fu sostituita dai contratti di pianificazione stipulati fra unità autogestite, che quando venivano firmati diventavano cogenti; ma l’assenza di ogni sanzione in mancanza di accordi o di gestione centralizzata dei fondi avrebbe reso questa misura inefficace. Più delle precedenti versioni dell’autogestione, la riforma del 1974-1976 si sforzò di generalizzare l’autogestione al di fuori del settore mercantile. Le “comunità d’interessi autogestionari” (SIZ, secondo la dizione jugoslava) divennero obbligatorie nel campo del consumo collettivo (servizi sociali, asili, ospedali, cultura). I salariati di tali settori e gli utenti di tali servizi erano rappresentati nelle SIZ da delegati revocabili che dovevano decidere insieme le risorse necessarie alla loro gestione. I contributi provenienti dalle entrate del settore commerciale alimentavano i fondi delle comunità e si teorizzò così che il libero scambio di lavoro avesse sostituito il mercato. L’interpretazione complessiva di questo sistema è tuttora controversa. La giustificazione di tale riforma, parzialmente contraria a quella precedente del 1965 era che essa consentiva un’autogestione più autentica evitando le derive tecnocratiche e bloccando la resurrezione dei nazionalismi, con l’istituzione di una nuova organizzazione socio-economica e politica. Ma si può osservare che mentre lo scopo dichiarato della riforma era quello di lottare contro la “tecnocrazia liberale” generalizzando il sistema del mandato imperativo e cancellando la rappresentanza politica e sociale, quello effettivamente ottenuto e senza dubbio cercato era l’abbattimento delle oligarchie che si erano costituite nel frattempo secondo una legittimità tecnico-economica, mentre il monopolio della Lega dei Comunisti aveva una legittimazione esclusivamente politica. Al di là di una complessità tecnica che la rende interpretabile con difficoltà, la riforma favorì l’autonomia delle unità di base in campo economico e politico, ma rese tale autonomia controllabile dal Partito e, in caso di crisi, dall’esercito, paralizzando l’emergere di élite autonome e di corpi intermedi. Tale diffidenza si nutriva dalle riserve che l’ideologia dell’autogestione alimentava verso l’idea stessa di rappresentanza e del suo sogno di trasparenza integrale fra la base e il vertice. Ma bisogna anche riconoscere che le sfide che l’evoluzione dei nazionalismi lanciava alla sopravvivenza dello Stato Federale non incoraggiavano certo l’ormai ottantenne maresciallo (Tito compiva 80 anni il 7 maggio 1972) alle concessioni autonomiste alle iniziative separatiste.
Risultano necessarie almeno un paio di considerazioni finali. Anzitutto, risulta prezioso ricordare quanto il modello titoista e autonomista jugoslavo fosse originale dal punto di vista geopolitico; un crogiolo di etnie, nazioni, religioni confederate stabilmente per circa mezzo secolo, nell’arduo, problematico ma unico tentativo di condensare in un unicum politico quello che frettolosamente la storia avrebbe violentemente sfaldato un pochi anni. Dall’altro un inedito e primitivo di coniugare dal punto di vista economico – sotto la formula dell’autogestione – necessità di pianificazione socialista centralizzata ed aperture a germogli di economia privata e locale. Sarebbe interessante, sotto questo profilo, indagare ulteriormente e proporre eventuali accostamenti tra il modello titoista e quello di altre vie nazionali al socialismo che sarebbero venute, prima fra tutte quella cinese in epoca denghista. Infine una considerazione di tipo geopolitico; dal dopoguerra in poi, la Jugoslavia ed i Balcani (si ricordi l’episodio fallito di velleità federative con tutta l’area, occasione mancata alla luce del diniego bulgaro sotto la direttiva moscovita) iniziarono a scavare un solco abbastanza netto con il resto dei paesi del mondo slavo, mantenendo, anche negli anni successivi e la riappacificazione tra Belgrado e Mosca conseguita negli anni Settanta ad opera di Breznev, un rapporto di affinità ideologico culturale ma su coordinate strategiche raramente coincidenti.
Marco Costa
* Marco Costa è dottore in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova, collaboratore delle riviste Scenari Internazionali ed Eurasia. Ha pubblicato Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e post-sovietica (Parma, 2011), Conducator. L’edificazione del Socialismo in Romania (Parma, 2012), Una fortezza ideologica. Enver Hoxha e il Comunismo Albanese (Cavriago, 2013), Etica, religione e origine del Socialismo (Cavriago, 2014), Tibet, crocevia tra Passato e Futuro (Cavriago, 2014). È coautore di La grande muraglia. Pensiero politico, territorio e strategia della Cina Popolare (Cavriago, 2012) e di La Via della Seta. Vecchie e nuove strategie globali tra la Cina e il bacino del Mediterraneo (Cavriago, 2014).
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