Il nuovo Libro Bianco sullo sviluppo del Tibet
Nel mese di Aprile 2015 l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato della Cina ha rilasciato un nuovo Libro Bianco sulla questione tibetana e sugli sviluppi dello Xizang (Regione Autonoma del Tibet). Ritengo che sia opportuno riassumerne i punti principali per permettere al pubblico di lingua italiana di conoscerne, almeno grossolanamente, la tesi e i contenuti.
Il Libro è composto da cinque capitoli. Il primo capitolo afferma che la fine del vecchio sistema in Tibet è stato il risultato di uno sviluppo storico inevitabile. Trovo molto interessante il fatto che viene affermato che i monasteri non erano più «posti di purezza dove studiare il Buddhismo e venerare il Buddha», ma autentiche fortezze dove i governatori locali organizzavano le proprie attività amministrative che, spesso, implicavano lo sfruttamento della popolazione. Tra queste attività c’erano anche l’esercizio della giustizia (molti monasteri avevano addirittura prigioni interne con strumenti di tortura di cui facevano largo uso) e la creazione di forze armate. Questa affermazione è interessante perché mostra comunque un certo rispetto attribuito al Buddhismo autentico che, però, a causa del sistema politico e sociale tibetano mostrava chiari segni di degenerazione spirituale.
I monaci contavano un quarto della popolazione maschile, una quantità ben superiore al numero di chierici dell’Europa Medievale. Il potere religioso aveva un’assoluta supremazia mentre il potere politico lo proteggeva; i due, combinati, proteggevano gli interessi di tre classi: quella degli ufficiali locali, quella degli aristocratici e quella dei Lama di alto rango. In questo sistema teocratico, la religione veniva usata tramite una sorta di terrorismo spirituale come metodo di sfruttamento del popolo; gli schiavi, infatti, non si ribellavano per paura del karma e credevano che la loro condizione fosse giusta a causa dei misfatti delle proprie vite precedenti.
Fino alla Liberazione Pacifica il Tibet non ha avuto alcuna scuola, essendo gli unici luoghi di apprendimento i monasteri; l’analfabetismo arrivava al 95%; non esistevano strade; non c’era alcuna forma di moderna pratica medica e l’aspettativa di vita media era di 35 anni e mezzo. Coloro che hanno visitato il Tibet, sia cinesi che stranieri, rimanevano stupiti dall’arretratezza del posto. Lhasa, ad esempio, appariva «squallida e lercia oltre ogni descrizione […]. Non una singola casa sembrava pulita o curata. Le strade dopo la pioggia non sono altro che pozze d’acqua stagnante frequentate da porci e cani che cercano rifiuti» (Edmund Candler).
A cominciare dal diciannovesimo secolo si sono diffuse campagne per l’eliminazione della schiavitù in molti Paesi, tra cui Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti. Tuttavia, a metà del ventesimo secolo, periodo in cui la schiavitù era quasi scomparsa da questo mondo, continuava ad essere praticata nel Tibet cinese, ostacolando il progresso sociale della Cina e offendendo la dignità umana.
Il quattordicesimo Dalai Lama e i suoi seguaci, invece di riconoscere la crudeltà del sistema teocratico, hanno agito contro questo trend storico, sperando di far risorgere il vecchio sistema in Tibet in futuro. Nei loro documenti è possibile trovare delle dichiarazioni rilevanti a tale proposito. Ad esempio l’atto costitutivo dei tibetani in esilio, modificato nel 2011, stipulò che il futuro governo del Tibet sarà «una combinazione di potere politico e religioso».
Il secondo capitolo del Libro Bianco parla degli sviluppi che il Tibet ha avuto dalla Liberazione Pacifica. Quest’ultima nel 1951 ha espulso le forze imperialiste e nel 1959 ha cominciato un processo di riforma democratica, il quale ha portato ad una fine il sistema teocratico feudale basato sulla schiavitù. Attraverso più di 60 anni il Tibet ha percorso un sentiero di sviluppo che ha sia caratteristiche cinesi, sia è adatto alle condizioni contingenti del Tibet. In questo modo il nuovo Tibet rappresenta un’unione di tradizione e modernità.
Le forze britanniche invasero il Tibet due volte, nel 1888 e nel 1904, forzando la corte Qing a firmare dei trattati ingiusti che accordavano alla Gran Bretagna molti privilegi in Tibet. Quando la corte Qing venne deposta nel 1911 gli inglesi cominciarono a favorire le forze separatiste, inventando il concetto di “indipendenza tibetana”. Fu il governo della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 a liberare pacificamente il Tibet da quelle forze che miravano a separarlo dalla madrepatria. Questo venne fatto con l’aiuto di patrioti locali, come il decimo Panchen Lama.
In Tibet ci sono tibetani, monpa, lhoba, naxi, hui, han e gente di altri gruppi etnici. Tutti godono del diritto di partecipare nell’amministrazione degli affari di stato. La Regione Autonoma del Tibet ha 21 deputati al Congresso Nazionale del Popolo di cui 12 sono tibetani e persino i monpa e i lhoba sono rappresentati.
Per aiutare il Tibet a svilupparsi velocemente e superare il dramma della povertà e dell’arretratezza, il Governo ha sfruttato appieno i vantaggi istituzionali del sistema socialista mettendo insieme le forze della Nazione per la creazione di un Tibet nuovo. Tra il 1952 e il 2013, il Governo ha stanziato oltre 544,6 miliardi di yuan in sussidi finanziari, che costituiscono il 95% della spesa pubblica in Tibet.
In questo modo i tibetani hanno collaborato insieme agli altri gruppi etnici per diventare «maestri del proprio destino». Ci sono stati sostanziali sviluppi nella qualità della vita. La maggioranza dei tibetani ha superato quella povertà che li ha oppressi per secoli ed ora vivono una vita relativamente confortevole. Nel 2013 la popolazione del Tibet è triplicata rispetto al 1950 mentre l’aspettativa di vita è raddoppiata. Per di più, i tibetani possono ora godere di assistenza medica gratuita.
Gli sviluppi nell’educazione – con l’istituzione di un corso di studi scolastico gratuito della durata di 15 anni – hanno portato a sradicare l’analfabetismo tra i giovani e le persone di mezza età.
Il percorso verso la modernizzazione continua. Infrastrutture e industrie moderne si sviluppano velocemente mentre un sistema energetico moderno ed efficiente sta già soddisfacendo i bisogni di una grande fetta della popolazione. 62 delle 70 contee della regione sono ora accessibili tramite strade asfaltate, mentre la ferrovia che connette Lhasa e Shigatse – una estensione della Tibet-Qinghai – è ora in funzione. Tutto questo è stato fatto in modo eco-sostenibile e il Tibet continua ad essere uno dei luoghi a mantenere una migliore qualità dell’ambiente al mondo.
Lo sviluppo del Tibet non ha danneggiato la sua cultura tradizionale. La lingua tibetana è preservata. Pur essendo il cinese diffuso in quanto mezzo per promuovere scambi economici e culturali tra i gruppi etnici e le regioni, il tibetano scritto e parlato resta comunque molto diffuso e protetto da specifici regolamenti. Le scuole sono bilingue, ma quelle primarie usano maggiormente il tibetano.
La religione è protetta come anche i suoi luoghi sacri. Nessuno è forzato a credere, né a non credere, a nessuna religione; in Tibet, oltre alle tradizionali scuole del Buddhismo Tibetano, sono rappresentati anche il Bon, l’Islam e il Cattolicesimo. Il Tibet ha attualmente 1787 siti per diverse attività religiose, 46000 monaci e 386 Buddha Viventi (tulku); ci sono quattro moschee e 3000 musulmani, e una Chiesa cattolica con 700 fedeli.
Nel terzo capitolo del Libro viene analizzata la strategia separatista della “via di mezzo”. Il gruppo del Dalai Lama ha cambiato la propria strategia nel corso del tempo per raggiungere l’indipendenza tibetana. Nel 1959 – dopo aver fallito una rivolta armata che loro stessi hanno cominciato – il gruppo del Dalai Lama scappò in India dove cominciò a combattere con la forza per ottenere l’indipendenza. Alla fine degli anni ’70, quando i rapporti tra Stati Uniti e Cina sono notevolmente migliorati, il gruppo del Dalai Lama cominciò a parlare di “via di mezzo”. Con la fine dell’Unione Sovietica e gli importanti cambiamenti che stavano avvenendo nell’Europa Orientale nel 1989, ritennero che fosse giunto il tempo di parlare nuovamente di “completa indipendenza”, strategia che venne cambiata nuovamente dopo il 1994.
La strategia della “via di mezzo” – che è un’espressione buddhista che poi il Dalai Lama ha politicizzato – può essere definita tramite cinque punti: 1) Essa nega il fatto che il Tibet è stato parte della Cina fin dall’antichità, affermando che i tibetani hanno diritto all’indipendenza da un punto di vista storico; 2) Si riferisce ad un “Grande Tibet” che non è mai esistito storicamente, pretendendo che il Tibet, Sichuan, Yunnan, Gansu, Qinghai e altre aree dove vivono tibetani e altre etnie vengano incorporate in un’unica regione amministrativa; 3) Nega sia la leadership del governo centrale, sia il presente sistema politico e sociale, richiedendo un alto grado di autonomia che non è soggetto ad alcun limite; 4) Nonostante le uniche prerogative del governo centrale in Tibet riguarderebbero la diplomazia e la difesa nazionale, si richiede che il Tibet diventi una zona di pace internazionale tramite la sua completa demilitarizzazione; 5) Infine, ignorando il fatto che l’altopiano tibetano è sempre stato multietnico, viene negato il diritto alle altre etnie di risiedere nel “Grande Tibet”.
Pertanto la “via di mezzo”, oltre ad essere una proposta al di fuori della storia, si rivela essere un piano in cui – fingendo di riconoscere la sovranità della Cina in Tibet – il gruppo del Dalai Lama tenta di realizzare l’indipendenza tibetana tramite una serie di step intermedi. Questa intenzione è stata inoltre confermata dalle affermazioni dei fratelli del Dalai Lama (Gyalo Thondrup e Tenzin Chogyal), da Samdhong Rinpoche e dal presente capo del Governo Tibetano in Esilio. In questo capitolo viene inoltre precisato che la politica “un Paese, due sistemi” non è applicabile al Tibet. Quest’ultima infatti è un sistema proposto dal Governo Cinese per risolvere le questioni di Taiwan, Hong Kong e Macau. Tuttavia, la questione tibetana è completamente diversa dalle precedenti. Quella di Taiwan deriva dalla guerra civile cinese, mentre le questioni relative ad Hong Kong e Macau sono il diretto risultato dell’aggressione imperialistica contro la Cina. Il Tibet invece è stato un territorio dove il governo centrale ha sempre esercitato una effettiva giurisdizione. Ciò che propone il gruppo del Dalai Lama pertanto non ha senso perché non ci si pone il problema di riacquistare la sovranità del Tibet come è stato nel caso di Hong Kong e Macau.
Secondo la tesi del quarto capitolo del Libro Bianco, dietro le parole di pacifismo e non-violenza del Dalai Lama si cela un inganno. L’apparente pacifismo in cui ha presentato la sua “via di mezzo” ha invece l’unico scopo di ottenere simpatia e supporto internazionale, in quanto il gruppo del Dalai Lama non ha mai rinunciato a combattere con la violenza per ottenere l’indipendenza tibetana.
Nel 1959 venne organizzata una rivolta armata contro gli ufficiali del governo centrale presenti in Tibet, in cui vennero massacrati anche molti tibetani che supportavano la riforma democratica. Successivamente all’esilio in India, venne creato nel Mustang in Nepal un gruppo armato che tra il 1961 e il 1965 ha fatto 204 incursioni oltre il confine cinese per colpire truppe e civili. Il gruppo del Dalai Lama venne armato dalla CIA e i primi contatti tra loro avvennero nel 1951, dopo la liberazione pacifica.
Con l’evolversi della situazione internazionale l’uso della violenza da parte delle forze tibetane perse gradualmente il supporto pubblico. Pertanto cominciò una nuova strategia duale: da un lato provocare costantemente degli incidenti con la violenza per mantenere il governo centrale sotto pressione, dall’altro parlare pubblicamente di non-violenza per ingannare il pubblico internazionale. Vennero pertanto organizzate nel corso del tempo una serie di proteste e di attentati il cui peggiore è quello accaduto il 14 Marzo 2008, che ha visto tra le proprie vittime molti civili innocenti. Era dall’anno prima, inoltre, che vari gruppi indipendentisti tibetani si incontravano periodicamente per discutere delle strategia per sabotare i Giochi Olimpici di Beijing. Le interviste fatte al Dalai Lama in quei giorni, inoltre, dimostrano il supporto di quest’ultimo nei confronti di queste proteste violente.
Le autoimmolazioni costituiscono un altro modo per combattere per l’indipendenza tibetana in maniera violenta. Il fatto che dietro a queste immolazioni ci sia in gran parte il gruppo del Dalai Lama è ormai provato. Esiste persino una guida per istruire a compiere autoimmolazioni su internet, il cui autore, Lhamo Je, è stato per due volte un membro del “parlamento in esilio”. Sia il Dalai Lama che gli altri separatisti non hanno dimostrato alcuna contrarietà a questi suicidi nonostante essi contraddicano l’etica del Buddhismo, dove il suicidio è considerato un gravissimo taboo. Al contrario, le autoimmolazioni vengono incoraggiate. Per esempio, coloro che hanno compiuto questi atti di autoimmolazione vengono pubblicamente propagandati come eroi.
Il quinto ed ultimo capitolo del Libro Bianco tratta della posizione del governo centrale nei confronti del Dalai Lama. Questa posizione è sempre stata aperta e costante. Il principio su cui si basa è: «Tutti i patrioti appartengono ad una sola famiglia, che abbraccino il patriottismo prima o dopo». L’istituzione dei Dalai Lama è legata al governo centrale da secoli ed è in esso che trova la propria legittimità.
Dopo la liberazione pacifica del Tibet, il presente Dalai Lama è stato trattato con estremo rispetto e il suo ruolo politico venne riconosciuto. Quest’ultimo infatti inizialmente concordò l’Accordo dei 17 Punti e sembrò portare contributi significativi alla riforma democratica. Nel 1959 però ritrattò l’accordo e organizzò una ribellione armata, cose che sembrano dimostrare il fatto che il suo precedente patriottismo costituiva un inganno, sopratutto alla luce dei contatti con la CIA che continuavano dal 1951.
Nonostante il fatto che il Dalai Lama si sia rivelato essere un traditore della nazione cinese, il governo centrale ha però sempre mantenuto una certa pazienza nei suoi confronti. La posizione del governo centrale è restata sempre la stessa: il Dalai Lama è bentornato in Tibet se riconosce la sovranità cinese in Tibet e le sue riforme democratiche e sociali. Diverse volte sono state tentate delle negoziazioni con i rappresentanti del Dalai Lama ma, purtroppo, tutti gli incontri hanno dimostrato che quest’ultimo continua a perseguire la propria politica separatista. Il fatto, poi, che il Dalai Lama si sia politicamente ritirato ha reso le cose ancora più difficili, in quanto il governo centrale intende dialogare esclusivamente con rappresentanti personali del Dalai Lama e non del Governo Tibetano in Esilio, istituzione che non riconosce.
Quello che è stato dimostrato in oltre 30 anni è che il gruppo del Dalai Lama ha cambiato la propria strategia in base ai cambiamenti della situazione nazionale e internazionale. Diverse volte hanno interrotto i negoziati con il governo centrale. Quando pensavano che la situazione andasse a loro sfavore cercavano contatti con il governo centrale; quando invece pensavano che la situazione fosse a loro vantaggio, interrompevano i contatti. In breve, nessuno di questi negoziati è avvenuto in buona fede.
Per concludere, il sentiero del Tibet segue il percorso tracciato dalla Storia. Solo opponendo il separatismo e sostenendo il progresso può essere assicurato il futuro del Tibet. Quest’ultimo appartiene a tutte le etnie del Tibet e alla Cina come nazione. Il Tibet ha tutte le premesse per avere un futuro brillante. Negli anni a venire le persone di ogni gruppo etnico del Tibet progrediranno nella strada del socialismo con caratteristiche cinesi e lotteranno per costruire un Tibet nuovo, unito e democratico, celebrando la propria cultura e sviluppando una società prospera e armoniosa.
Marco Scarinci
Il CeSE-M sui social