Per gentile concessione dell’Editore, di seguito riportiamo la prefazione al volume di Francesco Rubino “Trame di distruzione”. Storia e analisi della guerra civile in ex-Jugoslavia (1991-1995) edito da Il Cerchio di Lorenzo Salimbeni, Presidente del Centro Studi Eurasia e Mediterraneo. Guerre civili, rivoluzioni colorate, ingerenze esterne, rivendicazioni separatiste, integralismo islamico: la cruenta attualità dei conflitti che sconvolgono molti Stati esordisce nella Jugoslavia dei primi anni Novanta del secolo scorso. Nel 1991 la Repubblica Federativa, sopravvissuta poco più di un decennio al suo padre padrone e fondatore, iniziò la sua implosione, sotto l’occhio attento dei mezzi di comunicazione, ingordi di tuffarsi sul primo conflitto in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Proprio alla percezione, spesso artificiosa e falsata, che europei e occidentali in generale ebbero di tale vicenda è dedicato ampio spazio del presente appassionato lavoro di Francesco Rubino, opera prima nella quale ha riversato accuratamente esperienze sul campo ed un’ampia bibliografia. Mai come nel contesto balcanico, la conoscenza diretta del territorio e della storia diventa preziosa per comprendere l’attualità. Ataviche contrapposizioni, il lascito di antiche dominazioni che avevano saputo crearsi una rete di referenti locali automaticamente tacciati come traditori da chi tali occupazioni non accettava, il richiamarsi ad antichi regni e imperi, dalla Grande Croazia alla Grande Serbia passando per l’invenzione di nuove identità: il calderone ex-jugoslavo non ci fa mancare nulla. Troppo spesso il semplicismo dei media e dell’informazione improntata alla velocità invece che all’approfondimento ha fornito coordinate inesatte al grande pubblico. Ecco allora un libro che vuole assurgere a bussola, grazie alla quale orientarsi nel labirinto balcanico, al fine di comprendere non solo le tensioni ancora latenti, le quali rischiano di essere a mala pena cloroformizzate dal percorso di adesione all’Unione Europea che sta interessando a vari livelli gli Stati successori della Jugoslavia, ma pure leggere e comprendere dinamiche a noi contemporanee in cui si replica il medesimo canovaccio. Il sogno jugoslavista di fine Ottocento/inizio Novecento aveva trascurato molte specificità dei popoli interessati, laddove il panslavismo che aveva nello Zar di tutte le Russie il suo principale interlocutore e promotore poteva offrire ben più caratteristiche comuni in cui riconoscersi a molti più popoli. Lo jugoslavismo sostanzialmente si rivolgeva agli abitanti di una regione relativamente ristretta, senz’altro afferenti al ceppo slavo, ma con una miriade di peculiarità linguistiche, religiose e culturali che ben poco avevano in comune. Costruito a tavolino dopo quella che i contemporanei chiamarono la Grande Guerra, il Regno di Serbi, Sloveni e Croati si sarebbe poi trasformato in uno Stato fortemente accentrato ed imperniato sull’elemento serbo. Appena tardivamente il governo centrale avrebbe cercato un compromesso tra le due componenti principali, la croata e la serba. La dissoluzione nell’aprile 1941 e le successive lotte intestine tra le diverse anime della resistenza e del collaborazionismo dimostrarono la fragilità del regno dei Karađorđević e la molteplicità di intenti per il nuovo assetto, territoriale ed istituzionale, da instaurare a conflitto finito. È comunque questo il periodo da osservare attentamente se si vogliono comprendere le dinamiche di cinquant’anni dopo. Episodi di pulizia etnica, nazionalismi esasperati, la religione come elemento identitario, le località in cui si consumarono i crimini più efferati: è un continuo rimando tra il Regno di Jugoslavia spartito a tavolino tra le potenze dell’Asse e la situazione che a fine secolo sconvolgerà Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina e Serbia, per tacer del Kosovo, che esula dal presente lavoro, se non per i non infrequenti richiami evocativi alla leggendaria battaglia del 1389. Risulta pertanto azzeccata la scelta dell’Autore di soffermarsi sul periodo 1941-’45, dal quale emergerà l’astro di Tito, così come muoverà pure i primi passi la carriera di Alija Izetbegović. Costui venne osannato in tempi recenti dai media occidentali come leader bosniaco democratico nonché vittima del panserbismo, laddove era in effetti giunto al culmine di una carriera improntata sul cinismo e su una superba capacità di cambiare casacca e partner, dal collaborazionismo giovanile con la Germania hitleriana alla partnership con le potenze atlantiste, passando per una carriera di agitatore politico all’insegna dell’integralismo islamico. Se quindi fragili erano le fondamenta del rinato Stato jugoslavo, le sue successive scelte di politica interna avrebbero compromesso pure la stabilità delle edificande mura portanti. In politica estera Josip Broz fu in grado di erigere un perimetro difensivo assolutamente sicuro, in virtù delle alleanze regionali con Paesi NATO quali Grecia e Turchia, mentre sul versante interno la scelta di “una piccola Serbia in una grande Jugoslavia” avrebbe alimentato la sindrome di accerchiamento e di umiliazione nella componente serba appunto. Eccezion fatta per la Slovenia, in ognuna delle repubbliche e province autonome federate vi erano comunità serbe staccate dall’amministrazione di Belgrado (intesa come capitale serba e non federale) e sottoposte ad altrui istituzioni. Quella che poteva apparire come una semplice sistemazione amministrativa, avrebbe avuto effetti devastanti al momento dell’implosione jugoslava, creando fronti e punti di tensione tra comunità serbe ed autorità separatiste. La tanto osannata politica estera di Tito nei panni di leader terzomondista aveva un pessimo contraltare sul piano interno, che avrebbe dovuto reggersi sui miti del socialismo declinato in salsa jugoslava e della vulgata resistenziale: se uno Stato non sopravvive ai propri padri fondatori, si tratta di un fallimento. I paesi, che stavano conquistando la propria indipendenza nel secondo dopoguerra e cercavano di collocarsi al di fuori dei blocchi afferenti alle due superpotenze, le quali stavano combattendo la loro Guerra Fredda, avevano avviato al loro interno un processo di nazionalizzazione delle masse, creando un’identità, artificiale o meno che fosse, superiore alle singole componenti etniche o tribali che si trovavano all’interno di confini tracciati indiscriminatamente a tavolino dai colonizzatori. In Jugoslavia mancò tutto questo e, anzi, la dirigenza titoista pensò bene di risolvere il dilemma dell’identità bosniaca (serbi o croati convertiti a forza all’Islam?) inventando una nazionalità su base confessionale. Polveriera nella polveriera, la Bosnia è al centro di tale studio ed è veramente un caso esemplare del cinismo diplomatico in guerra, nel momento in cui croati, serbi e bosniaci si trovavano in una guerra di tutti contro tutti, con alleanze variabili a seconda delle circostanze e delle convenienze locali o del momento. Comunità Europea e ONU fallirono miseramente nei loro compiti di mediatori e di pacificatori, l’interventismo democratico di Bill Clinton portò in scena gli Stati Uniti per dirimere la controversia secondo i propri interessi. La potenza mediatica degli USA avrebbe fatto da cassa di risonanza ai bombardamenti dell’esercito federale jugoslavo e delle formazioni a esso collegate che avevano colpito gioielli architettonici come Ragusa di Dalmazia oppure Vukovar, per non parlare delle violenze sbandierate in maniera univoca solamente allorché gli assassini erano serbi, sicché ben presto Slobodan Milošević sarebbe stato raffigurato quale novello Hitler. Invece, tutt’altro che dittatore assoluto, costui aveva instaurato un rapporto opportunistico con esponenti serbi in Croazia o in Bosnia, che sarebbero stati abbandonati nel momento in cui le loro posizioni non erano più difendibili ovvero confliggenti con il ruolo di paciere che Milošević voleva ritagliarsi. Così come profonda era la dialettica con i vertici militari: l’uomo di Stato cercava di mantenere entro i confini di Belgrado tutte le località serbe, i suoi generali combatterono a lungo nella speranza di mantenere la compattezza federale. La disamina critica dell’autore ha pure in dote l’onestà intellettuale di presentare le violenze e le efferatezze che caratterizzarono questa fase del conflitto, senza fare distinzioni di bandiera. Il lettore può così apprendere che, ben prima della mattanza di Srebrenica, avevano avuto luogo nei confronti dei limitrofi villaggi a maggioranza serba crudeli incursioni da parte di bande armate musulmane che approfittavano della protezione dei Caschi Blu su tale località per sfruttarla come base operativa. Ricordare simili episodi è importante per contestualizzare meglio la tragica concatenazione causa-effetto che portò a massacri e distruzioni. Così come è oggi interessante notare che quell’agenzia nota come National Endowment for Democracy, attivissima nel promuovere istanze di democratizzazione in quei Paesi che restano al di fuori dell’orbita di Washington, fu presente già in questi scenari di distruzione. Scegliendo di porsi come interlocutore e avamposto occidentale nei confronti dell’orbita sovietica, Tito di fatto aveva lasciato aperto un varco alle infiltrazioni statunitensi, in maniera tale che le nuove classi dirigenti liberal degli Stati successori erano già selezionate e preparate a svolgere il loro bravo compitino. La copertura mediatica e l’organizzazione delle manifestazioni inneggianti alla democrazia ed all’indipendenza inscenate ad esempio a Lubiana, costituirono quindi il prologo e l’esempio per tutte le successive piazzate che avrebbero cercato di far vacillare i governi nei Paesi dell’area ex sovietica secondo i dettami del famigerato manualetto per le “rivoluzioni colorate” di Gene Sharpe. Tutto ciò si consumò a pochi chilometri dall’Italia. Nel Friuli Venezia Giulia durante l’estate del 1991 si sentiva il rombo del cannone in Slovenia, ma Roma svolse un ruolo insignificante. Nella sua trattazione Rubino rileva, coerentemente con le più recenti analisi storiografiche, il ruolo di mediatori che i soldati italiani svolsero, volenti o nolenti, nel tentare di frenare i massacri nel periodo 1941-’43, laddove mezzo secolo dopo mancò una politica estera autonoma in merito alle vicende balcaniche, che altri Paesi comunitari come Germania e Francia invece seppero mantenere. Dopo aver dato alle stampe nel 2008 “Canto d’amore per la Jugoslavia. Le sorgenti dell’odio etnico-religioso in Bosnia e nel Kosovo oggi” di Michele Antonelli, l’Editore ha avuto quindi il coraggio di tornare ad affrontare una pagina tragicamente recente di storia europea, ancora una volta senza badare ai rigidi paletti del conformismo politicamente corretto ed anzi denunciando retroscena e ingerenze di un conflitto che segnò l’inizio dell’assalto occidentalista ai bastioni moscoviti dell’estero vicino.
Lorenzo Salimbeni Presidente del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo (Trieste)
Francesco Rubino, Trame di distruzione. Storia e analisi della guerra civile in ex-Jugoslavia (1991-1995), Il Cerchio, Rimini 2015, pagg. 104, 12,00 €
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