L’importanza della Cina per lo sviluppo dell’Italia

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“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”, progetto di ricerca del CESE-M

La classifica elaborata dalla rivista “Forbes” (www.forbes.com) nel maggio 2014 sulla base di tre parametri – vendite, profitti e beni – indicava ai primi tre posti solo compagnie cinesi, mentre altri due colossi legati a Pechino figuravano nelle prime dieci dietro alle solite multinazionali statunitensi.

Siamo oggi evidentemente di fronte ad uno scontro di portata globale tra il declinante capitalismo finanziario anglo-americano in forma speculativa e il rampante capitalismo di Stato cinese di natura produttiva, una lotta per l’egemonia mondiale che ha inevitabili ripercussioni all’interno delle singole nazioni, Italia compresa.

Un esempio di questa contrapposizione è riscontrabile nel clamoroso intervento del responsabile dell’autorità di controllo delle attività finanziarie di New York, Benjamin Lawsky, che ha sanzionato BNP Paribas (che in Italia possiede la Banca Nazionale del Lavoro) con una mega multa di 8,9 miliardi di dollari (inizialmente si parlava di 16 miliardi) per violazione dell’embargo decretato dagli Stati Uniti contro il Sudan, l’Iran e Cuba (tre nazioni che commerciano invece proficuamente con la Repubblica Popolare Cinese).

Stando a quanto emerso la filiale svizzera della BNP Paribas, che gestisce gran parte delle operazioni sul mercato delle materie prime, ha continuato a realizzare transazioni in dollari (che quindi necessitano di un clearing, cioè di una compensazione bancaria negli Stati Uniti e che consentono a Washington di far valere una sorta di extraterritorialità delle sue decisioni) per finanziare imprese ed enti pubblici in Sudan, Iran e Cuba.

Oltre ai quasi 9 miliardi di dollari di multa pagati, la BNP Paribas di Ginevra ha dovuto dimissionare il suo ex Presidente Georges Chodron de Courcel ed almeno altri 30 funzionari, siluramenti ritenuti comunque insufficienti dalle autorità statunitensi.

A parte la protesta di alcuni deputati francesi, l’operazione di “pirateria” finanziaria ai danni di BNP Paribas è stata denunciata dal Governo dell’Avana come un sopruso illegale contro la sovranità degli Stati e contro i principi stessi del libero commercio internazionale.

La strategia di Washington, basata sulla “vampirizzazione” di istituzioni ormai obsolete come Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, vorrebbe perciò ora essere rilanciata con la firma dei nuovi “Trattati ineguali”, l’ormai famigerato TTIP (Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti) e il TTP (Accordo Strategico Transpacifico di Cooperazione Economica); al contrario la reazione di Pechino sarà incentrata sulla creazione della Banca dei Paesi Brics, sul Sistema di Pagamento Internazionale Cinese (CIPS, che verrà lanciato con ogni probabilità ad Ottobre 2015 e permetterà allo Yuan di iniziare a sostituire il Dollaro come moneta di riserva globale, complice il sistema alternativo SWIFT Russo interamente compatibile con quello cinese), sul rilancio di gigantesche infrastrutture (La Nuova Via della seta terrestre e quella marittima), sul suo nuovo ruolo guida all’ interno dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico) e sul varo dell’Asian Infrastructure Investment Bank (alla quale ha aderito l’Italia).

D’altronde, come confermato da uno studio del 2008 dell’Institute for Security Technology Studies di Darmoth (USA), la Cina è la sola potenza emergente che abbia già sviluppato capacità operative nei cinque domini relativi alla superiorità cibernetica: elaborazione di una dottrina operativa, capacità addestrative, capacità di simulazione, creazione di unità addestrate alla guerra cibernetica, sperimentazione di attacchi hacker su larga scala.

La Cina è sola potenza che abbia aumentato le proprie spese militari del 10% nel 2015, l’unica capace di sfidare in prospettiva l’attuale superiorità strategica globale degli Stati Uniti d’America.

La Cina è la sola potenza capace di sfidare e superare finanziariamente il mondo angloamericano, quando verrà completata la fusione delle tre sue tre borse di Shangai, Hong Kong e Shenzen, così come auspicato dal proprio Capo di Governo Li Keqiang.

Cina e Italia: una collaborazione strategica sotto osservazione

Significativo il rapporto economico che l’Italia, specie dopo la crisi mondiale del 2008, ha intrecciato con la Repubblica Popolare Cinese.

La nuova centralità geostrategica nel Mediterraneo del nostro paese sta assumendo contorni sempre più interessanti, come testimoniano i recenti investimenti di Pechino (Pirelli in particolare) e la “lettura” interessata che ne hanno fornito diversi analisti.

Alla notizia che il Governo di Roma il 12 giugno 2014 aveva firmato con il gruppo e-commerce Alibaba un memorandum d’intesa per promuovere maggiori opportunità commerciali per le aziende italiane in Cina, si è scatenato un fuoco di sbarramento da parte delle centrali atlantiste così forte da ricordare quello del periodo della “guerra fredda”.

In un’intervista rilasciata il 25 luglio 2014, Carlo Pelanda (editorialista del “Foglio” e di “Libero”) ricorda come ci sia “estrema cautela da parte di Roma nel non passare la linea rossa fissata dagli USA, che riguarda ad esempio le esportazioni di tecnologia militare oltre muraglia. La Cina ci prova dagli anni ‘60”. (1)

Secondo Alberto Forchielli, fondatore di Mandarin Capital Partners, gli investimenti cinesi in Italia (Enel, Snam, Terna, Telecom, Fca-Fiat che controlla il “Corriere della Sera”) si moltiplicano secondo una precisa strategia di Pechino che vuole rompere l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa: “La Cina sta combattendo per evitare la propria morte. Ci prova in tutti i modi, anche con la cosiddetta Banca dei BRICS. A minacciarla sarebbero gli effetti dei due accordi di libero scambio che gli USA vogliono concludere con la sponda atlantica – Ttip – e quella pacifica – Tpp. Entrambi escluderebbero Pechino, che per avere accesso ai mercati più ricchi del pianeta dovrebbe rinegoziare tutto, in termini evidentemente più svantaggiosi. Sa che se Stati Uniti ed Europa si uniscono, lei è spacciata. Per questo ha deciso di investire massicciamente – a volte anche in modo non conveniente – in alcuni Paesi che possano poi condizionare questo processo: Italia, Germania e Grecia … La Cina non chiede fedeltà, ma solo di non andare contro i propri interessi” (2).

Tesi confermata dal generale Carlo Jean, secondo il quale “La Cina teme che gli USA usino l’arma economica per metterli in ginocchio. Il significato di queste manovre è non tanto geopolitico, quanto geoeconomico. Sono azioni difensive, non offensive … Non è un rischio (per la sicurezza nazionale dell’Italia, n.d.r.), perché abbiamo ceduto una parte che non inficia il nostro controllo”.

Eppure la rivista “Formiche” (www.formiche.net), forse vicina ad alcuni ambienti dei servizi segreti italiani, ha preparato una vera e propria “schedatura” sull’influenza della Repubblica Popolare Cinese in Italia.

Ricordiamo che il 28 novembre 2012, alla notizia dei 6 accordi commerciali firmati tra Roma e Pechino per una valore di 1,27 miliardi di dollari, il Dipartimento informazioni per la sicurezza (Dis) informò in forma riservata il Copasir e la Presidenza del Consiglio su un presunto piano cinese di infiltrarsi negli affari economici italiani, in particolare nel settore immobiliare, in quello finanziario e nel comparto navale (ad esempio l’acquisizione del 75% del gruppo Ferretti).

Almeno per i primi due settori, quello finanziario e quello immobiliare, come abbiamo analizzato sopra, è evidente a chi abbia fatto comodo un simile allarme…

Il Dis si era poi soffermato sul progetto di utilizzare l’agenzia di rating cinese in Europa, Dagong, che ha sede a Milano, come arma strumentale per valutare la fattibilità degli investimenti di Pechino nel nostro paese.

Stesso scenario riproposto lo scorso anno in occasione del viaggio di Matteo Renzi a Pechino, quando i servizi segreti italiani prepararono un rapporto sui “rischi” degli investimenti cinesi in Italia (Finmeccanica, Ansaldo …) e su quelli di un loro possibile cyber-spionaggio.

L’attenzione si è soffermata in particolare sull’accordo firmato tra la cinese Huawei Technologies e l’italiana Fastweb per lo sviluppo delle reti a banda ultra larga e per il loro miglioramento; un comitato del Congresso USA (l’House Intelligence Committe) aveva infatti inquadrato la Huawei come una minaccia per gli Stati Uniti, poiché potrebbe avere legami stretti con il Partito comunista cinese e con l’esercito.

La Huawei, leader globale dei prodotti e delle soluzioni legati al campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), presente in Italia da oltre dieci anni, conta su uno staff di 700 persone (il 90% di nazionalità italiana), su diversi uffici dislocati nelle principali città e su un Centro per la ricerca e lo sviluppo globale con sede a Milano.

Anche aziende italiane all’avanguardia come Ansaldo Breda e Finmeccanica, dalla partecipazione di investitori cinesi, hanno ricavato solo vantaggi (acquisendo peso nelle gare internazionali), sia dal punto di vista tecnologico che da quello dell’occupazione, come confermato ad esempio dall’amministratore delegato di Ansaldo Energia, Giuseppe Zampini: “Macché Siemens. E’ con i cinesi che metteremo il turbo” (3).

Un esempio del contributo cinese allo sviluppo dell’economia italiana e alla creazione di posti di lavoro è rappresentato proprio dal caso della Ferretti Yacht, acquistata nel 2012 dalla Weichai Group: nel 2013 la Weichai Ferretti ha ridotto le perdite per un totale di 70 milioni di euro e con un ammontare annuo pari a 420 milioni di euro ha incrementato le vendite del 45% rispetto al 2012.

Vista anche la tendenza dei gruppi cinesi a lasciare in mani italiane la maggioranza azionaria, anche analisti come Marco Ansaldo non hanno potuto fare a meno di notare come questa prospettiva sia da consolidare: “L’Italia è stata per lunghi anni il fanalino di coda sugli investimenti diretti dall’estero. Il vento ha cominciato a cambiare dal 2013, che ha fatto registrare un afflusso di 12,4 miliardi, contro un valore quasi nullo dell’anno precedente. Considerando che quest’anno (2014, n.d.r.) sono già entrati 50 miliardi solo dalla Cina, è chiaro che il vento è cambiato … E’ significativo che Pechino preferisca investire in Italia in azioni e non in titoli di Stato … il denominatore comune è l’interesse per le capacità di crescita di ciascuna di quelle aziende e dunque del Paese nel suo insieme” (4).

Un attivismo benefico, come dimostrano i dati del 2014 (327 aziende cinesi che impiegano 18.300 dipendenti italiani), che continua tuttavia a non essere “digerito” da alcuni ambienti evidentemente più vicini agli interessi atlantisti che a quelli nazionali.

In un dossier del quotidiano “Il Foglio”, si conferma come “nel nostro paese a soffrire l’attività espansiva della Repubblica Popolare Cinese sia stato non l’universo imprenditoriale e politico italiano, che anzi ha fatto di tutto per aprire le porte agli investitori cinesi, bensì quello americano. Tramite fonti dirette e indirette, a quanto risulta al “Foglio”, il Governo statunitense ha chiesto più volte a Matteo Renzi alcuni chiarimenti sui rapporti del nostro Paese con Pechino. Gli americani non gradiscono lo shopping del Governo cinese su alcuni servizi strategici italiani (energia, telecomunicazioni, difesa) e alcuni esponenti dell’esecutivo sono stati avvicinati e contattati negli ultimi mesi da alcuni diplomatici del Dipartimento di Stato (USA, n.d.r.) e da alcuni pezzi grossi dei fondi di investimento americani. La preoccupazione è che l’avanzata cinese in Italia sia un segnale di come la Repubblica Popolare cerchi di rendere più autonoma l’Europa dal Nord America e da questo punto di vista la ripetuta triangolazione tra Cina e Italia osservata in alcuni settori chiave come Finmeccanica ha portato l’Amministrazione americana ad alzare le sue antenne e ad attrezzarsi per mettere in campo una difesa simmetrica. L’esempio più significativo riguarda l’attivismo del fondo di investimento più grande del mondo. Blackrock, primo tra i fondi stranieri sulla Borsa milanese, con venti miliardi di euro di partecipazioni …” (5).

Se, stando ad alcuni commentatori, Matteo Renzi dovrà essere bravo a mostrarsi equidistante tra i due blocchi, quale debba essere invece l’atteggiamento delle strutture spionistiche del nostro Paese ci viene spiegato ancora una volta da un articolo della rivista “Formiche”, dove vengono chiarite le peculiarità introdotte dalla riforma dei servizi segreti del 2007: “La novità è data dall’inclusione nella sfera dell’interesse nazionale del mondo economico-industriale, in larghissima parte privato … E’ il Cisr (Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica Italiana) a determinare il fabbisogno informativo, cioè le esigenze conoscitive che il Governo chiede ai Servizi d’informazione di soddisfare … utilizzi l’intelligence anche per valutare la rispondenza all’interesse nazionale degli investimenti stranieri in Italia … A questo tipo di dialettica in Italia non siamo ancora abituati ma è facile pronosticare che prima o poi – molto probabilmente più prima che poi, vista la rapida crescita degli investimenti cinesi nel nostro Paese – inizieremo a praticarla con qualche frequenza” (6).

Stefano Vernole

 

NOTE

1 Michele Pierri, Vi spiego perché l’Italia è così corteggiata dalla Cina. Parla Carlo Pelanda, 25 luglio 2014.

2 Michele Pierri, Snam, Terna e non solo, vi spiego le mire della Cina sull’Italia. Parla ilgenerale Jean, 6 agosto 2014.

3 “Corriere economia”: Stato e mercato. Piani e retroscena del patto Italia-Oriente, 19 maggio 2014, p. 8.

4 Marco Onado, L’ondata cinese e l’interesse da consolidare, “Il Sole 24 ore”, 6 agosto 2014, www.ilsole24ore.com. Si veda anche: E’ boom di assunzioni italiane nelle multinazionalicinesi, “Il Tempo”, 20 ottobre 2014, www.iltempo.it. “Scenari Internazionali”, Sulla nuova Via della Seta”, anno 1, n. 1, luglio-settembre 2014.

5 Claudio Cerasa, America e Cina si sfidano in Italia. La storia inedita di uno scontro dipotere, “Il Foglio”, 14 ottobre 2014.

6 Adriano Soi, Occhio agli investimenti stranieri, “Formiche”, anno X – n. 97, novembre 2014, pp. 12-13.

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