I conservatori vincono e convincono nelle terre britanniche, e l’Unione Europea, poco più di un mostro burocratico per molti cittadini, ora rischia davvero di perdere un pezzo importante. Uno dei punti focali della linea politica del partito di Cameron è infatti l’euroscetticismo. C’è ormai una solida tradizione in questo campo, che parte dagli ultimi anni di governo Thatcher e giunge fino a oggi. John Major, primo ministro conservatore dal 1990 al 1997, rischiò seriamente di perdere la poltrona quando si trattò di ratificare il Trattato di Maastricht, nel luglio 1993. Nell’occasione, una frangia consistente del suo partito votò contro il governo, ma Major chiese un voto di fiducia e il Trattato alla fine fu implementato. Poi la storia ha preso un’altra piega, almeno fino a oggi. I laburisti di Blair e Brown, favorevoli all’integrazione europea, rafforzano decisamente i rapporti fra il Regno e Bruxelles. Firmano tutti i trattati europei (Amsterdam, Nizza, Lisbona) sfruttando la maggioranza parlamentare, senza alcun referendum.
Cinque anni fa, dopo la crisi, i conservatori vincono ma non dominano, costretti a formare un governo di coalizione con i liberal-democratici che sul tema europeo si mostra né carne, né pesce. I Lib Dem sono infatti europeisti convinti, i conservatori snobbano ancora un po’ i consessi continentali ma appaiono più moderati; Cameron è un leader post-ideologico, non un cavallo di razza passionale, mantiene una guida sobria e misurata. Giovedì scorso, la probabile svolta. Maggioranza tory assoluta, 331 seggi su 650. Il popolo inglese promuove il Governo uscente, promuove soprattutto il lavoro del Primo Ministro, boccia i suoi alleati di centro (ridotti ai minimi termini nel parlamento di Westminster) e stritola le buone speranze dei laburisti. Clegg e Miliband si dimettono, è una sconfitta senz’appello, di quelle che bruciano subito ma che, forse, nel tempo, i vinti non rimpiangeranno. Perché da una sconfitta del genere c’è solo da imparare. Nel frattempo Cameron ha formato un gabinetto “monocolore” che porterà avanti (e rinforzerà) le politiche adottate negli ultimi anni. E manterrà una promessa, fatta nel gennaio 2013, quando disse: in caso di ampia vittoria alle elezioni, non solo rinegozierò i patti con Bruxelles, ma darò voce al popolo inglese sul nodo di politica estera più importante, quello su cui ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di pronunciarsi: l’adesione all’Unione Europea. Piccola, ma rilevante, parentesi: quasi quattro milioni di inglesi hanno votato per l’UKIP, il partito di destra nazionalista guidato da Nigel Farage che nacque proprio intorno a un nucleo di ex-conservatori ribelli alle clausole di Maastricht, e che fece scintille l’anno scorso alle elezioni europee (non a caso). Per uno strano capriccio del sistema elettorale britannico, da rivedere al più presto, l’UKIP ha ottenuto soltanto un seggio alla Camera dei Comuni. Ma in un referendum ogni voto pesa. E il 12% dell’elettorato non può finire nel dimenticatoio. Cameron ovviamente lo sa: per tenere a bada gli estremisti bisogna batterli sui temi caldi. E bisogna parlare allo stomaco dei cittadini, muoverli per un vero ideale. Cosa c’è ora di più potente di un rinnovato spirito autonomista per consolidare il fronte politico interno?
Si sa che in pochi, fra i capi politici europei, gradirebbero il distacco di Londra e Bruxelles, ma le promesse sono promesse. Per quanto riguarda gli elettori, sondaggi a pioggia da un paio di anni tentano, senza fare troppa chiarezza, di carpire gli umori sul tema. Una cosa è certa: considerando in un’ ottica “continentale” il voto di giovedì scorso, a molti britannici oggi il divorzio non dispiacerebbe.
Nicola Serafini
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