L’adesione dell’Italia alla Banca di Sviluppo per l’Asia promossa dalla Cina è soltanto l’ultimo esempio dell’interesse che dalla nostra penisola si è proiettato verso le vicende asiatiche, cui possiamo dire che ha fatto da corrispettivo l’intervento di capitali cinesi nella Pirelli. Altresì non vi è la sola Cina tra i partner italiani in Estremo Oriente ed uno dei più importanti risponde al nome del Vietnam. E proprio al tema “L’Italia, il Vietnam e la cooperazione regionale nell’Asia-Pacifico” è stato dedicato un workshop svoltosi a Roma la mattina di giovedì 26 marzo presso la Sala del Cenacolo, nelle pertinenze della Camera dei Deputati, ed al quale è stato invitato il Centro Studi Eurasia-Mediterraneo.
Il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ha fornito il suo patrocinio all’iniziativa promossa dall’Ambasciata della Repubblica Socialista del Vietnam in Italia e da “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, il cui direttore Lucio Caracciolo ha introdotto e moderato i lavori. Gli onori di casa sono stati fatti dal giovane ed attivissimo ambasciatore vietnamita, S.E. Nguyen Hoang Long, laureatosi alla Bocconi e addottoratosi a Tor Vergata, nonché riconosciuto “Young Global Leader 2014” dal World Economic Forum.
I saluti istituzionali sono giunti innanzitutto dal Senatore Benedetto Della Vedova, Sottosegretario di Stato agli Esteri, il quale ha rilevato come l’imprenditoria italiana sia attiva in Vietnam non più per delocalizzare, bensì per essere presente direttamente in uno dei mercati che, nonostante la crisi mondiale, è ancora in forte crescita ed ormai fra Roma e Hanoi si può ben parlare di comprehensive partnership.
L’Onorevole Fabrizio Cicchitto, Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati ha altresì rilevato come la globalizzazione, contrariamente alle previsioni di alcuni anni or sono, è stata tutt’altro che un trionfo del mondo occidentale, avendo invece portato alla ribalta molti Stati asiatici di cui il Vietnam rappresenta un fulgido esempio.
Ha portato un saluto pure Paul Berg, consigliere dell’Ambasciata statunitense in Italia, rallegrandosi per la proiezione italiana nel sud-est asiatico, con particolare riferimento al coinvolgimento negli ambiti della sicurezza, dei diritti umani e del commercio. Ricordiamo come gli Stati Uniti nel corso degli ultimi anni abbiano ricalibrato il proprio impegno strategico nell’area del Pacifico e stiano cercando di intessere una rete di contatti che sia in grado di arginare l’impetuosa avanzata cinese sul piano economico, diplomatico e militare.
In questa prima sessione dei lavori l’intervento principale è stato tenuto dal dott. Hoang Anh Tuan, Direttore Generale dell’Istituto per la Politica Estera e gli Studi Strategici presso l’Accademia Diplomatica del Vietnam, il quale ha iniziato la sua ampia relazione evidenziando le tappe con cui il sud-est asiatico è uscito dal cono d’ombra del colonialismo e delle guerre sino a giungere alla costituzione dell’ASEAN, l’organizzazione regionale che raccoglie le nazioni dell’area con lo scopo di coordinarne le politiche economiche in un una prospettiva di libertà dei traffici e di sicurezza. A buon diritto si può presentare il XXI come il secolo dell’Asia e del Pacifico: entro il 2050 sei delle principali 10 economie del pianeta saranno site in quest’area, che già oggi ne accoglie quattro, ed esse saranno in grado di produrre il 60% del PIL globale. La Cina costituisce certamente l’esempio più eclatante, ma altri nuovi centri economici affiorano: si tratta di singoli mercati già di per sé efficienti, ma che hanno pure la fortuna di trovarsi ubicati in una regione economica competitiva e di essere caratterizzati da uno sviluppo economico equamente distribuito nella popolazione. In questo scenario la Cina c’è sempre stata ed è lì per restarci, Washington cerca di svolgere ancora un ruolo egemone, ma altre nuove forze stanno arrivando: India, Russia, Giappone ed Unione Europea. La nuova Asia che va configurandosi a questa latitudini, avendo la Cina come pivot, potrà perfezionare questo trend di crescita se saprà mantenere la pace, la cooperazione ed elementi di una sana competizione economica. La dialettica sino-americana è tuttavia la questione principale e non si può certo dire che Pechino soffra di sindrome d’accerchiamento quando si osserva che basi militari americane sono site in Afghanistan, Taiwan, Filippine e Corea del Sud, senza dimenticare che nelle altalenanti relazioni tra India e Cina gli USA hanno talvolta cercato di accreditarsi come interlocutori privilegiati di New Delhi. Ulteriore instabilità potrebbe anche derivare dalle aree di crisi locali, in particolare riguardo le questioni ancora aperte delle isole Paracel (rivendicate da Cina, Taiwan e Vietnam) e Spratly (la cui sovranità è contesa fra Cina, Vietnam, Taiwan, Malesia, Brunei e Filippine). Questi arcipelaghi hanno un’importanza strategica fondamentale, a partire dalle prospezioni petrolifere, che potrebbero rivelare giacimenti interessanti, fino a giungere al controllo dei traffici marittimi che giungono dallo Stretto di Malacca nel Mar Cinese Meridionale, spazio marittimo attraverso il quale transitano il 45% dei trasporti marittimi mondiali ed il 40% dei commerci planetari. La proiezione di Pechino verso quest’area è stata dipinta in toni preoccupati dall’analista vietnamita, che nel corso del dibattito conclusivo avrà tuttavia modo di smorzare i toni. Riferendosi al nostro Paese, Anh Tuan ha in conclusione affermato che Italia e Vietnam possono svolgere reciprocamente il ruolo di gateway nelle rispettive aree e la Farnesina può svolgere una preziosa opera diplomatica allo scopo di dirimere le appena ricordate questioni territoriali, coinvolgendo eventualmente anche l’Unione Europea in guisa di mediatrice.
Nella seconda parte della mattinata è intervenuta la Consigliera Sara Rezoagli, Capo Ufficio VII, Direzione Generale Mondializzazione e Questioni Globali del dicastero degli Esteri: dal suo punta di vista ha sottolineato il ruolo crescente dell’Italia nel contesto vietnamita, specialmente perché per Malacca transitano quotidianamente navi ed interessi italiani in quantità considerevole, ma anche nella misura in cui le attività imprenditoriali, commerciali, economiche e financo culturali si vanno radicando sempre più nello Stato indocinese.
E del ruolo prezioso che l’Italia può svolgere in quadranti così lontani, ma strategicamente rilevanti, ha dato ampia dimostrazione la relazione del Professor Mario Primicerio, che fece parte del seguito di Giorgio La Pira allorché l’ex sindaco di Firenze si recò in Vietnam nel 1965 per cercare di trovare una soluzione politica al conflitto con gli Stati Uniti. Il viaggio fu oltremodo avventuroso e prese il via grazie all’invito che l’ambasciatore del Vietnam del nord in Francia (unico paese europeo a riconoscere il governo di Ho Chi Minh) rivolse all’esponente democristiano, il cui impegno a favore della pace era ben noto. In seno all’Assemblea Costituente era, infatti, stato fra i redattori di quell’articolo 11 con il quale l’Italia afferma di ripudiare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e inoltre la diplomazia tricolore negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso era attiva su scala globale con un protagonismo invidiabile ai giorni nostri. All’epoca titolare della Farnesina era Amintore Fanfani, il quale, a riconoscimento del ruolo diplomatico esercitato dall’Italia in vari scenari, era anche Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Le proposte di pace che La Pira era riuscito ad ottenere furono portate a Fanfani all’ONU proprio dal giovane Primicerio (a fine anni Novanta sarà anche lui primo cittadino di Firenze) e da qui presentate alla diplomazia a stelle e strisce che le rifiutò sdegnosamente: il Trattato di Pace avrebbe in seguito contenuto clausole ben più dure per la superpotenza.
E sul ruolo italiano nel processo di pace in Vietnam si è soffermato pure l’Ambasciatore Mario Sica, autore fra l’altro del volume “L’Italia e la pace in Vietnam (1975-78)” (Roma, 2013). Riallacciandosi al precedente relatore, Sica ha ricordato come all’epoca l’ambasciatore italiano a Washington fosse sfacciatamente filoamericano e spesso in contrapposizione con il collega a Saigon, il quale auspicava il dialogo fra le parti in lotta: dal vertice del Ministero Fanfani avrebbe sostenuto le posizioni di quest’ultimo. Nel tentativo di addivenire alla soluzione del conflitto, il Ministro degli Esteri italiano non si rivolse a russi e cinesi, come facevano gli statunitensi, bensì direttamente ad Hanoi, sulla scia del suddetto viaggio di La Pira. Alla diplomazia italiana era chiaro che il processo di nation building avviato nel Vietnam del Sud era fallito, non solo perché gli USA avevano puntato sui cavalli sbagliati (come reputa parte della storiografia americana), ma anche e soprattutto perché non esistevano differenze così abissali fra nord e sud del Paese, che appariva unitario da un estremo all’altro. Evidentemente l’esperienza italiana acquisita grazie a quelle differenze che sanno integrarsi fra regioni settentrionali, centrali e meridionali della penisola aveva consentito di interpretare più correttamente la società vietnamita rispetto agli stereotipi comunismo/anticomunismo degli strateghi d’oltreoceano: Lyndon Johnson sembrava disposto a concludere l’impegno militare e a sostenere economicamente il Vietnam del Nord purché rimanesse un Vietnam del Sud indipendente ed anticomunista (la paura dell’effetto domino imperversava ancora alla Casa Bianca). Nei suo studi l’ex ambasciatore ha evidenziato come l’Italia seppe proporsi a mediatore in quanto non aveva interessi nell’area e non aveva scheletri negli armadi ereditati da esperienze coloniali in loco.
Ed è proprio collegandosi a siffatti precedenti storici che la conferenza si è conclusa, nell’auspicio che l’Italia sappia giocare sul piano culturale, diplomatico ed economico nuovamente un ruolo da protagonista nei rapporti bilaterali con il Vietnam.
Lorenzo Salimbeni
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