“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”: progetto di ricerca del Cesem
Nei percorsi antropologico-culturali di risalita verso le origini delle differenti civiltà, accade assai frequentemente di trovare percorsi storici e percorsi mitologici strettamente vicini quando non direttamente sovrapponibili. Questa considerazione, questo indissolubile intreccio di storia e leggenda, vale particolarmente per l’origine della civiltà tibetana, laddove alle origini della storia dell’attuale Tibet-Xizang l’elemento mitologico si costituisce quale vero e proprio archetipo fondativo di questa millenaria cultura.
L’origine del popolo tibetano viene solitamente fatta risalire alle tribù nomadi Ch’iang, le quali erano dedite all’allevamento di pecore e bestiame nei territori dell’Asia centro-orientale, spingendosi verso i confini nord-occidentali della Cina, diversi secoli prima dell’era cristiana. Questo popolo nomade si caratterizzava appunto per l’allevamento di animali oltreché per un’elevata propensione alla mobilità tra gli altipiani dell’Asia centrale, e in una apparentemente innata abilità nell’allevamento dei cavalli e degli yak, oltreché ad un individualismo di fondo. Ma la caratteristica principale di questa sparuta popolazione la si poteva scorgere nella propensione al nomadismo, dato da spostamenti continui con al seguito le greggi di pecore, capre e yak. Questi nuclei si spostavano durante tutto l’arco dell’anno entro vasti e sfumati confini, vivendo nelle tende e, praticamente fino ad un secolo fa, alcuni di loro hanno conservato uno stile di vita quasi uguale a quello dei duemila anni precedenti, laddove tra i tibetani dediti al nomadismo anche il ceppo razziale risultava molto meno alterato che tra i tibetani sedentari delle valli meridionali. Pare un dato abbastanza consolidato quello secondo cui, all’incirca all’inizio dell’era cristiana, il popolo di lingua tibetana abbia compiuto uno spostamento verso ovest attraverso la parte meridionale degli altipiani tibetani; questo fatto sarebbe confermato da alcuni esami eseguiti sulle prime produzioni letterarie immediatamente posteriori, che ci permettono ancora oggi di rintracciare e tracciare abbastanza precisamente i movimenti di alcuni clan del nord-est del Tibet verso il centro del paese. La prima avanzata dei popoli di lingua tibetana in direzione ovest e sud attraverso l’Himalaya, ovvero all’interno di quello che è oggi il Nepal centrale, risulta anche confermato dalla sopravvivenza in queste zone di antichi dialetti provenienti dallo stesso ceppo linguistico. Tuttavia, pare che ci sia stato un costante movimento di clan rivali dal nucleo comune di tribù nel nord-est del Tibet, alcune delle quali si spostarono gradualmente verso le più fertili vallate del Tibet centrale e meridionale, dove adottarono uno stile di vita più sedentario e parzialmente agricolo. Tuttavia, risulta ancora oggi abbastanza improbo avere una maggiore precisione a riguardo, così come risulta abbastanza vago il concetto stesso di clan, ma verosimilmente dovevano essere organizzati su base gerarchica, essendo costituiti da un capo famiglia e i suoi dipendenti e servitori ereditari. Quando essi divennero più stabili e sedentari, la famiglia del capo si costituì gradualmente in una sorta di aristocrazia, che probabilmente non differiva molto, almeno nelle sue caratteristiche essenziali, dal tipo di signori locali ereditari che hanno continuato ad esistere in Tibet fino al 1959. Ma procediamo con ordine.
Tra le leggende fondative dell’etnia tibetana, è abbastanza comune quella riguardante l’episodio mitologico di una divinità trasformata in scimmia e rifugiatasi in meditazione sull’altopiano himalayano. Come ha ricordato di recente Li Baoyue: «Molte etnie del mondo amano raccontare le loro origini in termini di mitologia, come noi cinesi che abbiamo gli imperatori Huangdi e Yandi e gli italiani che parlano di Romolo e Remo per illustrare le origini di Roma. Per quanto riguarda l’origine dell’etnia tibetana, posso raccontarvi una leggenda interessante: si tratta della storia della scimmia che diventa uomo, molto diffusa fra la popolazione tibetana. Prima di tutto vorrei ricordare che il Bodhisattva Guanyin è un simbolo di compassione perché salva sempre gli esseri viventi dalle difficoltà. Secondo la leggenda, Guanyin, che vivrebbe nell’isola di Putuoshan, nel Mar Cinese Meridionale, un giorno insegnò la dottrina ad una divinità trasformatasi in scimmia, inviandola a meditare sull’altopiano tibetano innevato. Mentre stava meditando una demone raggiunse il monte dove si trovava chiedendole di unirsi a lei. La scimmia rispose subito di essere una discepola di Guanyin impegnata a meditare, per cui se l’avesse fatto avrebbe infranto i voti. Al che la demone obiettò in lacrime: se non lo farai mi suiciderò, perché reincarnatami in questa vita in una demone ho visto in te la mia persona benemerita predestinata, quindi se non ci uniamo potrei diventare una vecchiaccia uccidendo molte vite e generando un’infinità di demoni. Allora tutto l’altopiano innevato diventerebbe un inferno, con la morte di ancora più esseri viventi. Quindi ti prego di acconsentire alla mia richiesta. Udito ciò la scimmia, come reincarnazione di un Bodhisattva, pensò: se mi unisco a lei, disobbedisco ai voti, ma se non lo faccio distruggerò molte vite. Così in un attimo volò all’Isola di Putuoshan a chiedere consiglio a Guanyin, che dopo aver riflettuto rispose: è una decisione del cielo ed anche di buon augurio: se ti unisci a lei diffondendo la razza umana sull’altopiano, farai una grande opera di bene. Come un Bodhisattva, gioisco di fronte al bene, quindi unisciti subito alla demone. Di seguito i due diventarono una coppia e generarono sei scimmiette di carattere ed interessi diversi. Il padre, una reincarnazione divina, portò poi i piccoli in un bosco di frutta selvatica affinché imparassero a diventare autosufficienti. Tre anni dopo questi andò a far visita ai figli, trovando che si erano ormai moltiplicati, diventando ben 500, quindi la frutta selvatica si stava esaurendo. Nel vedere il padre le scimmiette gridarono: di cosa ci nutriremo in futuro? sporgendo nel frattempo le mani verso di lui, in una scena davvero drammatica. Il padre pensò: ho dato vita a così tanti discendenti per obbedire ad un ordine del cielo, ma di fronte a questa situazione è meglio tornare a chiedere istruzioni al maestro! Quindi volò di nuovo all’isola di Putuoshan per interrogare Guanyin, che rispose di essere in grado di nutrire la discendenza. Seguendo gli ordini, la scimmia raggiunse il monte Sumeru, da cui trasse i semi dei cinque cereali che seminò sulla terra: senza alcun intervento questi si moltiplicarono, solo allora il padre lasciò la progenie per continuare a meditare nella sua grotta. Disponendo di cibo sufficiente, la coda delle scimmiette si accorciò e queste cominciarono a parlare, trasformandosi a poco a poco in uomini, ossia i progenitori dei tibetani dell’altopiano».1
Nel periodo degli albori della storia tibetana, che è comunemente fissato fino al sesto secolo d.C., è corretto supporre che la formazione di diversi clan dediti ad un precario nomadismo erano inclini a scacciare coloro che erano divenuti sedentari, benché durante il periodo del successivo regno tibetano – dall’inizio del settimo secolo alla metà del Novecento – quando il Tibet centrale prese il potere, le migrazioni da nord-est sembrano essere continuate e sostenute anche attraverso matrimoni di alleanza. Tuttavia questa considerazione, alla luce della contraddittorietà delle fonti storiche e della natura prevalentemente leggendaria delle successive trascrizioni storiografiche, non permette di essere maggiormente precisi. Così come rimane abbastanza contraddittoria l’origine e il significato dello stesso nome Tibet; questo sembra passato a noi attraverso la denominazione araba Tibat o Tobbat, tratta a sua volta da quella antica cinese Tu-pat o Tu-fan. In effetti tutte le tradizioni orali locali furono formulate, riportate e trasmesse da una serie di bardi, finché alcune di queste fonti non furono finalmente trascritte tra i secoli ottavo e nono, e così si conservarono fino ai giorni nostri nei misteriosi sotterranei di Dunhuang. Questa è una città cinese nella prefettura di Jiuquan, che si trova nella parte occidentale della provincia del Gansu, lungo la celebre Via della Seta, ed è posta in uno degli incroci di culture più significativi del pianeta. La città era l’ultima tappa per i viaggiatori diretti verso l’Occidente, prima della separazione della grande via in due diramazioni, necessarie per evitare di attraversare il deserto di Taklamakan. I due forti della città, la Porta di giada e il Passo Yangguan, significavano per i viaggiatori provenienti da ovest che si recavano in Oriente, l’aver superato indenni il percorso intorno al deserto, che era costellato di macabre ossa di sfortunati viandanti. Il centro rappresentava l’ultimo baluardo della muraglia cinese, ed è appunto diventata celebre per le grotte di Mogao, proprio laddove vennero custoditi per i secoli futuri i più celebri testi della tradizione cinese e tibetana ma non solo. La leggenda narra di un monaco buddhista chiamato Lezun che, nel 366, ebbe una visione di mille Buddha. Convinse quindi un ricco pellegrino della Via della seta a fondare il primo tempio che si trova qui. Col passare dei secoli i templi crebbero fino a superare il numero di mille, e con essi vennero costruiti ricoveri e repositori di testi sacri, e cappelle votive. Fra il IV e il XIV secolo i monaci di Dunhuang raccolsero numerosi manoscritti sia locali che occidentali, e molti dei pellegrini che passavano per il sito dipinsero affreschi all’interno delle grotte, oltre a lasciare un’offerta e a pregare per propiziarsi un viaggio tranquillo. Gli affreschi coprono una superficie di oltre 42.000 metri quadrati. I monaci buddhisti praticavano una vita ascetica e speravano che l’isolamento delle grotte li avrebbe portati più facilmente all’illuminazione. I dipinti servivano come aiuto per la meditazione, in quanto rappresentazione visiva della ricerca dell’illuminazione. Inoltre avevano lo scopo di illustrare agli analfabeti le storie e le credenze buddhiste. Tuttavia, nel corso dell’XI secolo le grotte vennero murate, in quanto erano ormai diventate ricolme di vecchi (ma preziosissimi) manoscritti, lacerati o perlopiù inutilizzabili. Mentre le opere precedenti al 600 d.C. raffigurano prevalentemente temi sacri rigorosi, i dipinti relativi all’epoca Tang descrivono le caratteristiche della vita di alcune persone, di qualunque ceto sociale, che transitavano o che abitavano in questo luogo. Le pitture raffigurano commerci, usi, tradizioni, preghiere, leggende, lavorazioni artigianali e per quanto riguarda l’ambito religioso lo storico conservato consente di verificare i mutamenti intercorsi fra il buddhismo originario indiano e la sua progressiva assimilazione nella cultura filosofica cinese.2
Quello che è certo, è che con il passaggio dall’epoca arcaica tibetana alla fondazione del primo Regno dello Yarlung le fonti storiche passano ad un livello di attendibilità maggiore. Le prime testimonianze storiche suggeriscono l’idea di un assetto tra capi clan rivali che vivevano in roccaforti nelle vallate dei vari affluenti centrali e orientali dello Tsangpo. Ogni capo aveva già suoi vassalli nobili; i vari capi erano serviti dai rispettivi schiavi e dai sudditi. Si praticava l’agricoltura, l’allevamento di pecore e altro bestiame. A nord rispetto a questi nuclei civilizzati permanevano popolazioni nomadi. Si comincia a registrare una storia databile solo quando alcuni capi clan locali si accordarono per sostenere come loro unico sovrano il capo che governava nella valle dello Yarlung, facendo di lui un re potente, rispetto al quale tutte le aree confinanti furono ben presto costrette ad assoggettarsi. Il sovrano di Yarlung, la cui confederazione avrebbe costituito il nucleo del potere tibetano, divenne noto con il titolo di sPurgyal bTsan po. Il termine bTsan po significa potente, e venne usato abitualmente in seguito come titolo nobiliare del re tibetano, e tale regno del Tibet centrale venne chiamato Bod di sPurgyal. Bod era un termine arcaico, in quanto si riferiva al Tibet quale luogo nativo o paese di origine, e da allora è stato il nome con il quale i tibetani hanno designato il loro paese. Il primo re tibetano, come poi i suoi successori, aveva una particolare configurazione sacra, per cui ci si riferiva a lui come al Divino Potente (lha-btsan-po) e Figlio del Divino >(lha-sras). Pare che, come per altre idee di civiltà delle origini, esse potevano provenire dalla Persia, ed essere state portate ai tibetani dai popoli centro-asiatici alle loro frontiere settentrionali. Comunque sia – sempre nei termini della narrazione mitologica – si pensava che il re divino del Tibet fosse disceso dallo zenit dei cieli per mezzo di una corda celeste, che attraversava i vari livelli atmosferici; questa credenza leggendaria costituisce uno dei temi classici di glorificazione della funzione regale tibetana, che ricorre sia nei documenti di Dunhuang che nelle prime incisioni su pietra. Peraltro, esistono differenti versioni della leggenda che fece la sua apparizione per la prima volta nel quattordicesimo secolo, che racconta come il primo re del Tibet fosse disceso sulla sacra montagna di Yarl-lha-sham-po nello Yarlung, dove fu accolto da una cerchia di dodici uomini, la cui identità come comandanti, pastori e saggi, varia a seconda delle diverse versioni. Poiché egli era disceso dal cielo, stabilirono di farlo re e lo portarono con una portantina sulle loro spalle; per questo motivo, viene anche chiamato gNya’-khri-bTsna-po, ovvero il Potente Portato a Spalla. Come si riporta sempre nei documenti di Dunhuang, il nome originario del primo re tibetano centrale dev’essere stato Nyag-khri; prima di raggiungere la valle dello Yarlung a sud dello Tsangpo, la dimora dei futuri re tibetani, probabilmente egli si stabilì inizialmente nel Kong-po, a nord dello Tsangpo e quindi ad est. Essendo figli degli dei, si riteneva che i primi regnanti fossero ritornati dal cielo per mezzo di una corda celeste, senza lasciare spoglie sulla terra. Il cambiamento che avrebbe portato alla normale mortalità dei personaggi storici fu spiegata con un racconto sul sesto successore di Nyag-khri. A causa di un errore, alla nascita gli venne attribuito il nome di cattivo auspicio Dri-gum (ovvero ucciso per profanazione). In quanto essere divino, egli possedeva poteri magici e crebbe in modo fiero; ma poiché sfidava in continuazione i suoi parenti e i suoi sudditi a lottare contro di lui, uno di essi, tale (che significa il Padrone del Cavallo), alla fine accettò la sfida a condizione che il re si spogliasse delle sue virtù magiche. Nel frattempo Lo-ngam aveva architettato uno stratagemma, fissando delle punte di lancia d’oro sulle corna di cento tori, caricando dei sacchi di cenere sulle loro groppe. Quando i tori si affrontarono, i sacchi si sfondarono e l’aria si riempì di cenere; in una polverosa confusione, Lo-ngam uccise il re, realizzando il cattivo presagio associato al nome del re. Come ovvio, si può attribuire poca affidabilità storica a questi racconti, ma questo episodio può indicare tuttavia che si sia verificata una crisi epocale nel regno, quando i sovrani stabiliti furono sconfitti da un invasore straniero. In tutti i casi è vero che da quel momento in avanti i re lasciarono le loro spoglie mortali sulla terra, dove furono sepolte nel cimitero regale di ‘Phyong-rgyas, non lontano da Yarlung, sovrastato dall’antico castello regale del Phying-ba’i sTag-rtse, ovvero Picco della Tigre.
Quelle che vanno quindi ricordate, sono essenzialmente due figure. Anzitutto quella di Nyatri Tsenpo che fu il fondatore del regno di Yarlung e della omonima dinastia nel Tibet meridionale. Anche se non esistono riscontri storici della sua esistenza, e la sua leggenda è stata tramandata dai tibetani nella locale tradizione orale, il suo regno sarebbe cominciato nel 127 a.C., anno che viene anche celebrato come il primo del calendario tibetano.3 In seguito, a fissare il passaggio del Tibet-Xizang dalla sua epoca arcaica all’antichità storicamente documentata, la figura di Songtsen Gampo (o Sroṅ btsan sgam po). Questo sovrano, che visse tra i primi anni del sesto secolo e la metà dello stesso (le fonti, a tal proposito, non sono di grande aiuto)4, fu il trentatreesimo sovrano della dinastia Yarlung ed il primo Imperatore del Tibet. È considerato il primo sovrano storico ed il vero fondatore della patria tibetana antica. La documentazione relativa a Songtsen Gampo è talvolta approssimativa o contraddittoria, soprattutto per quanto concerne la differenza tra le fonti cinesi e quelle tibetane, ma resta comunque la prima tra quelle riguardante gli antichi re del Tibet che abbia molti fondamenti storici di rilievo. Era discendente diretto del leggendario re Nyatri Tsenpo e figlio del re Namri Songtsen, di cui fu il successore alla morte avvenuta nel 629. Gli annali cinesi dell’epoca lo citano anche col nome Qizonglongzan. Secondo alcune fonti nacque a Gyama, l’odierna Gongkar, la capitale del regno fondata dal padre nella valle dello Yarlung a sud di Lhasa. Come detto, la data esatta della nascita è incerta, e se i tibetani la collocano tradizionalmente un anno prima della fondazione della dinastia Tang dell’Imperatore Cinese Gao Zu e perciò nel 617, altri studi approfonditi escludono categoricamente che sia nato dopo il 605 ed alcuni sostengono che la nascita risalga a prima del 595. Era figlio del precedente re degli Yarlung, Namri Songtsen, che aveva creato un potente esercito e si era impadronito del Tibet centrale, e di Dringma Togo del clan degli Tsepong, che ebbero un ruolo determinante nell’unificazione del Tibet. Il Libro dei Tang riporta che divenne re nella prima adolescenza, l’età in cui, secondo la tradizione regale degli Yarlung, si sapeva già andare a cavallo, requisito essenziale per divenire sovrano, e salì al trono nel 629 dopo aver sconfitto i congiurati che gli avevano ucciso il padre. Alcuni documenti scoperti nelle grotte di Dunhuang gli attribuiscono una sorella, Sad-mar-kar, che nel quadro dell’alleanza con il regno cinese di Zhang Zhung fu fatta sposare a quel sovrano, e due fratelli minori, uno dei quali fu accusato di tradimento e messo al rogo nel 641. Un secondo fratello, Tsen srong, entrò in conflitto con la sorella e fu costretto a fuggire nella zona occidentale dell’odierno Arunachal Pradesh, e divenne il progenitore della stirpe dei Khan Mongoli. Il castello di Taktsé in cui era insediato, si trova tuttora nell’attuale contea di Chongye della prefettura di Shannan nel Tibet meridionale, nella zona della odierna Tsetang in prossimità del fiume Yarlung, ma nel 633 trasferì la capitale a Lhasa, a quei tempi una terra pressoché disabitata, che trasformò nella capitale dell’Impero, adornandola con bellissimi templi e palazzi, che negli ultimi anni sono stati oggetto di importanti opere di restauro architettonico da parte del Governo. Sempre nel Libro dei Tang, Jiu Tangshu riporta che l’imperatore cinese Gao Zong, in segno di gratitudine per aver sconfitto un’armata indiana che minacciava la Cina, gli conferì alcuni titoli regali e gli fece preziosi doni, soddisfacendo le richieste del re tibetano di avere uova di baco da seta, torchi per fare il vino, personale specializzato nella manifattura di carta e inchiostro. Furono importati in Tibet durante il suo regno prodotti artigianali e sistemi astronomici dalla Cina, la legge buddhista del Dharma e l’arte della scrittura dall’India, tesori dal Nepal e dalla Mongolia e modelli di leggi e di amministrazione statale dall’Uiguristan. I ritrovamenti nelle grotte di Dunhuang, nell’allora Tibet nord-occidentale ovvero nell’attuale provincia cinese del Gansu, hanno portato alla luce la lista della genealogia degli imperatori tibetani, completa dei nomi delle loro mogli e dei clan di provenienza; secondo questi scritti Songtsen Gampo ebbe diverse mogli ufficiali. La prima fu Trimonyen Dongsten, detta anche Mangza Tricham, figlia del re di Mang, un regno nella valle di Tolung che si trova nel nord dell’odierno Sikkim, che gli diede il primogenito Gungsrong Gungtsen attorno al 625. Per cementare l’alleanza con il regno dello Zhang Zhung, nel Tibet occidentale, prese in moglie una figlia del re, a cui diede in sposa la sorella Sad-mar-kar, un’altra delle sue mogli fu una nobildonna dei clan Minyak, che regnavano nello Xia occidentale, a nord-est del Tibet. Sempre nella sua strategia di alleanze, Songtsen Gampo sposò poi, attorno al 624, la figlia del re nepalese di Licchavi, la principessa Khri b’Tsun, detta la dama reale (Bhrikuti Devi), e nel 641 la principessa cinese Wencheng, nipote dell’Imperatore della Cina Taizong di Tang. Queste due famose mogli gli permisero di stringere alleanza con il Nepal e soprattutto con la Cina, e di introdurre il buddhismo nel paese; per questo motivo sono tuttora venerate e vengono considerate entrambe la reincarnazione di Tārā, la divinità della compassione che in Tibet viene chiamata Dölma (sGrol-ma). In particolare Wencheng è chiamata Dol-kar, la Dolma bianca, e Bhrikuti Dol-jang, la Dolma verde, che viene invocata dalle donne in auspicio di fecondità. Si narra che Wencheng fosse disgustata dall’usanza tibetana di dipingere i volti di rosso e convinse Songtsen ad abolire questa consuetudine. Secondo gli annali cinesi riuscì anche a fare abbandonare le vesti tradizionali in uso presso la corte tibetana in favore di quelle più lussuose cinesi, e spinse la nobiltà ad inviare i propri figli a studiare nell’erudita capitale dell’impero cinese, che a quei tempi era Xi’an, nell’odierna provincia dello Shaanxi. Sempre secondo gli annali tibetani, in seguito Songtsen strinse alleanza anche con il sovrano di Zhang Zhung, un regno che dominava il Tibet occidentale, e con l’aiuto delle sue truppe nel 627 fu in grado di portare a termine la conquista del regno qiang di Sumpa, situato nel Tibet del nord-est, nella regione chiamata Amdo, che era già stato sconfitto dal padre di Songtsen e a cui aveva ceduto parte dei territori.>Sempre nel Libro dei Tang, Jiu Tangshu fa risalire al 634 l’invasione dell’impero di Tuyuhun da parte dei tibetani e dei loro alleati Zhang Zhung e alcune tribù qiang; questo impero era molto vasto e da molto tempo si disputava con i cinesi la supremazia del centro Asia. Tale vittoria allarmò la Cina, al cui imperatore Songtsen richiese di concedergli in moglie una figlia per stringere alleanza, ed al rifiuto di questi sarebbero seguite qualche anno dopo vittoriose incursioni tibetane nei territori cinesi. Secondo gli annali Tang dopo tali incursioni Songtsen si ritirò scusandosi con l’imperatore, ottenendo in seguito in moglie la nipote Wecheng, ma secondo la storiografia tibetana l’imperatore cinese concesse Wecheng in moglie sotto la minaccia delle armi. Anche la conquista di Zhang Zhung viene citata da fonti tra loro contraddittorie: secondo alcune il regno fece atto di sottomissione a Songtsen nel 634, prima della campagna contro Tuyuhun, secondo altre dopo il matrimonio tra il re di Zhang Zhung e la sorella di Songtsen, questa si lamentò di essere trattata male nella nuova corte e tramò contro il marito, che fu ucciso in un agguato tesogli dai soldati di Songtsen, il quale riuscì in questo modo ad unificare il Tibet nel 645. Dall’unione del Tibet centrale, detto Bod, con lo Zhang Zhung prese vita il nuovo regno chiamato Bod rGyal-khab, il nucleo del regno tibetano.
Date queste premesse, si può giungere alla conclusione che a partire da questo sovrano i due regni, tibetano e cinese, iniziarono ad intessere un forte legame sia dal punto di vista culturale, che da quello politico-dinastico. È interessante, a tal proposito, scorgere qualche passaggio significativo dei documenti della dinastia cinese Tang, che ci forniscono le prime descrizioni sulla vita e sui costumi dei tibetani: «Ci è stato riferito che il paese ha un clima molto freddo, che vi crescono avena, orzo, frumento e segale; che vi sono yak, eccellenti cavalli, cani, pecore e maiali. La capitale è chiamata Lhasa; attorno a essa vi sono mura, e all’interno case con tetti piatti. Il re e i suoi nobili vivono in tende di feltro, che sono unite tra di loro. Gli abitanti dormono in luoghi non puliti, non si lavano mai, né si pettinano i capelli. La maggioranza della popolazione conduce una vita basata sulla pastorizia, con i loro greggi, senza avere fissa dimora. Si vestono di feltro e pelli. Amano dipingersi con ocra rossa. Le donne intrecciano i capelli. Adorano i cieli e credono nei maghi e negli indovini. Non conoscono le stagioni e il loro anno ha inizio quando l’orzo è maturo. I loro giochi sono gli scacchi e i dadi; come strumenti musicali essi suonano le trombe e i tamburi. Non usano la scrittura per scopi ufficiali, ma stipulano i loro contratti per mezzo di corde annodate e bastoncini con tacche. Ottengono dei vasi scavando un pezzo di legno e foderandone il fondo con pelle, o fanno recipienti di feltro. Mescolano il grano arrostito (cioè lo tsam-pa) in ciotole, aggiungendovi brodo o quagliata, e mangiano il tutto mescolato insieme. Bevono la birra nelle mani disposte a coppa. Sono centinaia di migliaia di uomini in condizione di portare le armi, e per reclutare le truppe usano un arco d’oro (come insegna dell’autorità). Per segnalare gli attacchi dei nemici danno avvertimenti con segnali di fuoco e fumo. Esiste un posto di guardia ogni cento li. Le loro armature e i loro elmi sono eccellenti. Quando li indossano tutto il loro corpo è ricoperto, con aperture solamente per gli occhi. Non lasciano mai il loro arco e la loro spada. Essi apprezzano la forza fisica e disprezzano la vecchiaia. La madre saluta il figlio, e il figlio ha la precedenza sul padre. Quando escono ed entrano, è sempre il giovane a passare per primo, e il vecchio dopo. La disciplina militare è rigida. In battaglia, finché le truppe davanti non sono schierate, quelle dietro non prendono posto. Essi stimano la morte in battaglia, mentre detestano terminare la vita per malattia. Le famiglie in cui diverse generazioni siano morte in battaglia sono considerate di rango più elevato. Invece se qualcuno è sconfitto in battaglia o fugge, attaccano una coda di volpe sulla sua testa per far vedere che si è comportato da codardo come una volpe. Una grande folla si riunirà ed è certo che verrà messo a morte. Secondo i loro usi, questa situazione è estremamente vergognosa, e pensano che piuttosto che trovarcisi, sia molto meglio morire. Come punizione, anche per colpe lievi, cavano gli occhi o tagliano i piedi o il naso. Infliggono frustate con staffili di pelle finché possono, senza fissare una numero preciso di frustate. Come carcere, scavano la terra per diverse dozzine di piedi, e tengono i prigionieri in questa fossa per due o tre anni. Il re e cinque o sei del suo seguito contraggono un legame d’amicizia e si dice che vivono in comune. Quando i re muoiono, tutti gli altri vengono uccisi ritualmente. I suoi abiti, il suo tesoro, i cavalli che ha montato, sono tutti sotterrati in una vasta camera che viene ricoperta di fango. Sopra vi vengono piantati alberi, e in questo posto vengono eseguiti i sacrifici ancestrali».5
Questa può essere considerata una testimonianza abbastanza generale del punto di vista dei cinesi, che vedevano i tibetani come barbari, e senza dubbio termini analoghi vengono usati per definire popoli nomadi confinanti. L’affermazione che i tibetani non possedessero scrittura, per esempio, può risalire solamente a un periodo anteriore al 640 d.C. circa, mentre le informazioni sull’abilità e valore militare dei tibetani deve riferirsi ad un periodo leggermente successivo. Tuttavia gran parte di questi dati può essere confermata da altre fonti. Alcune famiglie conservano ancora antichi piatti fatti di pelle, esattamente del tipo descritto e alcuni tibetani mangiano ancora il loro brodo in ciotole nelle quali immergono lo tsam-pa (piatto di orzo arrostito), come mangiavano quelli descritti nel documento. Lhasa può essere stata fondata solo dal Re Srong-brtsan-sgam-po (Songtsen Gampo), e le brevi descrizioni sul genere di vita del popolo sono probabilmente abbastanza attendibili. Sulla preparazione militare del Tibet si potrebbe probabilmente dire di più, e per quanto riguarda l’uso dell’ocra rossa come pittura facciale, un testo del Khotam si riferisce regolarmente ai tibetani, che invasero questo paese nel 665 d.C., distruggendo templi e santuari, come ai Visi Rossi. Oltre alla descrizione generale del Tibet gli Annali Tang forniscono un minuzioso resoconto delle relazioni tra la Cina e il Tibet dal settimo al nono secolo, fornendo molte testimonianze sugli usi dei tibetani durante il periodo in cui i due paesi si conobbero reciprocamente piuttosto a fondo. Sia Songtsen Gampo che i suoi successori sposarono principesse cinesi e altri matrimoni sono certamente avvenuti tra nobili tibetani e spose cinesi. L’offerta di principesse cinesi ai capi barbari confinanti era un’espediente della diplomazia cinese finalizzata all’estensione della loro egemonia politico-culturale in tutta l’area dell’Asia centro e sud-orientale. Prima delle ricche scoperte di materiale archeologico nei primi tempi di Dunhuang recentemente avvenute, gli studiosi di storia tibetana dovevano basarsi su storie tibetane più recenti, pesantemente influenzate dal pietismo buddhistico, e mancavano solitamente di una stima critica dei primi documenti. Anche i tibetani rimasero ampiamente ignari delle registrazioni cinesi di quell’epoca sul loro paese, per cui esse posseggono un valore inestimabile, non solo per la loro generale attendibilità storica, ma anche per le accurate descrizioni che spesso offrono di particolari eventi. Confermano la tradizione tibetana a proposito delle principesse cinesi date in moglie ai sovrani tibetani, e forniscono una storia continua di guerre, ambasciate e trattati tra i due paesi durante il periodo monarchico del Tibet. La luce che proiettano sugli usi tibetani dei tempi arcaici è preziosissima. Alcuni nobili tibetani sono descritti come persone distinte, dal comportamento gradevole, che già conoscevano parzialmente il cinese; ma in generale il tono è di preoccupazione e disapprovazione degli usi barbari. La loro abilità militare è giustamente e sinceramente ammirata; la grandezza dei loro eserciti è frequentemente annotata, e probabilmente esagerata; i loro assidui e abili metodi per ottenere i loro scopi sono messi in rilievo, e si può sicuramente supporre che in quest’epoca antica vi fossero alcuni, anche se pochi, studiosi tibetani del cinese letterario nella corte tibetana. Questo è degno di nota, perché dalla fine del periodo monarchico (842 d.C. circa) in avanti, gli studi sul cinese non furono più promossi in Tibet, e i tibetani rimasero per diversi secoli all’oscuro della letteratura e della filosofia cinesi, così come delle registrazioni storiche. L’influenza culturale cinese in Tibet era presenta già da allora, come testimoniano i ritrovamenti nel sito di diversi manufatti ed opere di artigianato. Già nel 640 i cinesi inviavano in Tibet inchiostro e carta, così come sete e gioielli. Probabilmente anche il tè venne introdotto in Tibet in questo periodo, pur rimanendo per un certo tempo una bevanda aristocratica. Un documento dell’ottavo secolo sembra riferirsi a qualche tipo di utensile per fare il tè. Sappiamo dalle loro registrazioni che i tibetani producevano già la birra dal riso e dal frumento e certamente conoscevano il vino prodotto dall’uva. È verosimile che la moglie cinese di Songtsen Gampo, alla quale è attribuito uno zelo fervente per il Buddhismo, abbia avuto una parte non trascurabile nell’introduzione alla corte di maniere più raffinate. Si riporta sempre negli Annali di Tang che ella non apprezzasse per nulla il modo in cui i tibetani si dipingevano i visi di rosso, e che Songtsen Gampo avesse proibito formalmente questo uso alla sua richiesta. Egli stesso depose i suoi abiti di feltro e stoffa grezza rossiccia per adottare i costumi cinesi, e procurò che i figli delle grandi famiglie ricevessero un’educazione cinese. Ancora, negli Annali di Tang si può incontrare la descrizione fatta da un ambasciatore cinese sulla sua ricezione alla corte tibetana nell’821: «La vallata a nord del fiume Tsang-po è il quartier generale estivo del re. È circondato da pali fissati assieme; a intervalli di cento passi vi sono cento lance disposte con un grande vessillo in mezzo. Cento passi più in là ci sono tre portoni, presso i quali soldati con armature montano la guardia. Sacerdoti con copricapi piumati e cinture di pelle di tigre battono i tamburi. Chiunque voglia entrare viene perquisito prima di accordargliene l’autorizzazione. Al centro c’è un alto palco circondato da una balaustrata preziosa. Il re siede nella sua tenda, che è decorata da ornamenti d’oro a forma di draghi, tigri e leopardi. Indossa un abito bianco e un turbante dai colori delle nubi mattutine, legato attorno alla testa. È cinto da una spada intarsiata d’oro. Il Grande Ministro del Culto sta alla sua destra, e i ministri di stato sono in fila ai piedi del palco. Non appena arrivò l’ambasciatore di T’ang, il nobile ministro Si-ta-jo giunse per stabilire con lui il protocollo dell’alleanza. Venne allestito un grande festino a destra della tenda e il modo di servire i piatti e passare il vino era molto simile a quello cinese. Veniva suonata musica con l’aria del Principe di Chin che spezza la falange, come pure altri motivi della prefettura di Liang. È registrato che tutte le canzoni e gli spettacoli furono eseguiti da cinesi. L’altare per il patto era largo tre passi e alto due piedi. L’ambasciatore di T’ang e più di dieci ministri stranieri stavano di fronte a cento capi disposti sotto l’altare. Sull’altare era posto un trono, e il Grande Ministro del Culto, salito sul trono, pronunciò il giuramento. Qualcuno di fianco a lui lo tradusse e lo comunicò a quelli che stavano più in basso. Quando ebbe finito versarono il loro sangue a conferma del giuramento, ma il Grande Ministro del Culto non lo fece. Comunque ripeté il giuramento nel nome di Buddha e bevve in onore dell’ambasciatore di T’ang da un bicchiere di acqua color zafferano. L’ambasciatore ricambiò l’onore ed essi scesero dall’altare».6
In definitiva, si può correttamente affermare che una storia tibetana propriamente detta comincia nel settimo secolo, quando cioè Songtsen Gampo per la prima volta diede unità politica alle varie tribù che abitavano il pianoro tibetano e stabilì la supremazia della sua casa sui capi dei grandi clan che si dividevano il territorio. Prima di Songtsen Gampo (seconda metà del sec. VI – prima metà del sec. VII d. C.) non sappiamo quasi nulla: le cronache tibetane ci hanno conservato notizia dei suoi predecessori, ma è difficile sapere se essi abbiano realtà storica o siano soltanto nomi che sfumano nella leggenda. Sono in gran parte gruppi di re ai quali, sul modello delle tradizioni cinesi, si attribuisce l’invenzione di molte arti della pace. Il paese sembra sia stato diviso in varie comunità sotto il predominio di alcune grosse famiglie non sempre in buon accordo fra loro, dedite alla pastorizia e anche a scorrerie armate. Certo, Songtsen Gampo riuscì a fondare uno stato così forte in grado di confrontarsi ed allearsi con la Cina: la potenza del Tibet sorgeva così minacciosa che l’imperatore non disdegnò di cedere in moglie, non già la figlia come vorrebbero alcune fonti tibetane, ma una sua parente a Sroṅ btsan sgam po. Questo matrimonio, insieme con quello avvenuto fra lo stesso re tibetano e la figlia di Amśuvarman re del Nepal, segna in effetti l’inizio della duplice influenza che il Tibet cominciava a ricevere dalle due grandi civiltà vicine, l’indiana e la cinese. Il duplice matrimonio aprì forse per la prima volta la mente del rude guerriero a più gentili forme di vita e di pensiero, e se anche i tibetani enfatizzano il ruolo di Songtsen Gampo come di un autentico e fervente buddhista, non si può tuttavia dubitare che durante il suo governo e per opera della sua politica avvenne la prima penetrazione del buddhismo nel Tibet. Così come, sull’altro fronte, grazie a questo sovrano si stabilirono i primi legami dinastici con l’Impero cinese. Non è infatti per nulla casuale che la quasi totalità delle fonti storiografiche esistenti su questo periodo siano di origine cinese: da un lato lo sterminato patrimonio costituito dai reperti e dai manoscritti ritrovati nel secolo scorso nelle grotte di Mogao vicino a Dunhuang, nella provincia del Gansu. Dall’altro, la ricchezza culturale contenuta nel Libro dei Tang, che incasellano il Tibet degli albori tra le civiltà più prossime a quella cinese.7
Marco Costa
BIBLIOGRAFIA
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BECKWITH, CHRISTOPHER I., The Tibetan Empire in Central Asia: A History of the Struggle for Great Power among Tibetans, Turks, Arabs, and Chinese during the Early Middle Ages. Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1987.
DORJE, GYUME, Footprint Tibet Handbook with Bhutan, Footprint Handbooks, Bath, 1999.
LEE, DON Y., The History of Early Relations between China and Tibet: From Chiu t’ang-shu, a documentary survey, Eastern Press, Bloomington, Indiana, 1981.
TUCCI GIUSEPPE, Tibet, paese delle nevi, De Agostini, Novara, 1967.
TUCCI GIUSEPPE, Indo-tibetica 1: Mc’od rten e ts’a ts’a nel Tibet indiano ed occidentale: contributo allo studio dell’arte religiosa tibetana e del suo significato, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1932.
TUCCI GIUSEPPE, Indo-tibetica 2: Rin c’en bzan po e la rinascita del buddhismo nel Tibet intorno al Mille, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1933
NOTE
1 Consulta http://italian.cri.cn/1/2005/01/19/67@26515.htm
2 Sul tema si può consultare Hopkirk, Peter. Foreign Devils on the Silk Road: The Search for the Lost Cities and Treasures of Chinese Central Asia, The University of Massachusetts Press, 1980.
3 Consulta Geoffrey Samuel, Civilized Shamans: Buddhism in Tibetan Societies, Smithsonian Institution Press, Washington, 1993
4 Vedi Aa. Vv. Ancient Tibet: Research materials from the Yeshe De Project, Dharma Publishing, California, 1986.
5 Vedi P. Pelliot, Histoire ancienne du Tibet, Librairie d’Amâerique et d’Orient, Parigi, 1961, p. 79-82.
6 Vedi P. Pelliot, Histoire ancienne du Tibet, Librairie d’Amâerique et d’Orient, Parigi, 1961, p. 83.
7 Il Vecchio Libro di Tang, o semplicemente il Libro dei Tang, è il primo classico lavoro storico sulla dinastia Tang, che comprende 200 capitoli, ed è una delle Ventiquattro Storie. Originariamente compilato durante le Cinque Dinastie e Dieci Regni periodo, è stato sostituito dal Nuovo Libro di Tang che è stato compilato durante la dinastia Song. A loro volta, le Ventiquattro Storie sono un insieme di classici della storiografia cinese che coprono il periodo storico dal 3000 a.C. alla dinastia Ming. Viene considerato una fonte autorevole sulla storia e sulla cultura cinese, in particolare sulla letteratura, l’arte, la musica, la scienza, la storia militare, la geografia e l’etnografia.
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