ASRIE FOCUS – SICUREZZA LIBIA
In questi giorni gli occhi del mondo sono puntati sulla città di Skhirat, a nordovest del Marocco, luogo dove si stanno svolgendo, sotto la direzione delle Nazioni Unite, i colloqui dell’ennesimo round di negoziati tra i governi di Tobruk e quello di Tripoli, le principali parti in causa del conflitto che sta sconvolgendo la Libia e l’intera regione del Mediterraneo. La speranza comune e condivisa è quella di vedere che gli sforzi diplomatici dell’inviato speciale dell’ONU Bernardino Leon mostrino i primi risultati concreti.
C’è chi pensa che questo round di negoziati sia quello decisivo per fondare le basi di una unità nazionale ed un cessate il fuoco duraturo anche se, visti i precedenti e la situazione sul campo, molti addetti ai lavori non sono concordi su questo ottimismo basti pensare che i negoziati stanno svolgendo separatamente, senza un faccia a faccia tra le due parti[1].
Sembra ancora che nessuna forza, coalizione, esercito o milizia, dalla più potente alla più piccola, sia seriamente decisa a prendere la via del dialogo. Nessuno è disposto a cedere quel fazzoletto di sovranità guadagnato dopo ormai più di un anno di conflitto feroce. Qualunque progresso fatto grazie al lavoro dell’UNSMIL (la missione diplomatica dell’Onu guidata da Leon) è stato fatto naufragare il giorno dopo a causa di palesi inadempienze agli accordi operate una volta dal governo di Tripoli una volta da quello di Tobruk. E il trend non cambia neanche in questi ultimi colloqui: : il 5 marzo, primo giorno di negoziati, aerei del governo di Tobruk hanno bombardato postazioni del governo di Tripoli tra cui le vicinanze dell’aeroporto Mitiga [2].
Nonostante gli sforzi e l’appoggio che tutte le potenze occidentali stanno garantendo alla via diplomatica, i diretti interessati sembrano quindi preferire il potere persuasivo delle armi. Lo dimostrano i continui richiami del Generale Khalifa Haftar, il controverso generale a capo delle forze di Tobruk, e di tutto il governo affinché venga annullato l’embargo europeo delle armi deciso fin dai tempi dei bombardamenti Nato del 2011[3].
I motivi dell’espansione internazionale del conflitto libico
A parere di chi scrive, uno dei motivi per il quale il fuoco del conflitto libico non solo non è destinato a spegnersi, ma rischia di essere ulteriormente alimentato, è il coinvolgimento sempre più attivo di attori statali esterni alla Libia.
L’ex colonia italiana è da sempre una terra che suscita gli appetiti di moltissimi paesi sia per le sue ingenti risorse energetiche sia per la sua posizione strategica nel Mediterraneo. Pare superfluo citare l’Italia come attore maggiormente coinvolto nella questione: la Libia è il terzo paese esportatore di gas in Italia dopo Russia e Norvegia e il sesto per quanto concerne il petrolio[4]. Inoltre rappresenta il più importante paese di transito per i flussi di migranti provenienti da Africa sub-sahariana, Corno d’Africa e, più recentemente, Siria e Iraq.
Ma dal crollo del regime di Gheddafi nel 2011, l’importanza politica del paese ha acquisito una valenza molto più ampia. Tutti i principali attori regionali sono interessati alle sorti del conflitto, e tutti appoggiano apertamente o meno le varie fazioni presenti sul campo di battaglia. Le ragioni di queste complicazioni internazionali sono in sostanza tre: il terrorismo di matrice jihadista, lo scontro ideologico, e le risorse energetiche.
1. Il terrorismo jihadista
La questione del terrorismo va trattata all’inizio, perché interessa trasversalmente tutti gli attori internazionali che verranno citati di seguito. Come è noto, anche in Libia il terrorismo di matrice jihadista portato avanti dall’ISIS ha recentemente mostrato il suo volto violento e irrazionale. Le bandiere nere sono state issate prima a Derna e poi a Sirte e subito dove sono arrivate le prime esecuzioni di cristiani, in questo caso egiziani copti. In realtà sappiamo che la natura dell’ISIS in Libia è diversa rispetto a quella più potente e radicata della Siria e dell’Iraq: la stragrande maggioranza dei militanti libici appartiene a gruppi estremisti già presenti nel territorio come Ansar al-Sharia o AQIM, trasformatisi in Stato Islamico per guadagnare maggiore credibilità e per inglobare un numero maggiore di adepti[5].
Circolano anche voci secondo le quali molti degli “incappucciati neri” sarebbero ex soldati del regime di Gheddafi travestiti, che in questo modo possono facilmente portare avanti le loro vendette personali contro i miliziani che hanno contribuito alla fine del regime o semplicemente contro le tribù nemiche [6].
Al di là delle specificità dell’ISIS libico, quel che è certo è che rappresenta una minaccia reale non solo per la Libia ma per tutti i paesi confinanti, in primis l’Egitto. E’ a causa dello Stato Islamico che l’Egitto ha deciso di intervenire militarmente in Libia, rendendo finalmente ufficiale un coinvolgimento che in realtà era iniziato mesi prima[7]. La brutale uccisione di 21 cittadini egiziani non poteva essere tollerata da Al-Sisi, inoltre la presenza jihadista in Libia aprirebbe un ulteriore fronte utile per l’ingresso dei terroristi nel paese dopo quello della regione del Sinai a est, già fortemente instabile e pericoloso.
L’Egitto dunque è il paese maggiormente minacciato dall’espandersi dell’ISIS nella regione, ma non è l’unico. Con l’avvento delle “bandiere nere” la già incontrollabile situazione rischia di deflagrare, aumentando le possibilità di rafforzare i legami tra lo Stato Islamico e le fazioni jihadiste presenti in Tunisia ed Algeria. È noto infatti che AQIM (al-Qaeda in the Islamic Maghreb), la più potente organizzazione terroristica del nord Africa, ha base in Algeria, e uno sconfinamento dello Stato Islamico nel paese potrebbe cementare definitivamente la sua presenza nel Sahel.
La Tunisia invece è uno dei paesi che ha fornito il maggior numero di combattenti dell’ISIS in Siria[8] (come la Libia) e che dunque sarebbe in grave pericolo se questo si stabilizzasse nei territori confinanti. Inoltre se la Libia continuasse a rimanere senza un controllo della gestione dei flussi migratori potrebbe verificarsi un esodo massiccio di migranti verso la Tunisia, che cercherebbero da quelle coste occasioni migliori per intraprendere la mortale traversata del Mediterraneo[9].
Infine, è sempre il pericolo dell’ISIS che sta spingendo l’Italia ad impegnarsi in prima linea per una soluzione diplomatica o a limite anche militare del conflitto. Le continue minacce di attacco, ma soprattutto il pericolo che la gestione dei flussi migratori diretti in Sicilia sia gestito dai jihadisti, rappresentano un rischio che il governo Renzi non accetta di correre. Sia perché questi traffici rappresenterebbero una cospicua fonte di guadagno per lo Stato Islamico, sia perché si produrrebbe un flusso migratorio incontrollato e ingestibile ancor più di quanto non lo sia stato finora.
Tuttavia a parere di chi scrive l’attivismo italiano di queste ultime settimane ha poco a che vedere con la minaccia dell’ISIS, considerata solo potenziale sia dalla NATO che dai nostri stessi servizi segreti, ma piuttosto con altre motivazioni che verranno esposte a breve.
2. Lo scontro ideologico
Dal punto di vista ideologico, lo scontro si fonda sulle due principali parti in causa. Il Governo di Tobruk democraticamente eletto. È attualmente impegnato in un’operazione militare (Dignità) contro la fazione di Alba Libica portata avanti dal generale Khalifa Haftar, un ufficiale che non nasconde le mire autocratiche e la vicinanza contro il presidente egiziano Al-Sisi.
L’altra fazione è appunto la coalizione Alba Libica, con sede a Tripoli e dalla natura fortemente eterogenea: include i Fratelli Musulmani (acerrimi nemici di Haftar e Al-Sisi), milizie locali (tra cui quella più potente di Misurata), islamisti più radicali e tribù dell’ovest[10].
Da sottolineare che la presenza dell’ISIS come parte attiva nel conflitto non cambia radicalmente la realtà sul campo: da testimonianze dirette si evince che lo Stato Islamico non riscuote le simpatie di nessuna delle due parti, e in più sembra non provocare quello “spirito di fratellanza” che può crearsi quando si è di fronte ad un nemico comune. Semplicemente si tratta di combattere una fazione in più, a volte contemporaneamente[11].
Tornando ai due “governi”, siamo di fronte a due schieramenti che rappresentano da un lato una politica di potenza volta a stabilire una supremazia della classe militare e di molti ex esponenti del regime di Gheddafi (il governo di Tobruk e l’operazione militare Dignità) e dall’altro la volontà di ristabilire un islam politico e tradizionale basato soprattutto sugli ideali della Fratellanza Musulmana (Alba libica).
Si mette dunque in scena un “cleavage” politico e ideologico che necessariamente va oltre i confini libici, essendo una contrapposizione significativa in tutta la regione del grande Medio Oriente. È chiaro dunque che nel quadro dello scontro ideologico sono invischiati perlopiù quei paesi che da sempre agiscono come potenze regionali: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Qatar [12]. I primi due sono apertamente a favore di una soluzione militare del conflitto: da un lato sponsorizzano l’eventuale intervento internazionale guidato dall’ONU e dall’altro sono gli unici due paesi ad aver attaccato direttamente la Libia attraverso bombardamenti aerei. Oltre agli attacchi degli ultimi mesi, bisogna ricordare ad esempio che il paese del Golfo è stato l’unico tra i paesi arabi a prendere parte ai bombardamenti della coalizione internazionale contro Gheddafi nel 2011. Per quanto riguarda l’Egitto poi si paventa persino il rischio di un intervento di terra tra pochi giorni.
Entrambi cercano in tutti i modi di impedire la diffusione dell’ideologia dei Fratelli Musulmani, nati in Egitto e considerati dei criminali fin dall’indipendenza del paese. La Fratellanza Musulmana rappresenta infatti un pericolo mortale per la sopravvivenza del regime militare egiziano, come si è visto con l’avvento al potere di Mohammed Morsi all’indomani della rivoluzione del 2011. E anche per Abu Dhabi i Fratelli rappresentano una forza tradizionalista che considerano al pari dei jihadisti dell’ISIS.
Proprio l’ISIS è un’ulteriore causa del coinvolgimento degli Emirati in Libia: come accennato, i combattenti libici dello Stato Islamico sono stati tra i più attivi in Iraq e Siria, e il paese ha tutto l’interesse ad indebolire quella fazione direttamente nel loro territorio[13].
Passando invece alla Turchia e al Qatar, questi rappresentano l’esatto opposto dei primi due. Entrambi appoggiano l’espansione di un modello di Islam tradizionalista e “politico” presente sia in Qatar sia, sempre più visibilmente, in Turchia[14].
La sfida si gioca su due fronti: la Turchia vuole impedire all’Egitto di acquisire ulteriore influenza, così da consacrarsi potenza unica del Mediterraneo meridionale mentre il Qatar, oltre alla questione ideologica, si pone come potenza petrolifera e mediatica diametralmente opposta agli Emirati Arabi (già dai tempi della guerra libica del 2011 le due televisioni di stato, Al Jazeera e Al Arabiya, si sfidavano a colpi di scoop più o meno costruiti per sottrarsi credibilità a vicenda).
Le implicazioni pratiche di questo tipo di scontro non sono difficili da notare: come già detto l’Egitto è un fedele alleato del governo di Tobruk e soprattutto del generale Haftar, a cui garantisce sostegno nei bombardamenti nell’ovest (insieme agli Emirati) e una buona dose di armi. Dall’altro lato sempre il governo di Tobruk ha recentemente dichiarato che sospenderà tutti i contratti attivi con le aziende turche, il che pone direttamente Ankara di fronte alle sue responsabilità[15].
3. Le risorse energetiche
L’ultima questione è quella energetica. Che vede coinvolta per prima l’Italia, e in misura minore sempre l’Egitto. Quest’ultimo vorrebbe approfittare del “buco di potere” libico per guadagnare un’influenza significativa nella parte orientale del paese, così da accaparrarsi direttamente o con contratti estremamente favorevoli le risorse petrolifere e di gas. Oltre al valore economico e strategico, questa mossa avrebbe un grande valore simbolico: finalmente l’Egitto avrebbe libero accesso all’unica cosa che da sempre lo rende più debole rispetto alle altre potenze della regione[16].
Per l’Italia invece il coinvolgimento su questo livello è più complesso. L’Italia è presente con l’ENI fin dalla scoperta dei primi giacimenti di gas e petrolio alla fine degli anni cinquanta, e da quel momento in poi la Libia è diventato il maggiore partner strategico nel mediterraneo. Sembra superfluo in questa sede dilungarsi sulle dinamiche storiche dei rapporti Italia-Libia, è importante però evidenziare che con l’inasprirsi del conflitto libico i due asset principali dell’Italia sono in pericolo: la gestione dei flussi migratori e la sicurezza degli impianti energetici.
Del primo punto abbiamo già accennato qualcosa in precedenza, ma è chiaro che in assenza di un valido interlocutore internazionale è impossibile guardare ad una soluzione. L’aspetto energetico invece è più pressante, e necessita di un intervento immediato ed efficace. La gestione degli impianti di estrazione, trasformazione, stoccaggio e trasporto obbliga l’Italia ad essere presente in quasi tutto il territorio libico, dalle regioni desertiche del sud fino alle coste e alle acque territoriali (dove sono presenti alcune piattaforme offshore), per cui l’instabilità diffusa rischia di vanificare tutti gli sforzi fatti in mezzo secolo per garantire al paese un adeguato e stabile approvvigionamento energetico.
Con l’avvento dell’ISIS la situazione sembra essere precipitata ulteriormente: questa presenza sembra essere stata una buona scusa per Haftar per intensificare i bombardamenti nella zona occidentale del paese, dove sono presenti le maggiori raffinerie, mentre gli stessi jihadisti hanno cercato recentemente di danneggiare (a volte riuscendoci) alcuni siti di stoccaggio[17]. In questo modo zone come Mellitah sulla costa, Ras Lanuf a nord e altri rischiano di essere distrutti o seriamente danneggiati, e questo sembra aver fatto cambiare qualcosa nella strategia italiana, finora limitata ad incoraggiare una presa di posizione delle Nazioni Unite. Qualche giorno fa la nave San Giorno è sbarcata a La Spezia, per poi dirigersi alla volta delle acque libiche, ufficialmente per alcune esercitazioni[18].
In realtà sono in molti a credere che quelle navi sono lì per essere pronte per un eventuale operazione militare o, più probabilmente, per operazioni “sotto copertura” al fine di mettere in sicurezza i porti da dove partono le petroliere, le piattaforme offshore a ridosso della costa e soprattutto per difendere l’integrità della parte libica del gasdotto Greenstream, di fondamentale importanza strategica[19].
L’incognita russa
Molto interessante poi la presenza documentata di navi russe spostate nel Mediterraneo occidentale di certo non è casuale e rivela i movimenti bilaterali che Italia ed Egitto pongono in atto con l’ennesimo attore esterno del conflitto libico. Da un lato la Russia ha firmato l’anno scorso un accordo di fornitura di armi in favore dell’Egitto, per cui Putin ha tutto l’interesse a favorire sia la revoca dell’embargo delle armi delle Nazioni Unite (dove farà valere il suo peso nel Consiglio di Sicurezza insieme alla Cina) sia la creazione di un blocco navale che permetta di impedire la forniture di armi al governo di Tripoli e ai jihadisti[20].
Dall’altro lato l’incontro tra Renzi e Putin il 5 marzo ha rappresentato l’occasione per strappare al leader russo un voto favorevole o quantomeno non contrario al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il via libera ad un intervento militare internazionale, che appare ormai una priorità per l’Italia [21]. In questo senso dunque, Renzi ha fornito ulteriori elementi di autorevolezza alla Russia come attore fondamentale anche nella regione del Mediterraneo e del Medio Oriente. Autorevolezza dimostrata già due anni fa nella questione siriana.
Fallimento del multipolarismo in Libia
In conclusione, le dinamiche del conflitto libico dimostrano una decisa supremazia dello stato-nazione come attore più importante nelle relazioni internazionali rispetto alle organizzazioni multipolari come ONU o Unione Europea. Gli sforzi di Bernardino Leòn non sembrano riscuotere alcun effetto nonostante l’appoggio ufficiale dei paesi occidentali, per cui l’Onu rimane bloccato tra tentativi falliti di mediazione e sicure prospettive di stallo in seno al Consiglio di Sicurezza (quelle che Renzi ha cercato di cambiare in Russia).
L’Unione Europea si conferma un attore marginale a livello internazionale dopo i negoziati di Minsk. Nonostante gli sforzi iniziali da parte dell’UE in Libia, l’unico risultato concreto è stato il programma di supporto per il monitoraggio delle frontiere marittime EUBAM, i cui fondi sono ben presto finiti nelle mani delle numerose milizie ed utilizzati per tutto tranne che per sorvegliare le frontiere[22].
La NATO, con gli Stati Uniti, non ha interesse a immischiarsi in un pantano che continua a non ritenere suo per il momento (considerato che ISIS è ritenuto una minaccia solo potenziale come già accennato).
La realtà libica somiglia sempre di più ad una “proxy war”, in cui gli interessi di vari paesi confluiscono in un conflitto che ha radici interne. In questo quadro il realismo inteso come il paradigma dei rapporti internazionali basato sulla difesa di interessi nazionali ritorna prepotentemente alla ribalta. Le organizzazioni internazionali stanno perdendo la loro funzione e ogni stato prende l’iniziativa cercando accordi con altri. In questo modo però si rischia di alimentare la fiamma dello scontro, incoraggiando le fazioni interne a continuare il conflitto armato e rendendo inutile ogni sforzo di garantire una soluzione diplomatica. C’è anzi il rischio che si vada nella direzione esattamente opposta: che diventi una guerra tra Occidente e mondo arabo.
Se i paesi occidentali e l’Unione Europea continueranno ad appoggiare il Governo di Tobruk indiscriminatamente si potrebbe alimentare quel falso scenario che la rappresenta come baluardo filo occidentale e laico, e Tripoli come il peggior rappresentante dell’estremismo islamico o comunque come il nemico da battere e rendere minoritario in un futuro stato libico unitario [23]. È sempre più evidente che adesso la responsabilità delle sorti del conflitto è in mano agli stati, e spetta a loro adottare politiche totalmente diverse. Se tutti gli attori citati negassero qualsiasi tipo di appoggio militare le fazioni interne sarebbero costrette in breve tempo al dialogo. Ancor di più se tutti gli attori internazionali ponessero come condizione necessaria al proseguimento degli aiuti economici e della collaborazione politica il raggiungimento di una soluzione diplomatica al conflitto. D’altronde Tunisia ed Algeria sostengono fermamente l’ipotesi diplomatica, insieme a Turchia e Qatar[24]. Ma attualmente non sembra essere questa la strada, profilando la peggiore delle ipotesi: una guerra prolungata, una tragedia umanitaria, uno sfruttamento incontrollato dei flussi migratori verso Italia e lo spauracchio di alleanze internazionali che ricordano la guerra fredda. Molti temono che in questo modo si possa arrivare in breve tempo ad una “somalizzazione” del conflitto. Ma in questo caso lo scenario sarà molto peggiore della Somalia perché da un punto di vista geopolitco la Libia è e sarà sempre molto più centrale nello scacchiere globale.
Analisi a cura di Silvio Majorino.
Silvio Majorino è analista specializzato in Libia e geopolitica del Mediterraneo. Laureato prima a Palermo e poi all’università LUISS di Roma si focalizza nello studio della Libia analizzando prima la gestione dei flussi migratori e poi la rivoluzione che ha causato la fine del regime di Gheddafi. Dopo un master in Comunicazione e Media per le relazioni internazionali ottenuto all’istituto SIOI di Roma ha lavorato presso vari uffici stampa di enti pubblici e privati e nella redazione del Corriere della Sera. In tema di Libia e di migrazioni collabora con l’Università di Firenze e con numerosi think tank, centri di ricerca e riviste tra cui sbilanciamoci.info, Mediterranean Affairs e Limes.
Fonti:
[1] Un envoy sees peace accord possible in Libya, voanews.com, 06/03/2013, http://www.voanews.com/content/envoy-sees-peace-accord-possible-libya/2669779.html?
[2] Warplanes hit Tripoli airport before UN talks start, Reuters, 05/03/2015, http://www.trust.org/item/20150305101340-q1s3a/?
[3] Libya asks UN to lift arms embargo to confront ISIL, AlJazeera, 19/02/2015, http://www.aljazeera.com/news/middleeast/2015/02/libya-150218203749127.html
[4] N. SARTORI, L’avanzata del Califfo e il futuro energetico libico, 17/02/2015, http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2968
[5] J. PEARSON, Egyptian beheadings underscore rise of ISIL in Libya, The National, 17/02/2015, http://www.thenational.ae/world/middle-east/egyptian-beheadings-underscore-rise-of-isil-in-libya
[6] N. PORSIA, Libia, viaggio nell’area di Sirte dove Isis c’è ma non si vede (reportage), Skytg24, 28/02/2015
[7] P. KINGLSLEY, C. STEPHEN, D. ROBERTS, UAE and Egypt behind bombing raids against Libyan militias, says US officials, The Guardian, 26/08/2014, http://www.theguardian.com/world/2014/aug/26/united-arab-emirates-bombing-raids-libyan-militias
[8] Isis: “15mila combattenti stranieri in Siria”. Wp: “Ne entrano 1000 ogni mese”, ilfattoquotidiano.it, 31/10/2014, http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/31/isis-15mila-combattenti-stranieri-in-siria-wp-ne-entrano-1-000-ogni-mese/1182992/
[9] P. SEEBERG, If not a military solution in Libya, then what?, Center for Mellemøststudier, October 2014
[10] Per un’analisi approfondita sugli attori interni cfr. D. PESCINI, Libia, gli attori interni del conflitto: nazionalisti,
islamisti, salafiti-jihadisti
[11] N. PORSIA, ibidem
[12] A. MERINGOLO, ibidem
[13] I. BLACK, UAE’s boldness in Libya reveals new strains between west and its Arab allies, The Guardian, 26/08/2014, http://www.theguardian.com/world/2014/aug/26/uae-boldness-libya-strains-with-west-arab-allies
[14] A. FOTI, Che succede tra Libia, Turchia e Stato Islamico, formiche.net, 24/02/2015, http://www.formiche.net/2015/02/24/turchia-libia-siria/
[15] ibidem
[16] L. CARACCIOLO, dichiarazioni rilasciate nell’ambito del suo intervento al convegno “L’immigrazione che verrà”
svoltosi a Catania il 20 e 21 febbraio 2015-03-03
[17]B. CIOLLI, Libia, la minaccia dell’Isis sugli affari petroliferi dell’Eni, Lettera43, 24/02/2015, http://www.lettera43.it/economia/macro/libia-la-minaccia-dell-isis-sugli-affari-petroliferi-di-eni_43675159844.htm
[18] L’Italia invia navi militari a largo di Misurata in Libia, informatorenavale.it, 28/02/2015, http://www.lettera43.it/economia/macro/libia-la-minaccia-dell-isis-sugli-affari-petroliferi-di-eni_43675159844.htm
[19] L. CARACCIOLO, ibidem
[20] F. DE PALO, Tutti i dettagli dell’asse tra Egitto e Russia in Libia, 19/02/2015, http://www.formiche.net/2015/02/19/egitto-russia-libia-usa/
[21] Renzi sees Russia playing key role in Libya, Ansa, 05/03/2015, http://www.ansa.it/english/news/politics/2015/03/05/renzi-sees-russia-playing-role-in-libya_d5850e8a-ff62-468e-abc7-0ba74d9e375b.html?
[22] Intervento di A. AL GOMATI (Sadeq Institute) in occasione della conferenza “Le frontiere mobili del mediterraneo” svoltasi a Palermo il 3 novembre 2014
[23] J. PACK, How to end Libya’s war, NY Times, 21/01/2015, http://www.nytimes.com/2015/01/22/opinion/how-to-end-libyas-war.html?_r=0
[24] A. MERINGOLO, ibidem
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