Una figura di assoluto rilievo, in un viaggio storico culturale nel Tibet della prima metà del XVIII secolo, è senza ombra di dubbio quella di Ippolito Desideri, figura tanto trascurata quanto preziosa. Ai fini del nostro lavoro, ripercorrere l’esperienza biografica e le considerazioni filosofiche e teologiche di questo missionario pistoiese del Settecento risulta di fondamentale interesse, in quanto Desideri fu probabilmente il primo esploratore culturale della regione tibetana di lingua italiana, almeno per quanto concerne i suoi successivi studi e la straordinaria opera divulgativa che compì di ritorno dai suoi viaggi in oriente. Alcune note biografiche fondamentali.
Ippolito Desideri nacque a Pistoia il 20 dicembre 1684 da Iacopo Desideri e Maria Maddalena Cappellini e fu battezzato il 21 dicembre. Il giovane Ippolito studiò nel Collegio dei Gesuiti di Pistoia e il 27 aprile 1700 entrò nella Compagnia di Gesù nella casa di Sant’Andrea al Quirinale a Roma, iniziando il noviziato il 9 maggio 1700. Emise la professione religiosa il 28 aprile 1702, dopodiché fu trasferito al Collegio Romano. Dal 1706 al 1710 insegnò nei Collegi della Compagnia di Orvieto e di Arezzo. Ritornato nel 1710 al Collegio Romano, cominciò gli studi di teologia, in cui dimostrò un indubbio talento.
Il desiderio di partire per le missioni maturato dalla frequentazione degli Esercizi di Ignazio e per la testimonianza dei gesuiti missionari dei quali si conosceva la storia (Francesco Saverio, Roberto De Nobili, Alessandro Valignano e Matteo Ricci, tra gli altri) si incontrò con la necessità da parte della Compagnia di riaprire una missione in Tibet dopo che i Cappuccini avevano lasciato quel territorio nel 1711. I Gesuiti avevano già fatto vari tentativi nel passato, a partire da quello di Antonio de Andrade (1580-1634), di stabilire una sede in Tibet, ma la Congregazione di Propaganda Fide aveva affidato nel 1703 quel territorio ai Cappuccini. Cosicché il 14 agosto 1712 Ippolito fece domanda al Generale della Compagnia Michelangelo Tamburini di partire per le missioni.
La sua domanda fu accolta il giorno dopo e, senza che completasse l’ultimo anno di studi, fu ordinato suddiacono il 21 agosto, diacono il 25 agosto ed infine sacerdote il 28 agosto. Dopo essere stato ricevuto da Papa Clemente XI, il 27 settembre partì insieme a padre Ildebrando Grassi da Roma. Dopo essersi fermati a Firenze e a Pistoia, i due proseguirono fino a Livorno dove si imbarcarono per Genova, arrivandovi il 31 ottobre. Da Genova salparono il 23 novembre arrivando a Lisbona a metà marzo 1713. Qui incontrarono i sovrani del Portogallo. Il lungo ed estenuante viaggio marittimo da Lisbona a Goa durò dall’8 aprile 1713 al 20 settembre 1713. Giunto in India dai suoi confratelli gesuiti, il 13 novembre il Provinciale Antonio de Azevedo gli comunicò la nuova partenza per il Tibet. Desideri partì da Goa tre giorni dopo e attraverso diverse tappe giunse l’11 maggio 1714 a Delhi, capitale dell’Impero Moghul. Durante questo viaggio e grazie alla padronanza della lingua portoghese che aveva acquisito nel viaggio dall’Europa a Goa, Desideri si dedicò alla cura spirituale dei marinai e di coloro che viaggiavano con lui, iniziò a imparare la lingua persiana che era la lingua franca dell’Oriente e studiò testi teologici scritti in persiano da Gerolamo Saverio.
Il 15 agosto 1714 ottenne finalmente l’invito ufficiale per la missione in Tibet. Gli si affiancò, come superiore della missione, Manoel Freyre. I due gesuiti si posero in viaggio il 24 settembre 1714; raggiunsero prima a Lahore, nel Punjab, il 9 ottobre; ripreso il cammino verso nord e attraversarono il fiume Ravi e il fiume Chenab, sostarono a Gujrat da dove, il 28 ottobre, presero la strada dei monti arrivando nella valle di Srinagar, la capitale del Kashmir posta a 1893 metri di altitudine. Qui svernarono e Desideri continuò l’intenso studio della lingua persiana. Il 17 maggio 1715 ripresero il viaggio e il 30 maggio iniziarono la salita per arrivare al passo di Zoji-la, a 3500 metri d’altitudine.
Superato il passo, lasciarono il Moghul ed entrarono in Ladakh, che era un regno semi-indipendente, per raggiungerne la capitale, Leh, il 25 giugno. Qui si fermarono cinquantadue giorni. Furono ben accolti dal re Nyima Namgyal; i due gesuiti si trovavano già in pieno ambiente tibetano, non solo per la tipica architettura, per la lingua o per i tratti fisici della popolazione, ma soprattutto per la cultura e per la religione, che iniziarono lentamente ad indagare. Desideri fu subito affascinato dalla sorprendente libertà accordata a tutte le fedi, dalle caratteristiche della religione localmente praticata e da alcune somiglianze che iniziò ad intravedere rispetto al cristianesimo.
Desideri ipotizzava di fermarsi a Leh per fondarvi la missione, ma il superiore Manoel Freyre aveva ordini perentori di raggiungere le missioni che erano state dei Cappuccini, e per questo motivo rifiutò la proposta di Desideri e proseguirono l’impervio viaggio. Partirono da Leh il 17 agosto 1715 e raggiunsero Tashingang il 7 settembre. Grazie al sostegno di una guarnigione militare che accompagnava una principessa mongola, riuscirono ad arrivare alla metà di febbraio 1716 a Sakya, capoluogo di un grande principato ereditario governato da un Lama dotato di larga autonomia rispetto al potere centrale. Il 29 febbraio ripartirono lasciando definitivamente la principessa mongola e la sua guarnigione.
Nel frattempo, Desideri aveva iniziato a studiare la lingua tibetana. Finalmente il 18 marzo 1716 i due gesuiti arrivarono a Lhasa, capitale del Tibet e meta finale del loro viaggio. Arrivato a Lhasa, Manoel Freyre, considerando a quel punto compiuta la sua missione di accompagnare e indirizzare Desideri, ripartì dopo appena un mese per fare ritorno verso l’India. Desideri, rimasto solo, fu immediatamente convocato e interrogato dal generale militare del regno circa le sue intenzioni. Il gesuita non nascose i suoi intenti missionari e il suo desiderio di restare in Tibet fino alla fine dei suoi giorni. Il 28 aprile fu ricevuto in udienza dal primo ministro e il 1° maggio dal re Lajang Khan il quale, ben impressionato, gli promise protezione, sostegno e libertà di azione rispetto alle questioni strettamente spirituali. Comprensibilmente, richiesto di illustrare la sua religione, e la differenza con la loro, Desideri non si sentì pronto di padroneggiare la lingua e propose di preparare un testo scritto. Si dedicò a quest’impegno con tutte le sue risorse intellettuali. Continuò a studiare la lingua e scrisse tra giugno e agosto due libri in italiano, iniziando poi la traduzione in tibetano del primo agli inizi di settembre.
Il 1° ottobre 1716, però, arrivarono a Lhasa tre cappuccini: Domenico da Fano (1674-1728), Francesco Orazio della Penna (1680-1745) e Giovanni Francesco da Fossombrone (1677-1724). Il gesuita pistoiese li introdusse a corte e li aiutò nello studio della lingua. Il rapporto, però, nonostante le prime apparenti formalità, fu difficile, quando non conflittuale. I Cappuccini non potevano permettere che nel territorio a loro affidato ci fosse un altro sacerdote, oltretutto molto diverso da loro per superiorità di cultura, capacità e metodo missionario.
Nonostante queste difficoltà, Desideri concluse la traduzione in tibetano del suo scritto che prese il titolo L’aurora indica il sorgere del sole che dissipa le ultime tenebre, che fu poi presentato al re il 6 gennaio 1717. La presentazione fu apprezzata dal re il quale, tuttavia, vista la grande differenza con le loro credenze, chiese ancora un confronto teologico pubblico tra il gesuita e i lama tibetani, lasciando però a Desideri tutto il tempo e i sostegni necessari per potere approfondire ulteriormente la lingua e la cultura locali. Desideri, quindi, insieme al cappuccino Orazio della Penna, iniziò il 25 marzo 1717 lo studio nel monastero di Ramoche, per passare nell’agosto successivo all’università monastica di Sera. Il gesuita approfondì i testi canonici del Buddhismo tibetano compresi nel Kanjur (Traduzione del messaggio del Buddha, cioè la raccolta degli insegnamenti diretti, in ben 108 volumi) e nel Tanjur (Traduzione della dottrina del Buddha, cioè i commentari indiani agli insegnamenti, in 224 volumi) e commentati dall’opera del riformatore Tsong Khapa (1357-1419), soprattutto dal Lam rim chen mo (Grande esposizione dei livelli del sentiero o Via graduale all’illuminazione). Come avrebbe in seguito commentato Enzo Gualtiero Bargiacchi, senz’altro il maggiore studioso della vita e dell’opera del missionario pistoiese, «Desideri osservò attentamente e descrisse mirabilmente la logica del buddhismo tibetano, la teoria e la pratica argomentativa, e la formazione degli allievi, ponendosi quindi con intensa e calorosa applicazione quotidiana, a divorare i libri canonici, confrontarne i passi principali, annotandoli, oltre a discutere frequentemente gli stessi argomenti con i monaci tibetani.
Esemplari molte sue trattazioni generali e specifiche, come ad esempio l’illustrazione della ruota della vita o l’inappuntabile analisi linguistica del famoso mantra oṁ maṇi padme hūṁ, che può segnare il memorabile inizio della tibetologia in occidente».(1) Proseguendo instancabilmente la sua opera, nel monastero di Sera Desideri iniziò, il 28 novembre, la stesura di un nuovo libro, L’origine delle cose (Byun k’uns). Il 3 dicembre 1717, però, il re dei mongoli zungari Tsewang Arabtan, alla guida di un piccolo esercito, sconfisse e uccise il re Lajang Khan (che era mongolo Qoshot), e saccheggiò Lhasa. I cinesi, che consideravano ormai da tempo un loro protettorato quei territori, il 24 settembre 1720 fecero ritorno a Lhasa e sbaragliarono agevolmente le truppe mongole.
Desideri, dopo l’invasione mongola, si rifugiò nella missione di Takpo-khier, un ospizio predisposto dai Cappuccini per la coltivazione dell’uva necessaria per il vino da messa. Qui Desideri proseguì i suoi studi: concluse nel 1718 la traduzione del suo L’origine delle cose ed iniziò la scrittura del libro Domanda intorno alla teoria del vuoto e delle vite passate, al quale lavorerà ancora fino a tutto il 1719. Compì inoltre numerosi viaggi nel Tibet sud-orientale, nel bacino dello Tsangpo e del Subansiri, visitò le regioni di Kongpo, Nang e Loro e si avvicinò all’attuale confine con l’India dove, nel versante meridionale himalayano, vivevano popolazioni aborigene chiamati Lopa dai tibetani. A Takpo-khier Desideri rimase fino all’aprile del 1721, tornando raramente a Lhasa. Risulta paradossale, ma certamente utile a fotografare i contenziosi in seno alle varie missioni cristiane, il fatto che i problemi maggiori Desideri non li incontrò nella situazione politica o nell’ostilità locale, ma dall’atteggiamento dei Cappuccini i quali mal sopportavano il suo stile missionario. Di questa congregazione solo Orazio della Penna si era dedicato allo studio della lingua, mentre gli altri non riuscivano a comprendere ed apprezzare la cultura tibetana.
Già il 12 dicembre 1718 la Congregazione Propaganda Fide, dietro le rimostranze dei Cappuccini, aveva invitato i Gesuiti a lasciare il Tibet. Desideri difese in ogni modo la sua missione, conquistata dopo le convinte insistenze presso il papato e costata mesi e mesi di spossante viaggio, e resistette fino al 10 gennaio 1721 quando i Cappuccini nell’ospizio di Takpo gli consegnarono una lettera del Generale che gli comandava di lasciare perentoriamente il Tibet. A metà aprile del 1721 Desideri rientrò a Lhasa e il 28 aprile partì definitivamente. Il 30 maggio era a Kuti, ultima località tibetana prima del Nepal. Qui si fermò parecchio tempo perché stanco ma anche per tentare un ultima possibilità di difendere la sua missione in Tibet con lettere, appelli e memoriali presso i suoi superiori. A Kuti, avendo ancora a disposizione importanti libri tibetani, riuscì ad aggiungere alcuni capitoli al suo Libro confutativo dell’error della metempsycosi. Rientrato a Roma, emblematicamente, Desideri trovò la Compagnia impegnata nella cosiddetta disputa sui riti e capì subito che sarebbe per lui stato difficile difendersi dalle gravi accuse che i Cappuccini gli avevano rivolto per essere andato, secondo loro, contro i princìpi cristiani ed aver agito autonomamente. I Cappuccini, invece, poterono rimanere a Lhasa, ma privi di risorse e di adeguati rinforzi, ritenendo che le loro difficoltà dipendessero dalla controversia non risolta con Desideri e dalle trame dei Gesuiti, e così chiesero insistentemente che la controversia fosse risolta. Padre Felice da Montecchio scrisse a questo scopo dodici memorie e tre sommari di documenti che furono consegnati a Propaganda Fide.
Desideri, dal canto suo, scrisse allora tre memorie che chiamò Difese. La situazione si complicò per il fatto che risultò evidente che il Generale Tamburini fosse a conoscenza dell’affidamento delle missioni del Tibet ai Cappuccini ed anche per la denuncia che Felice da Montecchio fece dell’intenzione del Desideri di pubblicare la sua Relazione senza che Propaganda ne fosse ancora a conoscenza. Desideri, a questo punto, rinunciò a difendersi, scrivendo che trovava inopportuno «che due Missionari, venuti dall’estremità del Mondo, debbano qui in Roma perdere il tempo in accusarsi, e in difendersi, in attaccarsi, e in ischermirsi».(2) Ma, date le complicazioni sopraggiunte, anche la Curia generalizia della Compagnia di Gesù volle chiudere la questione. Inoltre, il 29 novembre 1732 Propaganda Fide nella Congregazione particolare sulle questioni della Missione dei regni del Thibet confermò la decisione che le missioni del Tibet fossero affidate esclusivamente ai Cappuccini. Ippolito Desideri sarebbe morto di lì a poco, il 13 aprile 1733 nella Casa Professa di Roma e fu sepolto il 14 nella sepoltura dei Padri della Chiesa del Gesù.
L’opera letteraria del missionario pistoiese è assai ampia; tuttavia, ai fini del nostro lavoro, vanno ricordate almeno alcune sue pubblicazioni. Se per quasi due secoli Desideri è stato conosciuto solo per una lettera privata inviata al confratello Ildebrando Grassi, pubblicata nel 1722 in traduzione francese nelle Lettres édifiantes et curieuses, famosa raccolta di lettere scritte dai gesuiti dalle varie sedi di missione, raccolta continuamente ristampata e tradotta in varie lingue nel corso del XVIII e del XIX secolo. La scoperta e la diffusione delle opere di Ippolito Desideri si ebbe solamente a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Il gesuita toscano durante il suo viaggio aveva steso una lunga e particolareggiata relazione, che senz’altro al suo ritorno a Roma era già completa. Una seconda versione, in tre libri, fu completata il 21 giugno 1728, dopodiché intraprese una notevole revisione che comportò la divisione ulteriore in due libri del precedente libro secondo. Questo lavoro di revisione si interruppe dopo i primi tre capitoli del nuovo terzo libro e dopo aver riportato in bella copia i primi due volumi.
I manoscritti rimasti, quindi, sono quattro, intitolati in diversi modi: Ragguaglio, Relazione de’ viaggi all’Indie e al Thibet, Notizie istoriche del Thibet e Memorie de’ viaggi e Missione ivi fatta. Desideri interruppe il riordino di questo suo imponente lavoro quando iniziò a scrivere le Difese contro i Cappuccini e soprattutto quando capì che non gli sarebbe stata riconosciuta la possibilità di pubblicare i suoi volumi. Consapevole, tuttavia, dell’importanza di questo suo lavoro, Desideri fece pervenire una copia a suo fratello Giuseppe. Il manoscritto fu scoperto da Gherardo Nerucci (1828-1906) tra le carte del pistoiese Filippo Rossi Cassigoli (1835-1890) e descritto da Carlo Puini (1839–1924) in un articolo uscito nel 1876 sul Bollettino italiano degli studi orientali. Lo stesso Puini pubblicò vari brani del manoscritto nel 1904, mentre una traduzione quasi integrale in inglese fu pubblicata da Filippo De Filippi (1869-1938) nel 1932.
Tra il 1954 e il 1956 uscì, finalmente, la versione integrale nell’originale italiano. Sempre riprendendo le considerazioni bibliografiche fatte dal Bargiacchi, «Desideri ha lasciato una descrizione vivida del viaggio, arricchita da notazioni naturalistiche sorprendentemente accurate e spesso notevolmente anticipatorie, come nel caso della spiegazione degli effetti dell’altitudine e del processo di combustione.
La bellezza straordinaria della sua prosa costituisce un esempio alto di espressione artistica, con il quale l’autore, attraverso una semplice descrizione minuziosa e che potrebbe diventare pedante e noiosa, riesce a trasmettere tutto il suo sentire, tutto il pulsare della sua vita». (3) Va poi ricordata un’altra opera, in cui già emergono svariate considerazioni a sfondo filosofico-teologico. Infatti, dalle valutazioni finali della sua Relazione, Desideri estrasse un piccolo documento manualistico, che sarebbe poi stato pubblicato per la prima volta da Angelo Gubernatis (1840-1913) con il titolo Istruzione ai padri missionari nel Tibet e successivamente, nel 1928, da Luigi Foscolo Benedetto e nuovamente nel 1956 da Luciano Petech che lo intitolò Manuale missionario. (4) Ma probabilmente l’opera di maggiore importanza, data la varietà degli argomenti e la completezza della trattazione, sarebbe stata quella comunemente detta delle Opere tibetane. Desideri scrisse durante il periodo di permanenza in Tibet alcune opere con le quali tentò un originale ed inedito dialogo con la religione e la cultura buddhiste dei tibetani. Queste opere, ripartite in cinque volumi, hanno i seguenti titoli: T’o-raṅs (L’aurora indica il sorgere del sole che dissipa le ultime tenebre); Sñiṅ-po (Essenza della dottrina cristiana); Byuṅ k’uṅs (L’origine degli esseri viventi e di tutte le cose); Ṅes legs (Il sommo bene e fine ultimo); Skye ba sṅa ma (La trasmigrazione delle anime). Le prime quattro di queste opere, tradotte dal saveriano Giuseppe Toscano (1911-2003), sono state pubblicate tra il 1981 e il 1989. (5)
Riepilogati sommariamente i passaggi biografici e bibliografici essenziali di questa figura, veniamo ora ad esporre alcuni elementi di carattere teologico-filosofico che caratterizzarono l’opera del Desideri, profondamente impegnato nel compito di raffronto-confutazione delle dottrine religiose che scoprì nel Tibet da lui vistato. Abbiamo già detto che non è inappropriato affermare che con Desideri nacquero i primi pionieristici studi tibetani in lingua italiana. Probabilmente, sarebbe stato solamente con l’inizio del Novecento che altri studiosi italiani – sia laici che cattolici – si sarebbero cimentati nello studio del Buddhismo, con circa due secoli di ritardo rispetto al teologo pistoiese. Va peraltro dato atto al Desideri che le sue conoscenze, le sue considerazioni e il suo tentativo di confutazione fu intrapreso senza l’aiuto di alcuna opera precedente, fidando solamente nel suo ingegno e nell’assiduo studio dei numerosi volumi tibetani del Kangyur e del Tangyur in sua disponibilità.
Riuscì tuttavia ad assimilare i segreti del Mahâyâna, che egli poté avvicinare tramite la lettura delle opere, tradotte in tibetano, di Nâgârjuna, di Candrakîrti, di Âryadeva e di Ašvaghosa, coadiuvando, in alcuni casi, l’impervia opera di traduzione condotta dai saggi di Lhasa. Sulla sua opera Giuseppe Tucci, il più conosciuto tibetologo italiano della modernità, ebbe a dire: «Non faccia meraviglia se aggiungo che l’opera di Desideri fu in anticipo sui tempi: i segreti della speculazione del Buddhismo del Grande Veicolo, che cominciarono ad essere rivelati dall’erudizione orientalista degli ultimi anni del secolo scorso, sono già chiari nelle scolastiche architetture logiche della sua Relazione».(6)
Va tuttavia ricordato, qualora ce ne fosse bisogno, che lo scopo di questo missionario non fu quello del semplice narratore distaccato, ovvero di antropologo culturale affaccendato in una mastodontica opera descrittiva ed espositiva; il Desideri rimaneva pur sempre un teologo cattolico, un missionario evangelizzatore, e nella sua Relazione le tesi fondamentali del Buddhismo tibetano venivano elencate per essere confutate, secondo uno schema certamente di confronto religioso ma pur sempre nell’intento di dirimere alcuni concetti che ai suoi occhi rimanevano aporie teologiche.
Saranno, in quest’ottica, almeno tre i nodi filosofici irrisolti, gli elementi di incompatibilità generali tra Cattolicesimo e Buddhismo, secondo il Desideri. Anzitutto la questione della causa prima, del motore immobile, del principio primo di generazione di tutti i fenomeni materiali ed immateriali. Su questo tema dirimente, il desideri ricorre di fatto ad un argomento aristotelico: «Voi dite – egli fa osservare ai filosofi buddhisti – che la realtà è solo un succedersi di fenomeni transuenti, senza sostanza, con esistenza apparente e non reale, dipendenti l’uno dall’altro, venuti a noi dall’infinito, ossia dall’eternità, indipendentemente da una Causa Prima. Ma io vi dico che ciò è assurdo perché se questi fenomeni vengono dall’eternità, dall’infinito, non possono essere giunti fino a noi; infatti, se la strada che da Lhasa conduce in India fosse infinita, chi partisse da Lhasa non potrebbe mai giungere in India. È dunque necessario che la serie delle cose abbia avuto un inizio e cioè è necessaria una Causa Prima, che noi chiamiamo Dio». (7) In effetti, già questo primo argomento, intuito e palesato dal Desideri, rimanda ad una delle caratteristiche fondamentali del Buddhismo stesso, tibetano e non. Non a caso moltissimi studiosi hanno parlato del Buddhismo quale religione atea.
Da quanto emerge dall’interpretazione del Desideri, per il buddhismo non esiste nessuna entità collocata al di fuori dell’universo; l’assoluto è consustanziale al relativo e l’infinito non è separato dal finito (un po’ come la superficie presuppone la profondità e questa comporta quella): sono aspetti di un’unica realtà trascendente gli aspetti conoscitivi (che sempre implicano separazione) e raggiungibile con l’illuminazione, quando la luce naturale non è più offuscata da nessuna ombra egoica (in termini cristiani potremmo vedere nell’illuminazione o risveglio, il ricongiungimento dell’anima a Dio, quando la volontà personale si è evoluta fino a divenire una con la volontà divina). Desideri si spinge comunque ad affermare che, al di là dell’apparente paradosso, i tibetani non possono essere considerati propriamente atei, poiché nonostante teoricamente «escludano ogni divinità, in pratica […] l’ammettono e la riconoscono». (8)
Ciò perché trova congruenti con la visione cristiana le perfezioni idealizzate e rappresentate dalle divinità tibetane, nonostante che queste, ad un esame più profondo, si rivelino indicative soltanto di livelli esistenziali più elevati da raggiungere nel percorso spirituale. Ciononostante, rimangono ampiamente irrisolte alcune questioni, peraltro di non secondaria importanza. Anzitutto il Desideri equipara il Buddhismo tibetano al Buddhismo in senso lato, senza ulteriori approfondimenti e discernimenti. Tuttavia, pur criticamente, individua uno degli elementi fondativi del credo buddhista. A differenza delle altre correnti religiose dell’epoca, il Buddha ritiene che le divinità non possano offrire all’uomo la salvezza dal Saṃsāra, né un significato ultimo della propria esistenza. Va precisato, peraltro, che non esiste, né è mai esistita alcuna scuola buddhista al mondo che affermi, o abbia affermato, l’inesistenza delle divinità. Tuttavia la totale mancanza di centralità delle divinità nelle pratiche religiose e nelle dottrine buddhiste di tutte le epoche ha fatto considerare, da parte di alcuni studiosi contemporanei, il Buddhismo come una religione atea.
Un secondo elemento di confronto critico tra Desideri e il mondo buddhista del Tibet è quello vertente sul concetto di vacuità. Il concetto buddhista di vacuità (šûnyatâ), traducibile anche con il termine-concetto di impermanenza, interdipendenza o relatività, è cosustanziale tanto all’architettura filosofica buddhista quanto alla critica argomentativa del Desideri. Secondo la filosofia buddhista, infatti, le cose sono vuote, nel senso che non hanno in sé la loro ragione ontologica di essere secondo uno schema superiore, sono cioè dipendenti, finite e relative. La vacuità dei fenomeni è quindi sinonimo di insostanzialità universale perché è proprio della sostanza essere, mentre è proprio dei fenomeni solo apparire. Insostanzialità, precarietà ermeneutica universale, quindi, impone la mutua interdipendenza, ovvero una relatività generale dei fenomeni e della loro interpretazione umana.
Date queste premesse filosofiche, Desideri trovò immediato formulare un accostamento con la filosofia occidentale e con la teologia cattolica, pensando che anche qui – similmente – si hanno una universale incapacità delle cose di essere per se stesse, e la necessità del loro esistere secondo una causa prima, ovvero una spiegazione metafisica superiore. In particolare, così si espresse: «Avete ragione, avete ragione: tutto è vuoto, in quanto nulla ha in sé la ragione del proprio essere. Universale vacuità significa universale dipendenza. Anche noi diciamo la stessa cosa: non esiste cosa alcuna che non sia dipendente, in quanto tutto dipende dalla Causa Prima. In questo senso anche noi accettiamo la šûnyatâ, accettiamo la dipendenza di tutte le cose perché non esiste cosa che non sia stata creata da Dio, non esiste cosa che abbia in sé ragione del proprio essere. E allora, come noi dalla contingenza saliamo a Dio, così anche voi, buddhisti, avendo in comune con noi le stesse premesse e cioè la contingenza da voi chiamata šûnyatâ, dovete arrivare alle stesse conclusioni, cioè dalla šûnyatâ arrivare a Dio: dovete con la mente pura, cioè libera da preconcetti, rivedere le vostre posizioni e risalire, come già aveva fatto la filosofia greca, dall’impermanente al Permanente, dal contingente al Necessario, dal relativo all’Assoluto». (9)
Va riconosciuto al Desideri di avere colto indiscutibilmente il corpo essenziale del Buddhismo; quello che risulta ampiamente contraddittorio, è il fatto che la sua visione tende a ricalcare la teologia cattolica in un orizzonte culturale completamente differente – quando non opposto – finendo per proiettare gli scopi della teologia occidentale in un universo filosofico dissimile. In breve, egli immagina che l’intendo del Buddhismo sia quello di trovare una spiegazione ultima e superiore (quindi necessariamente metafisica), quando in realtà il Buddhismo (tibetano e non) non ha minimamente l’intento di spiegare, di appellarsi ad un archè assoluto.
In questo senso la saggezza del Buddhismo è più agnostica che ateistica, nella misura in cui pone la sua indagine nell’universo dei fenomeni naturali, nella vita e nella sofferenza, nel fluire caotico del mondo, proponendone semmai una accettazione e una strategia psicologica e psicoterapeutica efficace, ma mai certamente la velleità di una spiegazione metafisica. Se la vacuità, per Desideri, necessita, impone ed induce a scorgere un percorso di elevazione verso il divino, per il Buddhismo la vacuità risulta semplicemente un dato di fatto, dotato di un equilibrio filosofico autosufficiente. Come ha riconosciuto Wessel, «Essendo questo un argomento di speciale interesse per il Desideri, ne tratta in lungo e in largo e ha così dato al mondo ciò che è probabilmente la più completa rassegna di tutto il sistema lamaico, composta da un Europeo che è vissuto sul posto». (10)
Tuttavia, alcuni aspetti sono rimasti irrisolti nella sua indagine, basti pensare al fatto che egli non dà alla religione tibetana un nome specifico, senza addentrarsi mai nelle differenze tra lamaismo, senza approfondire la specificità della setta dei Geluk-pa, senza nemmeno venire a conoscenza dell’esistenza di una religione precedente in quelle zone, il Bon, ed anzi arriva ad affermare, sulla base delle fonti a lui disponibili, che prima del lamaismo in Tibet non c’era alcuna religione e che i tibetani erano barbari, uomini senza leggi. A giustificazione di tale impostazione, va ad onore del vero ricordato che Desideri non aveva mai sentito parlare del Buddhismo in nessuna sua forma. In India, laddove tale filosofia era nata, era ormai minoritaria. Probabilmente aveva letto le storie giapponesi del Bartoli, in cui si faceva riferimento agli Hotoke, me rimase ben lungi dall’identificarli con i Buddha e i Bodhisattva di cui era venuto a conoscenza nel Tibet. Come riconobbe lo stesso Augusto Luca, «non sapeva che il Buddhismo si era diviso in due grandi correnti, Hinayana o piccolo veicolo, diffuso nel Ceylon e nell’Asia meridionale, e Mahayana o grande veicolo, diffuso nel Tibet, nella Cina e nel Giappone. Non sapeva della corrente tantrica che era quella entrata nel Tibet. Non aveva nessuna fonte storica a cui attingere, salvo i libri tibetani e i contatti diretti con i buddhisti di quel Paese. Tuttavia, da questi libri e da questi racconti, riesce a cogliere i concetti fondamentali del Buddhismo mahayanico e tantrico, entrato e sviluppatosi in Tibet, e ne approfondisce la speculazione, specialmente quella del grande filosofo Nagarjuna. Non nomina la riforma di Tsongkhapa; ma distingue con molta chiarezza le due correnti del Buddhismo tibetano, l’una facente capo alla scuola di Padma Sambhava, con accentuazioni tantriche e con evidenti tracce dell’antica religione; l’altra facente capo a Lhasa e ai grandi monasteri della setta Geluk-pa».(11)
Così come non approfondisce una ulteriore questione, di centrale importanza. Se da un lato propone un ampio commentario degli usi, costumi, tradizioni, consuetudini rituali della popolazione locale, tralascia completamente la descrizione degli aspetti gerarchici, teocratici e delle condizione economiche e produttive della popolazione laica sottomessa ai Gran Lama. Questa lacuna è probabilmente attribuibile al fatto che per il Desideri, essendo un missionario ed un teologo, sono essenziali gli aspetti riguardanti le controversie speculative, rimanendo sempre massimamente impegnato in un’opera di confronto-confutazione tra il suo credo e quello locale. Come riconosce anche il missionario saveriano Augusto Luca, il Desideri «quando passa ad esaminare la dottrina, pur riconoscendo che per molti aspetti è errata, vi scorge notevoli somiglianze con gli insegnamenti della Chiesa, con i riti liturgici, con gli stessi ordinamenti gerarchici e soprattutto con i principi della morale cristiana e perfino con le regole dell’ascetica e della perfezione spirituale. È quindi portato a chiedersi se, in altri tempi, non ci sia stata davvero una fiorente cristianità e una gerarchia ecclesiastica nel Tibet».(12)
Così come tralascia di addentrarsi nel sistema gerarchico e nelle controversie in essere tra le molteplici scuole e sette in cui il lamaismo andava via via articolandosi. Su questo punto, il Desideri si limita a riportare le mitologie mahayaniche, secondo cui Amida (o Amitayus) è colui che porta luce e vita infinite. Fu a questa figura che viene fatta risalire la catena delle reincarnazioni. Egli fece il voto di non entrare nella felicità permanente senza avere prima salvato gli altri uomini e, diventato un Buddha, si trasferì nella Sukhavati, ovvero nella terra pura, dove il dolore materiale e spirituale non avevano più dimora. Questa figura si sarebbe reincarnata nel Gran Lama di Tashilumpo, a Shigatse, ovvero nel Pancen Lama, il venerabile Maestro. Questi era considerato spiritualmente quale figura spirituale massima del lamaismo, superiore anche al Dalai Lama di Lhasa, che rimaneva tuttavia di maggiore importanza per le questioni gerarchiche, amministrative e temporali della scuola.
Pur con le comprensibili lacune storiografiche di cui abbiamo accennato, al Desideri non può sfuggire l’intuizione di un altro aspetto filosofico fondativo del Buddhismo tibetano. È chiaro infatti che il Buddhismo tibetano (ma non solo), ha lo scopo di spogliare l’uomo dalla schiavitù del dolore, e questo implica la sua fuoriuscita dal ciclo delle rinascite. Abbiamo già parlato di questo aspetto in un precedente articolo a proposito di un testo fondamentale, il Libro tibetano dei morti, il Bardo Thodol. Sempre secondo il commento di Augusto luca, «Il modo per uscire dalla catena delle rinascite è duplice: uno religioso-morale, l’altro filosofico-speculativo. Il primo richiede lo sforzo ascetico per estinguere le passioni, origine di ogni male, per trionfare sul vizio e per praticare le virtù; richiede soprattutto il continuo ricorso ai Buddha e ai Bodhisattva che con la loro potenza misericordiosa possono salvare coloro che ad essi ricorrono con fiducia. Il secondo mira all’acquisizione della sapienza superiore che trascende la fenomenologia delle cose e conosce che nessuna cosa ha un’esistenza propria e cioè è vuota di essenza, di sostanza, ed è pura apparenza. Perciò il desiderio personale, l’io e il mio, che sono le radici e la causa delle rinascite, non hanno più motivo di esistere. Con questa conoscenza superiore, in definitiva, viene estinto ogni desiderio e si raggiunge il Nirvana. Non appare, nella disamina di Desideri, se la teoria del vuoto – Tong-bagnì, Šûnyatâ – porti alla beatitudine della Sukhavati, come la pratica della ascesi e il ricorso ai Buddha, oppure se porti alla semplice estinzione dell’io e delle rinascite in un Nirvana di segno negativo». (13)
Venendo alle conclusioni, pare opportuno riepilogare il doppio livello argomentativo della confutazione del Buddhismo tibetano operata dal Desideri. Anzitutto il tema della reincarnazione o metempsicosi, del tutto inammissibile per il missionario pistoiese. La trasmigrazione delle anime, il samsara di cui parla anche l’Induismo, è segnalato quale elemento di discrimine tra il Buddhismo e le altre religioni orientali. Questo concetto prevede la possibilità di uscire dalla catena delle nascite e, conseguentemente, dalla schiavitù del dolore, per traguardare uno stato di beatitudine senza fine. Se questa credenza è quella che distingue il Buddhismo tibetano dall’Induismo, la differenza tra la scuola Hinayana e quella Mahayana consiste nel fatto che la prima sostiene che solamente attraverso gli sforzi individuali e con l’ascesi si può uscire dalla spirale di dolore e delle rinascite, mentre quella Mahayana insegna che la via della salvezza può essere percorsa con l’aiuto fornito dai Buddha e dai Bodhisattva. Anche in questo senso il lamaismo si distacca dal Buddhismo delle origini, nella misura in cui enfatizza la figura sacrale e semi-divina di una gerarchia ecclesiastica di illuminati.
Ciononostante, rimanendo alle considerazioni del Desideri, si sa che alla morte di un Dalai Lama o di un Pancen Lama vengono condotte scrupolose ricerche per scoprire in quale bambino egli si sia reincarnato. Desideri riconosce che tale processo sia autentico, persuaso dalla numerose testimonianze fornitegli dai vari saggi tibetani. Naturalmente, non potendo minimamente ammettere il processo di reincarnazione, non può che attribuire ad un elemento di disturbo esterno tale misterioso avvenimento, arrivando ad affermare lapidariamente: «con la permissione di Dio, ma non può che essere opera del demonio!». (14)
Il secondo argomento confutativo del missionario toscano riguarda l’essenza stessa della filosofia del Buddhismo, ed in particolare quello che per Desideri è un vero e proprio scivolamento intellettuale di questa religione verso le soglie dell’ateismo. Per Desideri, risulta essere un elemento sconvolgente ed inconcepibile il fatto che al centro di quel sistema vi è una concezione che implica la negazione «che vi sia alcun ente a sé increato e alcuna causa primaria di tutte le cose». Perciò ogni sforzo di quell’esploratore delle nuove concezioni era teso a dimostrare che, per la loro stessa coerenza interna, queste avrebbero richiesto una causa prima, cioè un divino creatore; nonostante il suo costante impegno, avvertiva che la costruzione da lui impugnata resisteva alle sue sfide dialettiche, tanto da richiedere umilmente l’aiuto dei più avanzati centri europei di studio teologico per trovare delle risposte adeguate e maggiormente persuasive: «altro non sarebbe il mio desiderio, se non […] andare scorrendo ad uno ad uno tutti li sacri chiostri d’Europa e quivi invitare tutti li più ferventi religiosi […] all’impresa della Missione del Tibet, e vorrei incitarli a deporre lo strepito degl’Europei circoli, e delle filosofiche Cattedre ed accorrer tutti alla Missione del Thibette, per qui impiegare li giorni, e le notti intiere in confutar l’ateismo […], in ribattere gl’intrigatissimi errori». Desideri si spinge comunque ad affermare che, al di là dell’apparente paradosso, i tibetani non possono essere considerati completamente atei, poiché nonostante teoricamente «escludano ogni divinità in pratica l’ammettono e la riconoscono». (15)
Ciò perché trova congruenti con la visione cristiana le rappresentazioni dalle divinità tibetane, nonostante che queste, ad un esame più profondo, si rivelino indicative soltanto di livelli esistenziali più elevati da raggiungere nel percorso spirituale, più che figure oggetto di una realtà metafisica. Chiarisce ulteriormente l’argomento in questo passaggio, mostrandosi tuttavia quasi spaesato tra i differenti concetti di religione e spiritualità: «La šûnyatâ (vacuità, impermanenza, contingenza) è l’universale interdipendenza dei fenomeni. Ciò significa che nessun fenomeno ha in sé la ragione del proprio essere. Non potendo negare l’esistenza dei fenomeni e non avendo essi in se stessi la ragione del proprio essere, dobbiamo cercare questa ragione fuori di essi, in una causa prima che perciò sarà indipendente, incausata. Si arriva così alla necessità di ammettere un Assoluto indipendente, proprio della relatività delle cose, relatività che voi chiamate šûnyatâ». (16)
La controversia, come ovvio, rimase aperta, e queste due impostazioni rimasero nei rispettivi alvei di relativismo filosofico-spirituale e monoteismo teologico per i secoli a venire. Quello che va indubbiamente apprezzato, è il contributo che Desideri fornì alla conoscenza ed al confronto – anche quando massimamente critico sempre intellettualmente rispettoso – tra due grandi culture religiose. Come ebbe a dire Toscano, «Il Desideri, primo ed unico fra tutti coloro che fino ad oggi hanno studiato il Buddhismo, ha indicato una piattaforma su cui dovevano incontrarsi l’Est e l’Ovest, le due grandi culture, cristiana e buddhista, Buddhismo e Cristianesimo». (17)
Marco Costa
NOTE
1) Vedi Enzo Gualtiero Bargiacchi, Un ponte fra due culture. Ippolito Desideri S.J. (1684-1733). Breve biografia, Istituto Geografico Militare, Firenze 2008.
2) Vedi Enzo Gualtiero Bargiacchi, Un ponte fra due culture. Ippolito Desideri S.J. (1684-1733). Breve biografia, Istituto Geografico Militare, Firenze 2008, p. 38.
3) Vedi Enzo Gualtiero Bargiacchi, Riflessioni su un missionario pistoiese troppo a lungo sottovalutato: Ippolito Desideri “esploratore” alla scoperta del Tibet e del buddhismo, in Bollettino Storico Pistoiese n°108, 2006, pp. 155-166.
4) Vedi Luigi Foscolo Benedetto, Di uno scritto poco noto del P. Ippolito Desideri da Pistoia, Firenze 1928
5) Giuseppe Toscano (a cura di), Opere tibetane di Ippolito Desideri S.J., Roma 1981-1989; in quattro volumi: T’o-raṅs (“L’Aurora”), 1981; Sñiṅ-po (“Essenza della dottrina cristiana”), 1982; Byuṅ k’uṅs (“L’origine degli esseri viventi e di tutte le cose”), 1984; Ṅes legs (“Il sommo bene e fine ultimo”), 1989.
6)Vedi G. Tucci, Italia e Oriente, Garzanti, Milano, 1949, p. 204.
7)Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, p. 12.
8)Vedi E. G. Bargiacchi, Sulle orme di Ippolito Desideri. Primo confronto tra Occidente e Tibet, in Dharma, VI, n. 25, aprile 2007, pp. 76-85.
9)Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, pp. 12-13.
10)Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, p. 145.
11)Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, p. 146.
12) Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, p. 148.
13) Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, pp. 147-148.
14) Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, p. 150.
15) Vedi E. G. Bargiacchi, La ‘Relazione’ di Ippolito Desideri fra storia locale e vicende internazionali, “Storia Locale”, (a. I), n. 2, dicembre 2003, pp. 4, 96, 97, 103.
16) Vedi A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, p. 150.
17) Cit. in A. Luca, Nel Tibet ignoto. Lo straordinario viaggio di Ippolito Desideri S.J., Edizioni Italia Press, Bologna, 2009, p. 153.
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