di Gaetano Mauro Potenza*
SOMMARIO:
1. Il fenomeno della pirateria.
2. La pirateria nel diritto internazionale.
2.1 Missioni internazionali antipirateria.
3. La legislazione italiana sull’antipirateria.
4. Nuovi teatri.
Per millenni il fenomeno della pirateria marittima si è intrecciato con gli eventi politici, economici e sociali che hanno interessato le principali potenze talassocratiche, oggetto di un’abbondante produzione storiografica, volta a testimoniare dagli albori ai giorni nostri l’acuirsi di un fenomeno sorto con la nascita del commercio marittimo. Non sempre infatti, come testimonia la storia, il fenomeno è legato al semplice banditismo o fatto criminoso, ma l’atto di pirateria ha assunto talora la portata di atto di ribellione e in alcuni casi atto di guerra guidato da potenze statutarie. Il presente studio ha l’obiettivo di darne una definizione fenomenologica e di studiare sia i nuovi teatri colpiti sia la recente legislatura italiana antipirateria.
1. Il Fenomeno della Pirateria.
La pirateria è l’attività illegale di quei marinai, denominati pirati, che depredano le altre navi in alto mare. L’attività piratesca nasce nel momento in cui l’uomo ha iniziato a commerciare via mare, andandosi a sviluppare ed adeguandosi alle ere che si susseguivano. Oggi più che mai il fenomeno è in forte espansione vista la mole di merce pregiata (si pensi al petrolio) che viaggia via mare. Esaminando brevemente la storia della pirateria nei due secoli che hanno preceduto la Dichiarazione di Parigi del 1856, la quale stabiliva la messa al bando della guerra di corsa, possiamo assimilare fondamentalmente il fenomeno della pirateria antica con quello della moderna. Anche se sono cambiate le modalità di intervento nel corso della storia si continuano a configurare due tipi di piraterie: la prima, che potremmo definire pirateria d’opportunità, posta in essere da un piccolo gruppo di abitanti delle zone rivierasche solitamente dediti all’attività della pesca che sfruttando la conoscenza marinaresca decidono di equipaggiare un’ imbarcazione e con essa condurre un attacco diretto a rapinare i beni personali dell’equipaggio ed i valori rinvenibili sul natante attaccato e quant’altro facilmente asportabile e trasportabile; la seconda posta in essere da articolate organizzazioni criminali. La pericolosità del primo tipo di pirateria è relativamente ridotta e più facilmente fronteggiabile, perché, pur non escludendosi che essa fruisca di complicità locali, la sua capacità offensiva è modesta, i mezzi navali adoperati per gli assalti e le armi dei quali fa uso sono di limitata potenza. Discorso del tutto diverso va fatto per potenti organizzazioni che oggi operano nel settore; tali compagini hanno un collegamento con altre organizzazioni criminali, con gruppi politici nazionalistici ed insurrezionali e con le stesse autorità politiche, sia per le organizzate modalità e tecniche di assalto sia per la diversa finalità della loro azione. In alcuni casi si è riscontrato un collegamento diretto tra l’organizzazione criminale ed alcuni Stati che, amplificando il problema su alcuni specchi d’ acqua hanno provocato conseguenze geopolitiche a loro favore, basti pensare all’assegnazione di numerose missioni internazionali che aumentano l’introito di sovvenzioni Onu/Nato allo Stato che attua la missione, alla nascita di un nuovo business di protezione privata, come nel caso italiano che esamineremo più avanti. Di conseguenza il fatto criminoso non pone in essere solo la depredazione del carico della nave o l’impossessamento del natante stesso, ma tende a conseguire dal punto di vista delle organizzazioni criminali
- un ben più consistente profitto della propria illecita attività con l’incasso di una somma, spesso assai ingente, richiesta quale riscatto dell’equipaggio, del carico e della nave;
- provoca conseguenze geopolitiche abbastanza rilevanti dal punto di vista dei soggetti che sovvenzionano il fenomeno, quali
- investire il ricavo del fatto lucroso in attività che vanno a finanziare frange di ribelli e cellule terroristiche;
- il finanziamento di soggetti terzi per l’autodeterminazione di un gruppo di rivoltosi che non vogliono più lo sfruttamento delle acque territoriali;
- il ridisegnarsi delle rotte commerciali;
- aumento di missioni internazionali antipirateria ed il conseguente aumento del business della guerra;
- nuovi business di protezione privata per molti Stati tra i quali l’Italia.
Pertanto, la moderna pirateria non è più il semplice crimine di gruppi più o meno numerosi di marittimi e di abitanti delle regioni costiere che agendo sulla base di accordi estemporanei abbordavano un natante in transito per depredare gli equipaggi ed i naviganti dei loro beni e del carico trasportato. I pirati si sono ormai trasformati da improvvisati predoni del mare, contro i quali era sufficiente adottare misure semplici di difesa, in moderni corsari che operano nell’ambito di una organizzazione articolata attraverso una struttura capillarmente e gerarchicamente formata. Potremmo affermare che il fenomeno della pirateria moderna è il risultato della trasformazione della guerra di corsa, che nonostante abbia subito un bando da parte della comunità internazionale, continua a configurarsi grazie all’aumentare del fenomeno dell’autodeterminazione dei popoli che provoca un sorgere continuo di gruppi di ribelli armati e dalle moderne organizzazioni terroristiche internazionali.
2. La Pirateria nel diritto internazionale
L’atto di pirateria rappresenta la principale violazione delle regole fondamentali alla base della pacifica convivenza tra gli Stati: la libertà dei mari e del commercio marittimo. La libertà dei mari costituisce infatti, sulle base delle consuetudini createsi nel tempo, il punto focale sul quale è fondato tutto il sistema giuridico internazionale che regola l’uso del mare e lo svolgimento dei traffici marittimi.
Essa veniva già catalogata da Cicerone come crimina iuris gentium, vale a dire comportamenti percepiti da tutta la comunità internazionale di estrema pericolosità e pregiudizio che attentano gravemente alla pacifica convivenza tra le genti e ne pongono in grave pericolo beni e diritti fondamentali. La comprensione della pirateria nella categoria dei crimina iuris gentium determina rilevanti conseguenze pratiche, prima tra tutte la facoltà concessa ad ogni nave che vi abbia interesse di sostituirsi, in acque internazionali, allo Stato la cui bandiera batte la nave colta in attività di pirateria nell’esercizio di tutti i poteri repressivi, tra i quali anche la cattura ed il sequestro sia della nave pirata sia della nave della quale i pirati si sono illegittimamente impossessati, l’arresto dei responsabili ed il sequestro dei loro beni secondo le modalità e le procedure previste dalle leggi dello Stato della nave che interviene, in applicazione del principio della giurisdizione universale e delle convenzioni internazionali. Le norme che contrastano la pirateria sono considerate ius cogens dall’intera comunità internazionale e percepiscono l’esercizio criminoso come violazione della libertà del commercio marittimo. Nonostante ciò la comunità internazionale decise di consolidare e codificare le consuetudini secolari nel 1982 a Montego Bay con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare andando a ribadire oltre le consuetudini sull’antipirateria anche le norme contenute nella Convenzione di Ginevra sull’alto mare del 1958.
Secondo la convenzione di Montego Bay l’atto di pirateria si configura come atto di violenza o minaccia, di detenzione, di sequestro o di depredazione posto volontariamente in essere in alto mare o in zone non soggette alla giurisdizione di nessun Stato da privati facenti parte dell’equipaggio di un natante nei confronti ed ai danni di un altro mezzo navale o delle persone da esso trasportate, siano o meno membri dell’equipaggio. Devono perciò ricorrere due specifiche condizioni: un elemento spaziale la cui sussistenza è indispensabile per la configurabilità del reato di pirateria inteso come crimine internazionale, mancando il quale saremmo di fronte a condotte certamente illecite, ma che attentano a beni ed interessi esclusivi del singolo Stato e violano norme interne dello Stato esercitante la propria giurisdizione in quelle acque ed è perciò l’unico a poter esercitare la potestà punitiva nei confronti degli autori di tale condotta; l’altra condizione richiesta è definita “criterio delle due navi”, secondo la quale gli atti vietati devono vedere coinvolti due mezzi navali, prescindendo dalle loro rispettive dimensioni. Solo in presenza di entrambe queste condizioni vengono posti in essere la violazione o l’attentato ai beni giuridici della libertà dei mari e della sicurezza della navigazione, che le norme sulla repressione della pirateria intendono contrastare. Non possono quindi qualificarsi atti di pirateria condotte criminose identiche a quelle indicate nell’articolo 101 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare poste in essere in terraferma, e ciò anche se ne fossero autori componenti dell’equipaggio di una nave che per la loro azione non utilizzano un natante, o ne fossero vittime i componenti di un equipaggio che non si trovano a bordo di una unità navale.
2.1 Missioni internazionali antipirateria
L’uso della forza in mare in contesti non bellici, dopo la messa al bando nel 1856 della c.d. “guerra di corsa” è diventata un’attività demandata esclusivamente agli Stati attraverso le navi da guerra, espressione nell’alto mare della loro sovranità. Per contrastare il crescente fenomeno configuratosi al largo della Somalia nel 2008 il Consiglio di Sicurezza ha approvato la Risoluzione n.1816 con cui i paesi interessati hanno dislocato al largo del Corno d’Africa, la zona dove la pirateria era più attiva, un imponente dispositivo navale. Si è così data attuazione a quanto prescritto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare circa l’obbligo di cooperazione nella repressione della pirateria ricercando forme di azione congiunta internazionale.
Il primo passo è stato fatto dall’Unione Europea che, nel quadro della propria Politica di Sicurezza e Difesa Comune ha lanciato, con la Joint Action 2008/851/CFSP del 10 novembre 2008, la missione militare “Atalanta”. Il mandato dell’operazione si articola attualmente nei seguenti compiti: 1) protezione delle navi noleggiate dal Programma Alimentare Mondiale (PAM) per il trasporto di aiuti alimentari alle popolazioni somale e di quelle che danno sostegno logistico alla missione dell’Unione Africana in Somalia, AMISOM; 2) deterrenza, prevenzione e repressione della pirateria; 3) protezione, caso per caso, della navigazione al largo delle coste somale di imbarcazioni vulnerabili; 4) monitoraggio delle attività di pesca nella stessa zona.
In parallelo con l’Unione Europea anche la NATO si è impegnata nella lotta alla pirateria, prima con l’operazione “Allied Protector”, poi con “Ocean Shield”. Quest’ultima operazione, in corso dal 17 agosto 2009, si basa su regole di ingaggio analoghe a quelle di Atalanta che assegnano alle forze navali il compito di “impedire e neutralizzare la pirateria quanto più possibile”[1].
Del tutto peculiare è l’approccio alla cooperazione perseguito dalla NATO con il Puntland, la regione della Somalia settentrionale che pur riconoscendo l’autorità del governo federale di transizione somalo è di fatto indipendente, in modo da svolgere azione di capacity building verso le istituzioni locali in occasione di soste di proprie unità. Va menzionata inoltre l’Italia, che è stata la prima nazione a dislocare una propria unità al largo della Somalia nel 2005 con l’operazione “Mare Sicuro”.
3. Legislazione italiana sull’antipirateria
Tra il 2011 e il 2012, quattro sono state le navi italiane attaccate ed abbordate dai pirati: la nave petroliera “Savina Caylyn”, con 22 uomini di equipaggio, abbordata l’8 febbraio da pirati somali al largo delle Coste dello Yemen e rilasciata il 21 dicembre 2011; il cargo “Rosalia D’Amato”, con 22 uomini di equipaggio, abbordata il 20 aprile in pieno Mare arabico e rilasciata il 25 novembre 2011; la nave petroliera “Enrico Ievoli”, con 18 uomini di equipaggio, abbordata nelle acque prospicienti le coste somale il 27 dicembre e liberata il 23 aprile 2012 in seguito ad un’operazione condotta dalla Marina militare; il rimorchiatore “Asso 21″, abbordato nella notte tra il 23 ed il 24 dicembre 2012 al largo delle coste nigeriane. Per consentire l’autorizzazione all’imbarco di nuclei di protezione ed autodifesa armata a bordo del naviglio nazionale, anche l’Italia si è dotata di un’apposita legislazione rappresentata dal Decreto legge 12 luglio 2011, n.107 convertito con modificazioni dalla Legge 2 agosto 2011, n.130. La legislazione prevede due strade per l’armatore, qualora il ministero della difesa comunichi che non è possibile l’imbarco di Nuclei Militari di Protezione (forniti dalle fila dell’esercito), può avvalersi di GPG private a difesa del naviglio mercantile. Nello schema in figura è riportato l’evolversi della legislazione Italiana:
Il punto più controverso è quello che prevede la possibilità di imbarcare a bordo della nave mercantile guardie particolari giurate (Art.5, commi 5-bis e 5-ter). L’attuale legislazione pone le società private in ruolo sussidiario rispetto alle FF.AA., in altre parole all’armatore è consentito ricorrere a questa ipotesi solo nel caso in cui i servizi di protezione militari NMP non siano disponibili. L’armatore dovrà quindi inoltrare domanda al Ministero della Difesa per richiedere la disponibilità di un NMP e solo nel caso di risposta negativa potrà interessare una compagnia privata di sicurezza marittima. L’imbarco, inoltre, sarà subordinato anche alle seguenti condizioni generali:
- Le aree in cui possono operare le guardie giurate potranno operare unicamente su navi mercantili battenti bandiera italiana;
- La nave dovrà aver predisposto almeno una delle misure di protezione passiva previste dalle “Best Management Practices” elaborate dalla IMO;
- Le guardie giurate dovranno essere regolarmente autorizzate (Artt. 133 e 134 T.U.L.P.S.), in possesso di licenza del Ministero dell’Interno per il possesso delle armi e dell’autorizzazione del Prefetto a svolgere il servizio;
- Le guardie giurate dovranno aver superato i corsi teorico-pratici stabiliti con decreto del Ministero dell’Interno 15 settembre 2009, n. 154. Le guardie giurate sono di norma individuate tra coloro che abbiano prestato servizio nelle forze armate, anche come volontari, con esclusione dei militari di leva.
Esaminato e chiarito lo stato di fatto dell’attuale quadro normativo italiano è possibile dedicarsi ad alcune utili considerazioni, il decreto, infatti, sembra essere in contrasto con il Codice della Navigazione R.D. 30 marzo 1942, n. 327, in cui si legge:
- tutte le persone che si trovano a bordo sono soggette all’autorità del comandante della nave (art.186);
- l’imbarco di armi e munizioni per uso della nave è sottoposto all’autorizzazione del comandante del porto o dell’autorità consolare (art. 193);
- Il comandate è ufficiale di polizia giudiziaria per i reati commessi a bordo o contro la nave ed è il responsabile della pubblica sicurezza;
- In caso di pericolo tutti i componenti dell’equipaggio devono collaborare alla salvezza della nave, delle persone imbarcate e del carico (art. 190);
- In caso di necessità per la sicurezza della spedizione, gli arruolati possono essere adibiti a qualsiasi servizio. (art. 334).
Dall’esame delle norme di diritto della navigazione si desume:
- Ogni componente dell’equipaggio è tenuto a concorrere alla difesa della nave e perciò il capitano (o l’armatore) può addestrare a ciò chi ritiene più idoneo e non deve neppure pagargli lo straordinario;
- Le norme che consentono al capitano di caricare armi e munizioni esistono già fin dal 1942 e non è certo un decreto ministeriale che può restringere o ampliare le leggi;
- A bordo di una nave è il capitano che decide come e dove custodire le armi, quando metterle in mano a chi deve difendere la nave, se tenerle cariche o scariche;
- L’art. 53 del Codice penale stabilisce chiaramente che un pubblico ufficiale (qui il comandante della nave) nell’esercizio dei suoi compiti, ha diritto a far uso legittimo delle armi, non solo per difesa personale, ma per difendere l’autorità e di essere aiutato dai sottoposti.
4. Nuovi teatri
Gli attacchi registrati dall’IMB (International Maritime Bureau) nell’area del Golfo di Aden, storico specchio di acqua colpito dal fenomeno pirateria, sono in calo rispetto all’anno 2013 a conferma dell’intensità dell’attività delle flotte militari internazionali e alla capillare presenza di guardie armate a bordo dei mercantili. Non che i pirati somali siano stati debellati ma sono stati resi inoffensivi dai dispositivi di sicurezza, come ha dimostrato l’abbordaggio tentato l’8 marzo 2014 da tre barchini contro il portacontainer italiano Jolly Quarzo e respinto dalle GPG a bordo. Nelle coste dell’Africa occidentale, il fenomeno si registra in forte aumento soprattutto a largo della Guinea. L’aumento è dovuto alla mancanza di controllo capillare da parte della Comunità Internazionale, come invece avviene al largo della Somalia, ed alla crescente presenza delle petroliere in un’area dove vengono estratti ogni giorno 5 milioni di barili che aumenteranno notevolmente quando saranno attivi anche i nuovi pozzi off-shore dell’Angola e che presumibilmente costituiranno più a sud una nuova area di interesse per la pirateria. A differenza dei pirati somali, quelli dell’Africa occidentale non operano in alto mare ma il più delle volte depredano le navi anche in acque territoriali e non dispongono di basi sicure dove tenere prigionieri equipaggi e navi per mesi[2].
In particolare i pirati che operano in questa zona sono legati ad un gruppo di importante peso all’interno della pirateria e dei traffici illegali attorno al fiume Niger di nome MEND (Movimento per l’Emancipazione del Niger Delta). Il gruppo pare che collabori, o comunque condivida quote di interessi, con due gruppi locali jihadisti: Boko Haram e Ansaru. Tuttavia i proventi della pirateria guadagnati dal MEND servono per finanziare le popolazioni locali che collaborano con loro, essendo questo lo scopo del gruppo guerrigliero.
Il fenomeno, che aveva inizialmente colpito l’ingresso del canale di Suez e costretto gli armatori a circumnavigare l’Africa, sembra essersi spostato anche lungo la fascia occidentale del continente provocando una nuova sfida sia per le confederazioni di armatori europei sia dal punto di vista legislativo internazionale proprio perché gli attacchi avvengono in acque territoriali di Stati sovrani.
*Gaetano Mauro Potenza, laureato in Scienze della Difesa e della Sicurezza, si occupa di Country analisys e security management.
NOTE:
[1] Nel suo ambito è stata condotta l’11 ottobre 2011 da parte di unità navali statunitensi e britanniche operanti sotto il comando del Contrammiraglio italiano Gualtiero Mattesi preposto alla Task Force 508 dello Standing NATO Maritime Group 1 (SNMG1), il blitz che ha consentito la cattura dei quindici pirati coinvolti nell’assalto al mercantile italiano Montecristo.
[2] Questo tipo di fenomeno che avviene in acque territoriali, come abbiamo già descritto nel primo paragrafo, è di esclusiva competenza dello Stato costiero provocando un enorme complicazione per le GPG che si trovano a bordo della nave e che dovrebbero respingere l’aggressione.
BIBLIOGRAFIA
– Lo Cascio, “ Pirati e corsari nei mari di Sicilia”, ed. Antares, 2004.
– Tellarini, “La pirateria marittima. Regimi di repressione e misure di contrasto” ed. Aracne, 2008.
– Sinagra, Bargiacchi, “Lezioni di diritto internazionale pubblico”, ed. Giuffrè, 2009.
– Fiale, Grimaldi, Diritto della navigazione marittima e aerea, ed. Simone, 2011.
– Amm. Romaino, “La pirateria oggi” dal punto di vista dei soggetti che sovvenzionano il fenomeno.
– “L’incremento della pirateria sul golfo di Guinea” di A. Virgili, pubblicato su Ce.S.I. 11 ottobre 2013.
– “I pirati puntano sul petrolio del golfo di Guinea” pubblicato su “Analisidifesa” 12 aprile 2014.
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