Il sogno dell’Europa unita, il sogno idealista, di Spinelli e amici, è finito. Ciò che rimane e che va avanti, trattato dopo trattato, è un processo di trasformazione giuridica ed economico-finanziaria voluto e guidato dall’alto essenzialmente nell’interesse del capitale finanziario. D’altronde, quand’anche realizzata, un’Unione Europea federale non avrebbe prospettive vitali, poiché, storicamente, nessun paese composto da popoli molto diversi per storia, abitudini, sistemi socio-economici, ha avuto successo.
Già in passato ci si era accorti che la principale attività dell’UE, ossia la politica agricola comune, che assorbe l’80% del bilancio, era fallimentare almeno per molti paesi, ma ciò non aveva suscitato dubbi generali sulla opportunità dell’Unione Europea in sé.
E’ solo oggi che si diffonde l’aspirazione o all’uscita dalla costruzione europea o a una sua ristrutturazione, poiché ci si accorge sempre più chiaramente e dolorosamente che l’Euro, Maastricht, le ricette finanziarie hanno prodotto il contrario di ciò per cui erano stati decisi dall’alto, non senza consenso dal basso: hanno cioè arrecato insicurezza anziché stabilità, recessione diffusa anziché crescita stabile, disoccupazione e miseria per decine di milioni di europei, divergenza delle economie e, altresì, degli interessi tra euroforti ed eurodeboli, anziché convergenza. Eppure si insiste su quella via. Vuol dire che chi ha il potere reale da essa trae profitto. Vediamo all’opera gli egoismi nazionali anziché la solidarietà. Ma anche gerarchia di potenza interna all’UE: la Germania è il paese creditore, quindi ha l’iniziativa politica, tutto dipende dai suoi sì e dai suoi no, ha il potere di commissariare i paesi debitori. Bella unione!
Questo potere le viene dalla sua maggior efficienza competitiva rispetto a paesi come l’Italia, dalle migliori infrastrutture, tecnologie etc., dalle maggiori dimensioni, ma anche dal fatto che l’Euro, essendo (non una moneta ma) un blocco dei fisiologici aggiustamenti dei cambi valutari tra i paesi aderenti, favorisce le esportazioni tedesche, soprattutto intracomunitarie, e ostacola quelle dei paesi che si rilanciavano mediante la svalutazione competitiva, Italia innanzi tutti. In tal modo la Germania ha accumulato un enorme attivo commerciale verso l’Italia e altri paesi eurodeboli. Colma di capitali immigrati, e gestendo nazionalisticamente, fuori dalla sorveglianza della BCE, gran parte del proprio sistema creditizio, essa può assicurare alla propria economia credito abbondante e a tassi frazionari rispetto a quelli italiani, il che le consente di essere ancora più competitiva sull’Italia e di aumentare progressivamente il distacco da essa.
Per contro, i paesi eurodeboli vengono costretti dalla Germania a perseverare in un rigore contabile controproducente, che sta peggiorando strutturalmente il rapporto pil/debito pubblico. A perseverare anche dopo che si è visto che esso è controproducente e causa grave recessione e disoccupazione. Non è che la pratica dell’austerità ci aiuti ad avvicinarci alla Germania – ce lo rende impossibile, sempre di più. Rende il distacco incolmabile.
Molti credevano che l’avvento di Hollande all’Eliseo e la partecipazione della SPD al nuovo governo Merkel avrebbe portato a un allentamento del rigore, ma così non è stato: la Germania, che impone agli altri regole diverse da quelle che applica al suo proprio interno, ora è vincolata dallo stesso patto di maggioranza (Deutschlands Zukunft gestalten, cioè Formare il futuro della Germania) a non allentare la stretta. Oltre all’eurobond, persino l’unione bancaria e il meccanismo di salvataggio bancario comune hanno ricevuto il nein di Berlino, lo scorso 20 dicembre. La assenza totale di solidarietà europea, persino davanti ai disastri sociali e alle migliaia di suicidi economici, è quindi tangibile e comprovata. Non vi è una spinta di solidarietà, di identità comune, che porti avanti un’unificazione. Non vi è nemmeno la capacità dei paesi eurodeboli di coalizzarsi, magari appoggiati dalla Francia, per imporre la presa d’atto che il metodo attuale è disastroso, e conseguentemente la sua sostituzione. Quello che si sta costruendo non è una integrazione, ma una struttura di controllo e coercizione del più forte sul più debole, nell’esclusivo interesse del più forte. Prova ne è che quasi tutto il denaro dato in bail-out a Grecia, Spagna e Portogallo è finito in tasca a banchieri tedeschi e francesi. E il soggetto più forte appare non avere alcun progetto organico di lungo termine, inclusivo, verso i partners deboli. Li mantiene in isolamento. Probabilmente si aspetta che prima o poi escano dall’Euro, e si prepara per procedere allora all’integrazione, limitatamente ai paesi forti.
Di fronte a queste evidenze, sarebbe il caso di svegliarsi dai sogni e di interrogarsi sulle questioni di fondo. Perché l’Unione Europea è così diversa nella sostanza e negli effetti da come “doveva” essere? Per una ragione ovvia: la politica è un ambito in cui contano e agiscono gli interessi e i rapporti di forza, e in cui gli ideali servono per raccogliere dalla gente consenso con cui realizzare profitti pratici, perlopiù in ottiche di breve termine. L’ideale europeista è sempre stato usato così, per coprire le manovre degli interessi e i loro progetti e gli effetti futuri dei loro progetti sulla vita della gente. L’Europa di Spinelli e Schuman, l’Europa unita del Manifesto di Ventotene, è una costruzione mentale di intellettuali, ispirati da valori da loro soggettivamente percepiti, che essi si confermavano reciprocamente, e che perciò finivano per sentire come cose reali e realizzabili, aiutati in questo sentire o inebriati anche dai tempi “eroici” e tragici che stavano vivendo. Il sogno non si è realizzato perché è un sogno. Però è stato raccolto e usato per far passare un progetto realistico, contrario a quello oggetto del sogno. Rifondare o riformare l’Unione per attuare gli ideali e il progetto del sogno è possibile? Di nuovo, no, per la medesima ragione: le forze reali impongono i loro interessi.
Precisazione: le bastonate della realtà hanno infranto completamente il sogno dei popoli eurodeboli, francesi compresi, che, al di là dell’idealismo, era un sogno di solidarietà, di assistenza, di condivisione del debito pubblico pregresso e delle spese per gli investimenti e l’ammodernamento. Molto meno hanno colpito i sogni dei tedeschi, che vedevano nell’UE e nell’Euro uno strumento per esportare di più, attrarre capitali, indebolire i concorrenti europei, alla fine conseguire un’egemonia continentale. Il loro sogno, o meglio il loro incubo, cioè contrarre l’inflazione per contagio dei paesi mediterranei, li ha protetti da ogni scrupolo morale nel fare i loro interessi a spese di questi ultimi , e ha anzi rafforzato un certo razzismo.
Dobbiamo quindi metterci il lutto per l’Europa che non si unisce? No, al contrario. Ciò che conferisce all’Europa il suo indubbio valore, la sua identità unitaria, proprio le cose insomma per cui il predetto sogno la vorrebbe unificata, l’Europa le ha prodotte, nei secoli, senza bisogno di essere giuridicamente unita, senza bisogno della lungimiranza di una Merkel, del carisma di un Hollande, della classe di un Barroso, del genio economico di un Monti o di un Letta. Anzi, è grazie al fatto che consisteva di molti Stati indipendenti, con diversità politiche, culturali, morali, religiose, che ha consentito a molti filosofi, artisti, letterati, scienziati, musicisti di trovare protezione e apprezzamento entro uno o l’altro Stato, sfuggendo a persecuzioni e censure: pensiamo a Dante, Galileo, Occam, Cusano, Heine, Marx, Freud… Il modello dello Stato burocratico, accentrante, autoreferenziale e livellante, adottato dall’UE, è l’opposto dell’identità europea, dell’europeismo: è il modello dell’autocrazia asiatica: Persia, Cina, Egitto, Impero ottomano, Impero sovietico… il modello che agli europei ha sempre ispirato orrore, e contro cui essi si sono sempre valorosamente battuti, dalle guerre persiane narrate da Erodoto in poi.
D’altronde, quand’anche realizzata, un’Unione Europea federale non avrebbe prospettive vitali, poiché, storicamente, nessun paese composto da popoli molto diversi per storia, abitudini, sistemi socio-economici, ha avuto successo – anzi, tutti i paesi di questo tipo tendono a scomporsi: URSS, Jugoslavia, Cipro, Libano, Sudan… persino il Regno Unito, il Canada, la Spagna. Popoli aventi mentalità e sensibilità e aspettative sociopolitiche diverse, non possono darsi regole e riforme buone e condivise e credute, non nasce un’etica civica. Infatti l’Italia, puzzle di nazioni diversificate da molti secoli di storie diversificanti, non funziona, si deteriora e si entropizza, proprio perché non produce, quindi non ha, regole buone e credute, e senza regole non si funziona né tanto meno si regge la competizione o si forma un progetto nazionale di lungo respiro, ma tutti i soggetti puntano al loro particolare e al breve periodo.
Per tutto ciò, consiglierei di azzerare l’UE e ripristinare un’Europa plurale, ossia senza autorità centrale, costituita da democrazie parlamentari indipendenti, ciascuna con la sua moneta e banca centrale, cooperanti entro trattati per la regolazione del commercio nonché di altre attività, e organizzate in una clearing union (unione di compensazione plurilaterale) del tipo divisato da J.M. Keynes, utilizzante non una moneta comune o internazionale né più valute, bensì diritti di prelievo.
Se ignoriamo però quanto sopra, possiamo immaginare gli utopistici Stati Uniti di Europa essenzialmente secondo il modello USA, nei tratti funzionalmente fondamentali:
– una unica banca centrale di emissione, con un mandato di promuovere il pieno impiego dei fattori produttivi (compresa l’occupazione dei lavoratori), e che assicuri l’acquisto delle emissioni di debito pubblico (quindi il rifinanziamento del debito pubblico e la solvibilità della federazione) e la tutela dei depositi bancari tenendoli fuori dai bilanci delle banche e/o reintroducendo il Glass Steagall Act;
-un unico debito pubblico federale, concorrente con debiti pubblici statali e degli enti locali, tutelato da un unico organo giudiziario federale competente per il controllo contabile e sostanziale della correttezza della spesa pubblica, che assicuri i contribuenti che i loro soldi non vengano rubati o spesi clientelarmente;
– un governo centrale federale, eletto da un unico corpo elettorale, che provveda a riequilibrare, con investimenti federali, gli squilibri delle bilance commerciali tra gli Stati federati;
– governi statali responsabili della gestione delle loro risorse;
– il diritto di ciascuno Stato di lasciare la federazione per via referendaria.
Resta il fatto che sarebbe autolesionistico, contrario ai loro interessi, per paesi efficienti quali la Germania, la Finlandia, l’Olanda, l’Austria, unirsi e integrarsi politicamente ed economicamente a paesi caotici e corrotti come l’Italia, che i popoli di quei paesi “virtuosi” ben conoscono nelle loro ataviche pecche, e verso cui hanno sentimenti di diffidenza, disistima e razzismo (sentimento molto diffuso verso gli Italiani). In effetti, le genti dei paesi efficienti manifesta in ogni occasione di non volere una simile integrazione. Anche col voto elettorale. Quindi il sogno dell’Europa unita, il sogno idealista, di Spinelli e amici, è finito. Ciò che rimane e che va avanti, trattato dopo trattato, è un processo di trasformazione giuridica ed economico-finanziaria voluto e guidato dall’alto essenzialmente nell’interesse del capitale finanziario, e che sta producendo soprattutto tre cose:
-la concentrazione dei redditi e delle ricchezze verso i vertici della piramide sociale con dissoluzione delle classi intermedie;
-la concentrazione del potere gestionale e normativo nelle mani di organismi non elettivi che decidono a porte chiuse e in regime di non-responsabilità e non-sindacabilità (BCE, MES, Commissione Europea), con parallelo esautoramento degli organi elettivi nazionali;
-la graduale riforma, attraverso i successivi trattati, dei principi costituzionali soprattutto in materia di diritti sociali (lavoro, welfare, eguaglianza sostanziale, etc.) per adattarli alle esigenze del capitalismo finanziario sovrannazionale.
Si tratta di un processo partito alla metà degli anni ‘7’0, che avanza in tutto l’Occidente, e che in Europa si veste con l’ideale europeista, mentre negli USA con i miti di missione globale e di superiorità morale e democratica propri di quel paese. La sostanza non cambia.
Le suddette esigenze non sono quelle del capitalismo industriale, dei padroni del vapore, né quelle del libero mercato, come invece si vuole far credere da parte della dominante dottrina pseudo-neoliberista e pseudo-mercatista. Cioè: secondo la teoria classica il libero mercato va accettato perché esso sarebbe a) possibile e b) efficiente (ossia assicurerebbe l’ottimale distribuzione delle risorse, la massima produzione di ricchezza, la prevenzione o quantomeno il pronto riassorbimento delle crisi. Nel mondo reale, si è visto che il mercato non è libero (nel senso che i mercati più importanti – moneta, credito, energia, materie prime etc. – sono non liberi e aperti ma posseduti da cartelli e monopolisti), quindi non è complessivamente efficiente. Ma soprattutto si è capito che, se la dottrina del mercato libero ed efficiente è almeno teoricamente logica per il mercato della produzione e del consumo dei beni e dei servizi reali (in cui per massimizzare il profitto l’imprenditore deve massimizzare la produzione e la vendita, quindi tende a produrre il massimo e il meglio possibile), essa per contro non può valere, nemmeno sulla carta, per i mercati finanziari, speculativi, dove non si produce ricchezza, ma simboli spendibili di essa; e dove si guadagna non dalle vendite di beni e servizi reali, ma dalle variazioni dei prezzi dei titoli finanziari (azioni, obbligazioni, derivati di ogni sorta) nel tempo e nello spazio.
Con la conseguenza che l’imprenditore finanziario massimizza i propri guadagni massimizzando tali variazioni, cioè inducendo frequenti e ampie oscillazioni delle quotazioni nel tempo, nonché squilibri delle quotazioni e delle condizioni economiche tra le aree del mondo. In altre parole, guadagna proprio dalle crisi e dalle sperequazioni.
Quindi ciò che noi ora pensiamo sia una crisi da cui si possa uscire, un’anomalia, è invece il normale modo di lavorare del capitalismo finanziario, perfezionato dal controllo che questo ha acquisito sulle istituzioni pubbliche coltivando e sfruttando, anche col pungolo del rating, la loro condizione di indebitamento e instabilità per imporre i suddetti trattati (Maastricht, Lisbona, Six Compact, Fiscal Compact) e le suddette riforme a proprio vantaggio. Il fatto che questo capitalismo finanziario contemporaneo controlla gli Stati e comanda i poteri pubblici guidando anche l’attività legislativa, e che scarica sui bilanci pubblici le proprie perdite, lo pone in antitesi col modello liberista o neoliberista.
Ho approfondito queste vicende e questi meccanismi in alcuni miei recenti saggi (Cimit€uro, Traditori al governo?, I signori della Catastrofe); qui ricordo soltanto un dato saliente: contrariamente a quanto media e istituzioni raccontano alla gente, la crisi del debito pubblico in Occidente non è stata scatenata dalla spesa per welfare, che è rimasta costante, ma dalla socializzazione delle perdite bancarie, ossia dal fatto che gli Stati si sono indebitati per fare i salvataggi delle banche (che erano state dissestate in operazioni truffaldine ai danni dei risparmiatori e degli enti previdenziali a vantaggio e ad opera di soggetti ben individuati, di cui alcuni sono poi finiti nei governi stessi, per assicurarsi che la socializzazione delle perdite fosse eseguita con rigore. Lo Stato italiano ha speso poco per il salvataggio di banche nazionali; ma, si è indebitato ad alti tassi per prestare, a tassi inferiori, oltre 50 miliardi a quelle degli altri Piigs – miliardi che poi sono finiti a pagare banchieri tedeschi e francesi.
Attualmente nell’Eurozona è in gestazione una nuova riforma, promessa in un senso rassicurante per i risparmiatori ma portata avanti in tutt’altro senso, che è quella detta dell’unione bancaria e della vigilanza unificata. Inoltre, in Italia è in via di approvazione in parlamento una riforma truffaldina della Banca d’Italia. Due operazioni in favore della grande finanza, alle quali ho dedicato un breve saggio in via di pubblicazione: Sbankitalia, e che hanno implicazioni molto profonde, al temine delle quali si trovano le mistificazioni ultime intorno alla moneta e al credito.
Con queste premesse di realtà, e identificati gli interessi all’opera nonché la direzione dell’opera di costruzione europea in corso, parlare di riforma della costruzione europea ha senso, direi, solo nei seguenti termini:
-quali saranno prevedibilmente i prossimi passi in quella direzione?
-quali saranno le reazioni se l’aggravarsi della recessione, almeno in alcuni paesi, susciterà insurrezioni popolari?
Alla prima domanda rispondo che la linea va verso il graduale esproprio del risparmio e del reddito dei cittadini, iniziando da quelli dei paesi eurodeboli, attraverso la tassazione, il bail-in, la riduzione dei servizi sociali; inoltre va verso la completa privatizzazione, per esigenze di cassa, dei beni pubblici di valore e dei servizi pubblici; continuerà anche la deindustrializzione e l’emigrazione di imprese, capitali, tecnici, giovani e si andrà quindi a un avvitamento della recessione e all’impossibilità di pagare pensioni sufficienti alla vita.
Alla seconda domanda rispondo che le proteste popolari possono essere fatte rientrare organizzando una crisi di spread con un principio di default pubblico e scarsità di carburanti nonché limitazioni ai prelevamenti bancari. La repressione diretta è l’opzione subordinata. Segue il commissaria mento con la trojka e una serie di dure riforme. Se nondimeno si realizzassero sollevazioni, veicolate anche dall’avanzata di forze politiche euroscettiche ed eurocontrarie, la reazione sarebbe probabilmente una svolta repressiva e autoritaria, una ristrutturazione giuridica della “casa comune europea”, portata avanti con appositi trattati e decreti, giustificata dall’emergenza e dalla solita dottrina che “non c’è alternativa anche se la gente non lo capisce”. Sarà eventualmente accompagnata dalla divisione dell’Eurozona in una zona A, che mantiene una moneta forte, e una zona B, in cui la moneta viene svalutata di un 30%, per dare un respiro e un rilancio, che però sarà temporaneo perché non strutturale. La svalutazione monetaria causerà una ulteriore, forte e brusca svalutazione dei risparmi nella zona B e un’agevolazione ai capitali della zona A nel comperare asset della zona B (take over).
Razionale quindi per l’Italia sarebbe uscire alla svelta, prima di essere ulteriormente deindustrializzata e decapitalizzata per effetto della pompa del cambio fisso detto “moneta unica”, sia dall’Euro che dalla UE (onde evitare il take over a seguito della inevitabile svalutazione), dotandosi al contempo di una banca centrale nazionale che garantisca contro il default, accordandosi con paesi fornitori per poter barattare con loro materie prime contro manufatti, servizi e appalti e/o pagare con la nuova valuta nazionale.
Irrazionale, o meglio risibile, per non dire complice, è invece la linea seguita dal governo italiano, consistente nel richiedere petulantemente e inutilmente alla Germania un semplice allentamento finanziario per investimenti e sviluppo, anziché richiedere anche una riforma della BCE e dell’Euro con passaggio al modello USA sopra accennato, minacciando, in caso di diniego, il passaggio a un Piano B comprensivo di ritorsioni.
Marco Della Luna avvocato, esercita da anni la professione forense. Laureato in psicologia a Padova è inoltre studioso di strumenti psicologici, economici e giuridici di dominazione sociale. Autore di numerosi libri tra cui: “Il Codice di Mâya”, “Euroschiavi”, “Le Chiavi del Potere”, “Polli da Spennare”, “Basta con questa Italia”.
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