Il processo di riforme in Vietnam

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In molti conoscono le vicende della guerra del Vietnam; c’è da rallegrarsene, essendo quello uno degli episodi storici dell’epoca moderna che, probabilmente più di ogni altro, si è caratterizzato per audacia popolare, spirito patriottico, lotta intransigente alle velleità imperialiste statunitensi nell’area del sud-est asiatico. Decine di film sono stati prodotti in proposito, grandi cantautori ne hanno musicato l’epopea, un’intera generazione – anche nell’occidente “capitalista” – ha conosciuto ed incoraggiato le gesta di questo popolo indomito che, contestualmente, è riuscito inaspettatamente a rompere il giogo dell’accerchiamento e tramutare una lotta anticoloniale in una lotta rivoluzionaria.

Purtroppo, anche a causa di una storiografia assai carente sul tema, pare quasi che la storia di questa importante nazione si sia arrestata alla metà degli anni ’70, allorquando all’inizio del 1975 il Vietnam del Nord, dopo alcune discussioni tra i vari dirigenti politico-militari sui tempi e la modalità dell’attacco e su sollecitazione soprattutto del comandante Tran Van Tra, intraprese l’offensiva finale e l’esercito collaborazionista sudvietnamita si disgregò, per capitolare di fronte alle superiori forze nordvietnamite comandante dal generale Van Tien Dung. Dopo un’avanzata trionfale e ormai scarsamente contrastata, l’esercito nordvietnamita circondò la capitale con un imponente schieramento di forze ed entrò a Saigon il 30 aprile 1975; i soldati di Hanoi issarono la bandiera Viet-Cong sul famoso palazzo presidenziale nel centro. Gli aggressori statunitensi ancora presenti nella capitale vennero evacuati con una disperata operazione di salvataggio con elicotteri, solo alcuni giorni dopo che il nuovo presidente Gerald Ford aveva pubblicamente dichiarato il pervenuto disinteresse statunitense per le nuove vicende belliche nell’area. La guerra del Vietnam si concluse quindi con la vittoria totale e schiacciante delle forze patriottiche in tutta la regione indocinese, e con il parallelo completo fallimento politico e militare americano. Sicché il Vietnam del Sud si ricongiunse al Vietnam del Nord il 2 luglio 1976, per formare l’attuale Repubblica Socialista del Vietnam; Saigon venne ribattezzata Città Ho Chi Minh, in onore dell’ex Presidente nordvietnamita. Pagine assai note, tanto conosciute quanto insufficienti a delineare un quadro del Vietnam a noi contemporaneo.

In effetti, anzitutto alla luce della trionfale vittoria delle forze patriottiche vietnamite organizzate sotto le bandiere del Partito Comunista Vietnamita (che in realtà adottò questo nome al suo quarto Congresso nazionale, che si svolse nel 1976 dopo la fine della guerra del Vietnam con la riunificazione del paese, il nome del partito fu cambiato da Partito dei Lavoratori del Vietnam in Partito Comunista del Vietnam), l’influenza del modello sovietico negli anni post-bellici fu considerevole. Il nuovo governo insediatosi ad Hanoi, una volta riunificato il paese, decise di estendere anche al Sud il modello collettivista, caratterizzato dal privilegio verso l’industria pesante, la nazionalizzazione delle imprese, la collettivizzazione su larga scala dell’agricoltura, la statalizzazione delle attività commerciali anche famigliari, tanto che nel 1978 tramite decreto vennero dichiarate illegali le attività economiche e commerciali private. Tuttavia, il primo piano quinquennale (1976-1980) non ottenne particolari successi, ed anzi causò una innegabile crisi. Dopo approfondite riflessioni, la leadership vietnamita fu indotta ad apportare una serie di riforme graduali, che sarebbero state recepite definitivamente nel VI Congresso del PCV tenutosi nel 1986, nel quale fu adottata la cosiddetta politica del Doi Moi, ovvero rinnovamento. La fondamentale conclusione a cui gli economisti ed il governo arrivarono durante questo Congresso fu, schematicamente, che le riforme non avrebbero potuto rinnovare l’economia del paese se i difetti strutturali ormai endemici al vecchio modello economico centralista fossero stati confermati: ne era una palese dimostrazione l’insuccesso delle misure prese tra il 1979-86. Bisognava fondare lo sviluppo su nuove basi, che mantenessero in vita certamente l’impalcatura socialista ma che, non per questo, si chiudessero in una rigidità dogmatica deleteria. Il Congresso poneva così fine alla sperimentazione degli anni precedenti e dava inizio ad una serie di riforme caratterizzata dall’abbandono del classico modello di industrializzazione dall’alto e dal passaggio ad un’economia di mercato ad orientamento socialista, straordinariamente affine – almeno nello spirito se non nelle cause particolari – alle riforme che Deng Xiaoping andava contestualmente introducendo nella confinante Repubblica Popolare Cinese.

L’industrializzazione e lo sviluppo non dovevano essere più visti come fattori distinti dalla cooperazione internazionale e dall’integrazione nel mercato mondiale. Bisognava porre fine all’ostinata pianificazione centrale, al sistema doppio di prezzi e ai sussidi statali alle imprese di stato non vincolati da obiettivi. Infine durante il medesimo Congresso venne riconosciuta la necessità di emancipare tutte le forze produttive ed accettare la presenza di entità economiche private, creando così una economia mista in cui ogni attore fosse responsabile di profitti e perdite. Il ruolo del Partito però non era messo in discussione, in quanto rimaneva la sola forza a condurre lo Stato e la società, nonché il principale fattore a determinare e vigilare su tutti i successi della costante rivoluzione vietnamita. Il Congresso registrava anche un ricambio politico e generazionale significativo, con il riformista Nguyen Van Linh che fu eletto Segretario generale del PCV in sostituzione di Trường Chinh, succeduto a Lê Duẩnnel luglio 1986. Anche il primo ministro Phạm Văn Đồnge e Lê Ðức Thọ lasciavano l’Ufficio politico del Comitato centrale del PCV.

Con l’introduzione del Doi Moi le riforme procedettero uniformemente: nel settore agricolo il sistema di responsabilità familiare si affiancò in breve alle cooperative e alle comuni agricole. Nell’industria, le imprese di stato furono liberate da alcuni vincoli del piano e riformate, l’impresa privata venne incoraggiata. La produzione industriale fu indirizzata verso la produzione leggera e i beni di consumo. Fu avviata una parziale liberalizzazione del commercio, ma questa cominciò a dare i suoi frutti solo dopo il ritiro vietnamita dalla Cambogia nel 1989 e il ristabilimento di rapporti diplomatici e commerciali con la Cina e i paesi occidentali. La politica di riforma e di rinnovamento dal 1987 sembrò coinvolgere anche la sfera politica. Fu concessa una libertà culturale e di espressione senza pari, la stampa divenne lo strumento di critica della burocrazia e ai contadini fu data una voce attraverso la creazione del Paesant Union, ovvero il sindacato contadino. Dei cambiamenti furono introdotti anche nella procedura di elezione dei candidati dell’Assemblea Nazionale. Insomma a partire dalla metà dagli anni ’80 il Vietnam sperimentava nuove forme di socialismo, in cui la dinamicità dei fattori in campo economico ed istituzionale veniva stimolata ed incoraggiata. Il Vietnam si stava velocemente aprendo al mondo, e negli anni a venire ne avrebbe colto i primi benefici.

Le tappe principali del processo di apertura dell’economia e della diplomazia del Vietnam si articolarono in diverse tappe. Il 5 novembre 1991 con la firma del cosiddetto Joint Communiqué on Normalization si avviò la ripresa delle relazioni diplomatiche tra Cina e Vietnam, ed ebbe inizio un nuovo clima di distensione e collaborazione nei rapporti tra i due stati ed i due partiti. Vennero qui richiamati elementi quali la volontà di cooperazione, nuovi obiettivi comuni e l’impegno a risolvere i problemi ai confini di terra e di mare pacificamente, attraverso negoziazioni. L’intesa del 1991 fu seguita da altri accordi, altrettanto fondamentali. Tra il febbraio-marzo del 1999 nel corso di un summit a Pechino tra Le Kha Phieu e Jiang Zemin furono adottate le sedici linee guida che avrebbero dovuto regolare le relazioni sino-vietnamite nel ventunesimo secolo. Ancora, il 30 dicembre 1999, durante la visita del premier Zhu Rongji ad Hanoi fu firmato il trattato sui confini terrestri. Nel dicembre del 2000 fu poi siglato il Joint Statement for Comprehensive Cooperation ed il Tonkin Gulf Agreement, nel 2002 l’Agreement on Conduct in South China Sea, tutti trattati bilaterali finalizzati a tradurre gli sforzi diplomatici precedenti in accordi commerciali e di partnership industriale tra le due nazioni.

D’altra parte, il fatto che negli anni ’80 il Vietnam non avesse ancora intessuto un livello di particolare collaborazione con gli altri paesi aderenti al Comecon, favorì l’avvicinamento del paese anche al mondo occidentale, coronato nel 1995 con l’ingresso di Hanoi nell’Associazione dei paesi dell’Asia sudorientale (Asean). Non va tuttavia dimenticato che se il Vietnam ha intessuto relazioni sulle due direttrici principali (Asean e mondo occidentale; Cina), dall’altro ha parallelamente coltivato singoli accordi bilaterali nella regione. I cospicui investimenti indiani, nel settore siderurgico e delle telecomunicazioni, hanno portato ad essere il Vietnam il principale recettore degli investimenti esteri nell’area dell’Asean. Altro esempio, l’interscambio con la Cambogia cresce di anno in anno a ritmi del +40%; a partire dal 2000, anche gli investimenti dal Giappone sono andati costantemente crescendo, tanto che oggi Tokyo rappresenta il quarto investitore per Hanoi. Altro tema interessantissimo, è il rapporto tra Vietnam e Laos. In conseguenza della normalizzazione dei rapporti tra i due paesi – avvenuta nel 2007 con un accordo sulla delimitazione delle frontiere – gli scambi commerciali si stanno annualmente intensificando, e da Hanoi hanno fornito il loro supporto per la creazione della Borsa di Vientiane, oltreché avere veicolato importanti investimenti in infrastrutture e in attività minerarie. Proprio come nel caso della Cina e della Cambogia, anche nei confronti del Laos, la normalizzazione dei rapporti diplomatici e la stabilizzazione delle controversie sui rispettivi confini ha svolto un ruolo propedeutico alla creazione di conseguenti canali commerciali. A fronte di tutto ciò, i risultati sono stati incoraggianti: la popolazione vietnamita sotto la soglia di povertà è oggi inferiore al 20% del totale, contro il preoccupante 58% del 1993. Il Pil è cresciuto in media del 7,8% nel quinquennio 2002-2006; il paese asiatico guadagna velocemente posizioni nelle classifiche dello sviluppo umano ed anche le zone rurali interne colgono i primi segni tangibili della crescita.

Con lungimiranza, il vecchio Ho Chi Minh aveva dichiarato che, dopo l’unificazione, al Vietnam moderno sarebbero rimaste da combattere altre due guerre, quella contro la povertà e quella contro l’analfabetismo. Oggi, anche queste due guerre paiono essere state fondamentalmente vinte, seppur rimangano problematiche irrisolte in diversi settori. Va riconosciuto che con l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), avvenuto nel 2007, il Vietnam ha certamente tratto enormi vantaggi dai processi di internazionalizzazione economica. L’adesione ha aperto le porte di numerosi mercati alle merci vietnamite, e garantito l’accesso a nuove tecnologie e investimenti, che sono stati ben accolti dal governo di Hanoi. È intenzione del Vietnam quella di proseguire sulla strada intrapresa, procedendo con altre liberalizzazioni settoriali nel commercio al dettaglio, aumentare la capitalizzazione della Borsa di Ho Chi Minh City e proseguire coerentemente nella lotta alla corruzione. Nei prossimi cinque anni, è realistico prevedere che il PIL del Vietnam aumenti del 7-8% annuo ed entro il 2015 il PIL potrebbe raggiungere un valore corrispondente a 200 miliardi di dollari. Entro il prossimo anno, il fatturato delle esportazioni raggiungerà 1.260 miliardi in dollari, ovvero il +40% rispetto al 2010.

Marco Costa

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