“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”: progetto di ricerca del Cesem.
3. BUDDHISMO E LAMAISMO, DALLA SPIRITUALITA’ ALLA TEOCRAZIA
Va riconosciuta, al di fuori di una facile ironia, indubbiamente una grande dote all’attuale XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, dote peraltro poco pertinente con le faccende spirituali ma di grande rilevanza politica. Quella di essere probabilmente uno degli uomini che in epoca postmoderna maggiormente padroneggia il marketing comunicativo, sapendo dispensare quella saggezza approssimativa, politicamente corretta e d’accatto che può essere piazzata come bene spirituale di largo consumo da somministrare alle masse occidentali, ormai orfane delle grandi religione monoteiste. Insomma il Dalai Lama può essere considerato un ottimo piazzista, un dispensatore di illusioni orientaleggianti che ha trovato il proprio core business nelle anime perse e disorientate dell’occidente materialista, quel surrogato new age alle religioni tradizionali che trova in ogni forma di esotismo metafisico uno sfogo a buon mercato alle proprie frustrazioni quotidiane. Fin qui, tuttavia, non ci sarebbe nulla di male, almeno se il fenomeno si limitasse a qualche citazione à la page nei salotti televisivi o nelle conferenze pubbliche, peraltro sempre lautamente retribuite. La questione di ben altro rilievo, che lo rende degno di attenzione da parte nostra, è che spesso l’affabulazione a sfondo spirituale valica i suoi confini, trasformandosi in truffa. Truffa anzitutto spirituale, quando costui confonde la nobile e variegata tradizione del buddhismo con la sua scuola di appartenenza – il lamaismo – compiendo una reductio ad unum a cui solo i meno informati possono non prestare attenzione. Ma soprattutto truffa politica, ergendosi ad icona delle libertà civili, a paladino dei diritti umani, a strenuo difensore della democrazia quando, nei fatti, il lamaismo si basa sul principio gerarchico della teocrazia e per oltre otto secoli si è retto sulla servitù della gleba, sulla schiavitù generalizzata dei tibetani, sullo sfruttamento sistematico delle fatiche dei contadini, relegati nella miseria a fronte delle indicibili ricchezze accumulate nei monasteri dei lama. Se il saggio Siddharta Gautama – il Buddha – quattro secoli prima di Cristo predicava l’ascetismo ed il distacco dai beni materiali, i lama nei loro secoli di tiranneggiamento sulla popolazione tibetana paiono essersi abbondantemente discostati dal messaggio del Maestro, erigendo imponenti statue in oro massiccio e dedicandosi spesso a ricche libagioni grazie alle indicibili fatiche dei contadini locali, su cui esercitavano la proprietà completa. Quello che ci preme, in definitiva, è la chiarificazione di un paio di aspetti. Buddhismo e lamaismo non sono sinonimi, essendo il secondo una delle tante (e spesso conflittuali) emanazioni storiche e clericali del primo. Inoltre, altrettanto importante è evidenziare che il Dalai Lama Tanzen Gyatso è rappresentativo di una cultura religiosa (essendone ancora formalmente a capo, pur dal suo opportunistico rifugio indiano quando non dalle sue tournée milionarie in occidente) che si basa sulla teocrazia, e che quindi non può coerentemente profferire parola a proposito di temi quali le libertà civili o la democrazia.
Ma andiamo con ordine, partendo dal primo punto. Non intendiamo certamente qui proporre una storia del buddhismo, neanche in sintesi. Ma per le esigenze del nostro tema dobbiamo rilevare che esso, nella sua lunga e nobile tradizione che oggi sembra conoscere una nuova fortuna anche in occidente, sia andato incontro a numerose modificazioni, trasformazioni, divisioni, giungendo anche assai lontano dalla sua impronta originaria. Il caso del lamaismo, ne costituisce probabilmente l’esempio più eclatante. Addirittura diversi studiosi hanno posto il lamaismo al di fuori della tradizione buddhista, interpretandolo come il frutto della commistione della dottrina del Risvegliato con la religione bon indigena, con tutto il suo corredo di credenze naturalistiche, magiche, superstiziose e sciamaniche. Occorre anzitutto fare chiarezza: il lamaismo non è sinonimo di buddhismo, ma costituisce semplicemente una derivazione indiretta. Esso è infatti solamente uno dei due rami di una delle tre correnti principali del buddhismo; al pari dello Zen, esso è una corrente del buddhismo vajrayana (detta anche Via dei Tantra), che si costituisce come la terza corrente del buddhismo (detta anche Veicolo del Diamante), quella meno diffusa (circa 20 milioni di seguaci), e che più si è allontanata dalle origini, insistendo proprio sui punti che il Buddha aveva maggiormente criticato quali il ritualismo, la mistica e la magia, la formazione di un clero organizzato. Questa correntesi è affermata verso il VI sec., diffondendosi prevalentemente in Mongolia e nel Tibet, e in maniera minore anche in Nepal, Cina e Giappone. All’interno del lamaismo, poi, esistono diverse scuole, che storicamente si sono spesso aspramente combattute tra di loro. Quella a cui appartiene l’attuale Dalai Lama – Tenzin Gyatso – è la scuola dei cosiddetti berretti gialli. Questo ordine, i Gelugpa, è conosciuto con il nome popolare di zaser, ovvero berretti gialli, a causa delle cuffie ed i paramenti indossati dagli adepti per distinguersi nelle cerimonie dalle scuole non riformate. Le basi teoriche del movimento risalgono all’XI secolo, ad Atisha ed alla rigorosa setta dei Kadampa, ma l’opera di riforma fu intrapresa da Tsong KhaPa, un mongolo di Kumbul, che nelle scritture è anche indicato come Je Rimpoche. Egli proveniva dalla setta dei Saskyapa, e scrisse e riassunse le proprie conoscenze nei sedici volumi che compongono la cosiddetta via graduale all’illuminazione. Verso il XIV secolo e con la fondazione di grandi monasteri nel Tibet centrale, questo ordine arrivò ad avere una posizione di egemonia e di predominio politico, che si concretizza nella fondazione della teocrazia di Lhasa. Quando nel 1578 il principe mongolo Altan Khan riconosce il titolo di Dalai al terzo capo dell’ordine, che fece poi risalire il titolo in modo retroattivo attribuendolo a tuttii i suoi predecessori. A metà del 17° secolo l’ordine gelugpa divenne la chiesa ufficiale del Tibet, compiendo così il passaggio definitivo alla teocrazia, ed il maestro della linea ereditaria divenne anche sovrano temporale ed assoluto del regno, governato per conto dell’Imperatore cinese. Quello che appare evidente, anche senza addentrarsi in complesse disamine teologiche, è il fatto che il lamaismo in particolare ma il varjayana più in generale si pone in palese contrasto con i caratteri originali del buddhismo, il quale non parlava minimamente di Dio o di Dei, ed ancor meno considerava il Buddha una divinità, rimanendo una filosofia o un’etica di vita, certamente a carattere spirituale, ma senza presentarsi coi canoni di una religione confessionale.
Questa appropriazione indebita non può essere capita se non si conosce almeno sommariamente complessità del buddhismo, e delle sue tre principali emanazioni. Questo perché intorno al I secolo d.C., il buddhismo si divise in tre tendenze fondamentali, ognuna delle quali, a sua volta, si suddivide in diverse decine di correnti. La corrente hinayana,anche detta piccolo veicolo (stretta via della salvezza), che richiede una rigorosa osservanza delle otto vie o otto nobili sentieri. I seguaci di questa corrente ritengono che solamente i monaci possono raggiungere il Nirvana. Non considerano Buddha un Dio, ma solo un maestro di perfezione morale. Si dedicarono alla predicazione, allo studio dei testi canonici, alla venerazione dei luoghi legati alla vita di Buddha, ecc. Questa corrente nega decisamente l’esistenza dell’atman (l’io individuale), e ritiene inutili i riti, le devozioni, i simboli e i sentimenti religiosi. Non è un caso che, in particolare riferendosi a questa corrente, molti pensatori abbiano parlato del buddhismo come di religione atea o quantomeno agnostica. Essa si è diffusa soprattutto in Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia, Sri Lanka e solo parzialmente in Cina. Poi vi è la corrente mahayana, anche detta del grande veicolo (larga via della salvezza), che ammette la salvezza e l’illuminazione anche al laico, in forme meno rigide. La scuola mahayana, che peraltro sostituì la lingua pali, usata dal piccolo veicolo, con il sanscrito, costituisce lo sviluppo in senso filosofico, mistico e gnostico del buddhismo. Essa riconosce diverse di divinità – sia pure in una accezione del tutto differente rispetto al concetto di divinità occidentale – fra le quali annovera lo stesso Buddha. Anzi, Siddartha Gautama non sarebbe che uno dei Buddha: ne esisterebbero altre centinaia (sovrani del paradiso, del futuro, del mondo ecc.). Concezione, questa, che permetterà al buddhismo di assimilare facilmente altre religioni, dando vita a differenti forme sincretiche. Oltre ai Buddha vi sarebbero i santi, cioè coloro che, pur avendo acquistato il diritto d’immergersi nel Nirvana, hanno scelto di restare ancora sulla terra per salvare gli uomini. I mahayanisti, a differenza degli hinayanisti, credono anche negli spiriti maligni e in altri esseri soprannaturali, nonché nella differenza tra paradiso e inferno, e negano l’esistenza dei dharma come entità a se stanti. Nel paradiso si trovano le anime dei giusti (anche laici) che devono incarnarsi ancora una volta sulla terra prima di raggiungere il Nirvana. Questa corrente, che anch’essa ha ben poco a che fare con il buddhismo originario, si è diffusa tra il II e il X secolo nell’Asia centrale, nel Tibet, in Cina, Vietnam, Corea e Giappone, Mongolia e Nepal, ed in modo minore in Birmania, Indonesia e India settentrionale.
Poi vi è il vajrayana (via dei Tantra), che costituisce la terza corrente del buddhismo, detta anche veicolo del diamante, quella meno diffusa con circa 20 milioni di seguaci, e che più si è allontanata dalle origini, insistendo proprio sui punti che il Buddha aveva maggiormente criticato: il ritualismo, la mistica, la magia, l’organizzazione in un clero confessionale, e si è affermata verso il VI secolo diffondendosi prevalentemente in Mongolia e nel Tibet, ma anche in Nepal, Cina e Giappone. Questa corrente, senza la scuola mahayana, difficilmente avrebbe potuto costituirsi, ed anzi diversi studiosi la considerano una emanazione diretta della prima; i suoi due rami principali sono il lamaismo e lo zen. Queste correnti esoteriche (chiamate anche col nome di veicolo delle formule magiche o mantrayana), attribuiscono particolare importanza alla ripetizione sistematica di formule sacre (i mantra) per raggiungere l’illuminazione. Nel Tibet questa corrente, nata verso il 750, assunse il nome di lamaismo – proprio per enfatizzare il ruolo della casta dei monaci – diffondendosi anche in Mongolia e Siberia. È l’unica corrente strutturata in maniera gerarchica.
Lhasa, la capitale, è considerata “città sacra”. Costituendosi come prodotto di una fusione di buddhismo e religioni animistiche e sciamaniche, il lamaismo conferisce notevole importanza agli scongiuri magici, alla conoscenza mistica e alla musica, con l’aiuto dei quali esso è convinto di poter raggiungere il Nirvana in tempi molto brevi. Molto influenti sono stati i monaci, chiamati lama, che riuscirono a costituire un governo ierocratico: nominalmente il potere civile apparteneva agli imperatori cinesi, ma di fatto erano i monaci a comandare e i loro dirigenti venivano scelti tra le famiglie feudali più influenti; quando il Dalai Lama muore, secondo tale impostazione, si pensa ch’egli s’incarni immediatamente in qualche altra parte del paese. Allora una ricerca minuziosa viene condotta tra tutti i neonati maschi che rivelino alcuni segni particolari negli occhi o nelle orecchie o nella pelle. I loro nomi vengono introdotti in un’urna d’oro e poi ne viene estratto uno a sorte. Da quel momento il prescelto viene educato dai sacerdoti, conduce un’esistenza privilegiata e dovendosi astenere da qualunque forma di impurità. L’attuale Dalai Lama (XIV incarnazione) è stato insediato nel 1940 con tale procedura. Riepilogando, l’attuale Dalai Lama rappresenta semplicemente il vertice di una scuola, i gelugpa, i quali hanno assunto la predominanza all’interno del lamaismo. A sua volta il lamaismo (al pari della tradizione zen), è una delle due correnti che compongono una delle tre vie principali del buddhismo contemporaneo, la corrente varjayana. Risulta pertanto incontrovertibile il fatto che il lamaismo costituisca solamente una confessione – peraltro assai minoritaria – all’interno dell’ampio e variegato universo filosofico-spirituale del buddhismo.
Veniamo ora al secondo punto, ovvero alla questione del lamaismo politico e alla sua impostazione teocratica. Se infatti solitamente il buddhismo viene considerato come una disciplina spirituale, meditativa e priva di una teologia nel senso stretto del termine, in grado di offrire tecniche psicologiche o psicoterapeutiche atte a favorire l’illuminazione e l’armonia interiore, nel lamaismo la componente politico-temporale è inscindibile da quella religiosa. La storia del Tibet fino all’anno 1959, attesta che il lamaismo reale è assai differente da quel buddhismo idealizzato che spesso viene rappresentato in occidente. I media occidentali, corredati da numerosi libri di viaggi, romanzi, film hollywoodiani, hanno dipinto la teocrazia tibetana come un paradiso perduto, uno Shangri-La fondato sulla saggezza e sull’armonia, un mondo immaginifico teso in orizzonte spirituale, scevro da stili di vita egoistici, libero dal vuoto materialismo, da inutili ricerche e dai vizi corrotti che assediano la società moderna industrializzata. Lo stesso Dalai Lama ha dato adito a tali immagini idealizzate e distorte sul Tibet lamaista, mediante affermazioni quali: “La civiltà tibetana ha una ricca e lunga storia. L’influenza persuasiva del buddismo e le asperità di una vita fra gli ampi spazi aperti di un ambiente incorrotto, ha avuto come risultato una società dedicata alla pace e all’armonia. Provavamo diletto nella libertà e nella contentezza, nell’essere paghi”. Nulla di più falso, almeno secondo quanto testimonia la storia. A parte il fatto che nel XIII secolo fu l’imperatore Kublai Khan a creare la figura di Grande Lama, che avrebbe dovuto presiedere tutti gli altri lama secondo uno schema gerarchico di tipo verticistico e feudale, diversi secoli dopo sarebbe stato l’imperatore della Cina a spedire un esercito in Tibet per dare man forte militare al Grande Lama, un ambizioso venticinquenne che si autoproclamò Dalai (Oceano) Lama, signore padrone di tutto il Tibet. Quindi, al di là delle strumentalizzazioni postume, il primo Dalai Lama fu investito della propria carica da un esercito cinese. E per affermare la sua autorità nella sfera temporale, il primo Dalai Lama confiscò monasteri che non appartenevano alla sua setta, e pensò bene di distruggere alcuni scritti buddisti incompatibili con la sua pretesa di divinità. Il suo degno successore, si abbandonò invece ai piaceri terreni più sfrenati, avendo molte concubine, organizzando continue feste, dedicandosi al componimenti di poesie erotiche eccetera. Non è un caso che la biografia di questo Dalai Lama venne in seguito oscurata. Fatto sta che, secondo una tradizione per nulla pacifista, in meno di due secoli ben cinque Dalai Lama vennero assassinati dai loro gran sacerdoti o da loro altri cortigiani, senza contare gli episodi di quotidiana violenza tra gli esponenti delle varie scuole del lamaismo.
Risulta interessante anche descrivere l’organizzazione sociale ed economica del Tibet lamaista. Fino al 1959, anno di fuga volontaria del Dalai Lama, tutta la terra coltivabile era ancora organizzata secondo il modello delle proprietà feudali del clero, lavorate dai servi della gleba. Basta leggere la testimonianza dello scrittore Pradyumna Karan, non certamente filo-maoista, il quale riconobbe che “una grande quantità di proprietà apparteneva ai monasteri, la maggioranza di essi accumulava notevoli ricchezze. Inoltre, monaci e Lama riuscirono ad ammassare individualmente notevoli ricchezze tramite la partecipazione attiva negli affari, nel commercio e nell’usura”. Ad esempio il monastero di Drepung era una delle maggiori proprietà dei monaci, suddivisa in 185 feudi, 25.000 servi della gleba, 300 grandi pascoli e 16.000 guardiani di gregge. I frutti dell’agricoltura e la ricchezza dei monasteri andavano ai lama principali, che sostanzialmente componevano un’aristocrazia su basi religiose. Ovviamente, al fine di prevenire possibili sollevazioni non ci affidava alle leggi del karma, ma ad un esercito professionale che era al servizio esclusivo dei proprietari terrieri con l’incarico di mantenere l’ordine e catturare i servi della gleba fuggitivi. Se vi era un esiguo numero di agricoltori il cui status sociale era di contadino libero che componevano quella classe media insieme a famiglie di mercanti, bottegai e piccoli commercianti, innumerevoli erano i mendicanti ridotti ad una vita inumana. Poi vi era anche un certo numero di schiavi che non possedevano nulla, e la cui prole nasceva già in condizioni di schiavitù. Secondo una statistica del 1953, la maggioranza della popolazione rurale – circa 700.000 su una popolazione totale stimata 1.250.000 – era composta da servi della gleba. Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella fondiaria per poter coltivare il cibo atto al sostentamento. I servi della gleba e il resto dei contadini non conoscevano alcun tipo di istruzione e di cure mediche; basti pensare che nel 1951, l’aspettativa di vita in Tibet era di appena 35 anni. Trascorrevano la maggioranza del loro tempo faticando per i monasteri e per i singoli lama di alto rango, e per un’aristocrazia secolare, laica, che non contava più di 200 famiglie. Essi erano in effetti proprietà dei loro signori, che gli comandavano quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare. Non si potevano sposare senza il consenso del loro signore o lama. I servi potevano essere venduti dai loro padroni, o sottoposti a tortura e morte, in maniera del tutto discrezionale.
Il sistema tributario applicato dai lama era tanto assurdo quanto paradossalmente rappresentativo dell’impostazione classista della società. Infatti i contadini, oltre al lavoro nelle terre, erano obbligati alle corvée, ovvero a prestare lavoro forzato non retribuito in favore del padrone, e vessati con il sistema delle decime onerose. Ogni aspetto della vita era segnato dall’imposizione di tributi, che venivano riscossi dai vari monasteri di competenza: il matrimonio, la nascita di ogni figlio, un funerale. Venivano poi applicate tasse straordinarie in occasione delle le festività religiose, o in modo del tutto surreale per cantare, ballare, far rullare il tamburo e suonare il campanello. La gente veniva tassata anche se veniva mandata in prigione e quando veniva rilasciata. Addirittura i mendicanti erano soggetti al versamento di tributi. Quelli che non riuscivano a trovare lavoro erano tassati a causa della loro disoccupazione, e se si spostavano in un altro villaggio nella loro ricerca di un’occupazione, pagavano una gabella di transito. I monaci erano soliti praticare l’usura; se la gente comune non poteva pagare, i monasteri prestavano loro denaro ad un interesse oscillante fra il 20% e il 50%. I debiti contratti, venivano tramandati di padre in figlio sino al nipote: se un debitore non poteva appianare i suoi debiti (o quelli ereditati), poteva sempre commutare il suo debito con un dato periodo di schiavitù stabilito dal monastero, a volte per il resto della sua vita. Fatto per certi versi ancora più inquietante, era il pretesto religioso e psicologico architettato per giustificare tale tirannia. Si inculcava ai poveri e ai servi della gleba che la causa della loro miseria era derivato dal loro stesso comportamento irreligioso o immorale durante gli anni della loro vita o a quello tenuto nel corso delle vite precedenti. I servi non avrebbero potuto – secondo questo aberrante ragionamento – che accettare la loro misera condizione e considerarla come un’espiazione. Per converso, i monaci ed i ricchi giustificavano la loro buona sorte come una ricompensa e una conferma meritata di virtù nelle vite passate e presenti.
Ci sono molte interessanti testimonianze in proposito; ad esempio il medico A. Waddell, dopo la sua visita in Tibet del 1895, riportò che “i tibetani erano assoggettati all’intollerabile tirannia dei monaci e alle superstizioni diaboliche che essi avevano modellato al fine di terrorizzare le persone”. Perceval Landon, altro viaggiatore inglese, nel 1904 affermò che il sistema tibetano era “una macchina da sopraffazione e un ostacolo ad ogni progresso umano”. Dello stesso tono un’altra testimonianza, del capitano W. O’Connor: “I grandi proprietari terrieri e i sacerdoti esercitano ciascuno all’interno del proprio dominio un potere dispotico dal quale non c’è appello, mentre il popolo è oppresso dalla più mostruosa crescita di monachesimo e clericalismo che il mondo abbia mai visto. […] I governatori tibetani, come quelli europei durante il medioevo, forgiarono innumerevoli armi per asservire il popolo, inventarono leggende umilianti e stimolarono uno spirito di superstizione fra la gente comune”. Qualche anno più tardi, nel 1937, Spencer Chapman riportò: “Il monaco buddista tibetano non trascorre il proprio tempo provvedendo alle persone o ad istruirle, e nemmeno i laici prendono parte ai servizi dei monasteri o li frequentano. Il mendicante sul ciglio della strada non è nulla per il monaco. La conoscenza è una prerogativa dei monasteri custodita gelosamente, ed è strumentalizzata per aumentare la loro influenza e ricchezza”.
L’obiettivo del processo di riforme avviato a partire dal 1951 nella regione tibetana da parte del nuovo governo comunista di Pechino, ebbe come obiettivo essenziale quello di scardinare quel modello sociale fondato su un ormai anacronistico feudalesimo a sfondo teocratico. Tra le prime riforme, ci fu quella che riduceva i tassi d’interesse da usuraio, e si iniziarono a costruire le prime infrastrutture come ospedali, scuole e strade. Mao e l’Esercito di Liberazione, tuttavia, intrapresero il cammino verso la trasformazione socialista con molte cautele, rendendosi perfettamente conto della situazione di pesante arretratezza vigente. L’antropologo americano Melvyn Goldstein, che assunse in seguito posizioni anticinesi fino a solidarizzare con il Dalai Lama, ammetteva tuttavia che “contrariamente all’opinione corrente in Occidente, i cinesi perseguivano una politica moderata. Avevano cura di mostrare rispetto per la cultura e la religione tibetane e permettevano ai vecchi sistemi monastico e feudali di continuare immutati. Fra il 1951 e il 1959, non solo non venne confiscata alcuna proprietà aristocratica o monastica, ma venne permesso ai signori feudali di esercitare una continua autorità giudiziaria nei confronti dei contadini a loro vincolati ereditariamente”. Come abbiamo avuto modo di vedere, ancora nel 1957, Mao Zedong cercò di assecondare le richieste tibetane, riducendo il numero di quadri cinesi e delle truppe in Tibet, e promise al Dalai Lama che la Cina non avrebbe portato a termine riforme terriere in Tibet per i sei anni successivi e oltre, se le condizioni non fossero ancora maturate. Nonostante ciò, almeno per gran parte dei lama, quello che risultava intollerabile e non mediabile era la messa in discussione del loro ruolo politico ed economico, ovvero la messa in discussione del sistema di sfruttamento di cui avevano beneficiato per secoli. La questione etnica, ovvero il fatto che fossero cinesi di altre etnie, c’entrava solo marginalmente. Infatti, da secoli ormai i cinesi avevano rapporti e sovranità sulla regione tibetana; ancora avevano mantenuto buone relazioni con il Chang Kai Shek e il regime reazionario del Kuomintang in Cina. Basta ricordare che quando il giovane Dalai Lama fu investito della sua carica a Lhasa, ciò avvenne con un scorta armata di truppe di Chiang Kai Shek e di un ministro cinese in carica, in conformità con una tradizione secolare. Il problema non era dato dal fatto che fossero cinesi; nemmeno poteva essere una questione culturale o religiosa; i lama erano terrorizzati dalla messa in discussione delle loro ricchezze e dei loro privilegi. A riprova di ciò, si pone il fatto che non fu il popolo dei contadini tibetani ad osteggiare Mao e l’esercito rosso, dai cui si aspettavano il celere avvio del processo di ridistribuzione delle terre. Come ebbe a commentare lo storico Hugh Deane, “molti lama e molti membri laici dell’élite e molti dell’esercito del Tibet hanno sostenuto la rivolta, ma la maggioranza della popolazione non l’ha fatto e questo ha sancito il suo fallimento”. Altri due storici convergono con questa tesi, Ginsburg e Mathos, che nel loro libro aggiungono: “Gli insorti del Tibet non sono mai riusciti a raccogliere nei loro ranghi anche solo una consistente parte della popolazione, per non dire niente della maggioranza di essa. Per quanto può essere constatato, la gran parte della popolazione di Lhasa e della campagna contigua, non aderirono nonostante il tentativo di unirle nella lotta contro il cinese”.
Una delle testimonianze più efficaci – e per certi versi riassuntive – dei cambiamenti reali approntati dopo il 1959 dal nuovo governo di Pechino nella ragione, è stata proposta dal saggista Pradyumna P. Karan nel suo volume Changing Face of Tibet: Impact of Chinese Communist Ideology on the Landscape, del 1966: “Dal 1961 centinaia di migliaia di acri precedentemente posseduti dai signori e dai Lama furono distribuiti agli affittuarii ed ai contadini senza terra. Nelle zone pastorali, le greggi che erano state possedute una volta dai nobili furono date alle comuni dei poveri e dei pastori. Miglioramenti ed investimenti furono apportati nell’allevamento del bestiame e per le nuove coltivazioni di verdure e di frumento e orzo, che furono introdotti per la prima volta; fu pianificato il sistema di irrigazione, che hanno portato ad un notevole incremento della produzione contadina. […] Molti rimasero religiosi come sempre, e liberi di dare le elemosine al clero. Ma la gente non fu più costretta a omaggiare o fare regali obbligati ai monasteri ed ai signori. I molti monaci che erano stati costretti negli ordini religiosi da bambini senza poter scegliere ora erano liberi di rinunciare alla vita monastica e così migliaia di essi, particolarmente quelli più giovani, tornarono alla vita civile. Il clero restante può vivere contando su minimi stipendi governativi ed un reddito supplementare guadagnato officiando ai servizi di nozze ed ai funerali”.
Così come risulta essere fondamentale richiamare un’ultima testimonianza; per converso, infatti, il modello teocratico-feudale applicato dal lamaismo incontrò i favori dello scrittore nazista austriaco – già membro delle SA nel 1933 e poi membro delle SS nel 1938 – Heinrich Harrer, il quale visitò il Tibet a metà degli anni ’40 Harrer fino al marzo del 1951; rientrato in patria, pubblicò le sue memorie su questo periodo in un libro, Sette anni nel Tibet, uscito nel 1953. Nelle sue pagine, Harrer descrive minuziosamente il sistema del lamaismo, dal quale risulta essere affascinato per i suoi aspetti autoritari ed assolutisti. Egli così si espresse: “La supremazia dell’ordine monastico nel Tibet è assoluta, e si può confrontare solo con una severa dittatura. I monaci diffidano di ogni influsso che possa mettere in pericolo la loro dominazione. Ad essere punito non è soltanto chi agisce contro il potere ma anche chiunque lo metta in dubbio. Harrer poi prosegue, riportando la condizione lavorativa dei servi, di cui le fatiche erano tanto inumane quanto segnate da pratiche superstiziose: “Circa venti uomini erano legati alla cintura da una corda e trascinavano un immenso tronco, cantando in coro le loro lente nenie e avanzando di pari passo. Ansanti e in un bagno di sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato, perché il capofila non lo permetteva. Questo lavoro massacrante rappresenta una parte delle loro tasse, un tributo da sistema feudale. Sarebbe stato facile far ricorso alla ruota, ma il governo non voleva la ruota”. Lo stesso condensato di assolutismo e superstizione che riguardava le cerimonie religiose, come in occasione di una processione a cui presenziava il Dalai Lama attuale, allora appena bambino: “Le porte della cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama. Devota la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale religioso esigerebbe che la gente si gettasse per terra, ma era impossibile farlo a causa della mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece la schiena, come un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava alzare gli occhi. Lento e compassato il Dalai Lama iniziò il suo giro intorno al Barkhor. Le donne non osavano respirare”. Una volta passato il Dalai Lama, la folla reagì “come ridestata da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò dall’ordine al caos. I monaci-soldato entrarono subito in azione. All’impazzata facevano mulinare i loro bastoni sulla folla, ma nonostante la gragnuola di colpi, i battuti ritornavano come fossero posseduti da demoni. […] Adesso accettavano colpi e frustate come una benedizione. Fiaccole di pece fumosa cadevano sulle loro teste, urla di dolore, qui un volto bruciato, là i gemiti di un calpestato”. La violenza generalizzata a cui ricorrevano i lama o i loro preposti al fine di soggiogare la popolazione era particolarmente efferata nel sistema di punizioni, secondo un modello di giustizia discrezionale, brutale e sommaria. Prosegue Harrer: “Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato, ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio. […] I monaci sono a tale riguardo inesorabili e molto temuti, perché più di una volta è avvenuto che qualcuno sia morto sotto la rigorosa flagellazione, la pena usuale”. Harrer, probabilmente riscontrando similitudini o addirittura un modello di organizzazione sociale a cui il nazismo avrebbe potuto ispirarsi, ricorda infine con inquietante nostalgia degli anni vissuti a fianco del Dalai Lama, di cui divenne tutore: “ricordiamo quei giorni felici che trascorremmo assieme in un paese felice”.
Questo era il Tibet lamaista, un Tibet oscurantista fortunatamente riposto per sempre nel dimenticatoio della storia.
Marco Costa
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