LA LIBERAZIONE DEL TIBET (seconda parte)

31 mins read
Start

“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”: progetto di ricerca del Cesem.

 

2. LA REGIONE AUTONOMA DEL TIBET NELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE

Con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, la questione tibetana assume nuove implicazioni.La liberazione del popolo tibetano dalle catene della schiavitù feudale, la partecipazione della minoranza nazionale tibetana nel pieno rispetto dei suoi costumi e tradizioni allo sviluppo della società socialista nella Cina di Mao, poteva essere un fatto compiuto in breve tempo; all’Esercito Popolare sarebbero bastati pochi giorni nel 1950 per spazzare via dal potere il governo teocratico-feudale tibetano e il pugno di nobili e ecclesiastici che opprimevano la popolazione, quella parte cioè dei circa 60 mila componenti la classe superiore che sfruttava i restanti 1,2 milioni di tibetani tenuti in condizioni di schiavitù manifesta. Come bastava un semplice ordine affinché il Dalai Lama fosse arrestato nel suo palazzo, il Norbou Linka, per impedirne la fuga in India. Il nuovo governo popolare centrale poteva prendere sotto il suo controllo non solo le questioni di politica estera e non lasciare intatto il sistema politico e sociale, l’esercito e la moneta, in attesa che il governo locale e il popolo tibetano decidessero da soli i tempi e i modi delle riforme. Tutto ciò non avvenne. L’Esercito Popolare non si è comportatò in Tibet come un esercito occupante, ma scelse di rimanere autosufficiente e autonomo per non pesare sulla popolazione; non represse o arrestò gli elementi conservatori (che avevano collaborato con le potenze straniere imperialiste), che pure dal 1951 al 1959 avevano organizzato bande armate e compiuto violenze in varie parti della regione, lasciando il compito al governo locale nonostante che nella sua maggioranza fosse il centro interno della controrivoluzione; non attaccò mai le forze locali ostili, ma solo reagito una volta aggredito nella insurrezione controrivoluzionaria del 1959. Il governo centrale aveva infatti sottoscritto e mantenuto accordi affinché la trasformazione politica ed economica del Tibet avvenisse gradualmente e soprattutto col pieno consenso e la cooperazione degli strati superiori del clero tibetano. L’accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet sottoscritto dal governo centrale e quello locale il 23 maggio 1951 tracciava questa linea. Nelle parti riguardanti la riorganizzazione dell’esercito e le riforme ancora nel 1959, dopo otto anni, era al punto di partenza per il boicottaggio dei separatisti tibetani, eppure il governo popolare centrale aveva concesso altri anni di tempo affinché maturassero le condizioni per una sua piena applicazione. Ciò rispondeva alla lungimirante e corretta politica del governo popolare centrale, della Cina socialista guidata da Mao, verso le minoranze nazionali, applicata alla specifica situazione del Tibet, per far sì che il popolo tibetano e la regione autonoma del Tibet occupassero degnamente il loro posto nella Repubblica Popolare, secondo tutte le tutele previste per le minoranze nazionali. La storia della liberazione pacifica del Tibet parla da sola. Va ricordato che dal XIII secolo almeno, gli avvicendamenti e la sovrapposizione tra potere religioso e potere temporale nel Tibet ricalcavano ancora i medesimi schemi. La struttura politica e religiosa del Tibet fu determinata gradualmente dai successivi governi imperiali. Nel 1275 l’imperatore Kubilai Khan (dinastia Yuan) conferì al capo della setta buddhista di Sakyapa il titolo di referente per l’impero unificando il potere temporale e spirituale nella figura del Dalai Lama. Alle successive cerimonie di investitura dei nuovi Dalai, compreso l’ultimo il XIV, saranno sempre presenti inviati del governo centrale. I cambiamenti delle dinastie reggenti in Cina non portano modifiche alla struttura di potere tibetana. La nuova dinastia imperiale dei Qing, conferma il potere del Dalai nel 1653. Il governo locale (kacha) era definito come compiti, struttura e funzioni come organo amministrativo, composto da 4 kaloons, dignitari d’alto rango inferiori solo al reggente che rispondeva al Dalai Lama. La struttura sociale di tipo feudale che vedeva sul gradino più alto poche centinaia di famiglie di nobili, gli alti ecclesiasti e i membri del governo possedere tutte le ricchezze della regione si manterrà sostanzialmente fino al 1959. Abbiamo visto che con il declino della dinastia Qing, la storia cinese è segnata dalle aggressioni colonialiste, ivi compresi i territori del Tibet che sono invasi temporaneamente dagli imperialisti britannici a partire dal 1886. Le truppe inglesi si scontrano con una dura resistenza del popolo tibetano. Una seconda invasione inglese si ha nel 1904. Il popolo tibetano sconfitto sul piano militare proseguiva l’opposizione tanto che gli inglesi non poterono annettere la regione alle loro colonie. Cercarono così di provocare la disgregazione interna del Tibet appoggiandosi su un pugno di Lama collaborazionisti della classe superiore che rivendicavano la fine dell’unità con l’impero cinese per staccare il Tibet dalla Cina e portarlo sotto il controllo dell’imperialismo inglese. Una prima occasione capitò con la rivoluzione repubblicana in Cina nel 1911 contro la dinastia mancese. I gruppi di reazionari tibetani scatenarono una rivolta contro il residente imperiale a Lhasa ma anche contro i tibetani fedeli a Pechino; molti di loro furono assassinati, il IX Pantchen Erdeni fu costretto a fuggire dal Tibet per evitare l’assassinio. Gli inglesi convocarono la conferenza di Simla, nel 1913, tra Cina, Gran Bretagna e Tibet con lo scopo di definire un accordo per inglobare il Tibet (almeno economicamente, se non geograficamente) nella loro colonia indiana. L’opposizione del popolo tibetano costrinse la delegazione cinese a non firmare l’accordo. Anche un secondo tentativo inglese nel 1918 fallì. Alla morte del XIII Dalai (1933), in attesa del nuovo, la gestione dell’amministrazione degli affari tibetani spettò al reggente Rabchen, interprete dei sentimenti patriottici della popolazione ecclesiastica e laica del tibet che si opponeva alle mire separatiste e filo colonialiste dei gruppi conservatori tibetani. Rabchen appoggiò anche la guerra contro gli invasori giapponesi condotta dalle forze comuniste dirette da Mao. Il successore del Dalai, l’attuale XIV°, fu trovato dal governo locale nel 1938 e insediato nel palazzo di Potala a Lhasa il 22 febbraio 1940 con una cerimonia a cui parteciparono come sempre inviati del governo centrale, allora del Kuomintang. Ma i gruppi separatisti ed opportunisti tibetani tornarono all’attacco nel 1947; finita la vittoriosa guerra contro l’occupazione giapponese infuriava in Cina lo scontro tra l’Esercito Popolare guidato da Mao e le truppe nazionaliste (nazionaliste solo nominalmente) del Kuomintang, sostenute dall’imperialismo americano, che in Asia era affiancato dagli imperialisti britannici, francesi e olandesi per reprimere movimenti indipendentisti nelle colonie e per contenere l’avanzata del comunismo. Già nel 1943 il governo locale del Tibet aveva annunciato la costituzione di un proprio ufficio per gli affari esteri. Nel 1947 un gruppo di reazionari tibetani organizzarono un complotto, arrestarono il reggente Rabchen (assassinato in carcere) e diversi patrioti fra cui il padre del Dalai Lama, e presero il potere manifestando l’intenzione di separare il Tibet dalla Cina e trasformarlo in una colonia straniera, secondo la stravagante teoria esposta dagli inglesi della necessità di creare uno stato cuscinetto tra India e Cina. Gli inglesi convocheranno nel marzo 1947 una conferenza asiatica a Nuova Delhi alla quale il Tibet fu invitato come paese indipendente. A fianco delle ingerenze inglesi sul Tibet si schierarono gli USA che nel mese di ottobre del 1947 invitarono nel loro paese una fantomatica missione commerciale tibetana. La missione arriverà negli USA nel luglio 1948. La città indiana di Kalimpong diventava il centro esterno da cui basare l’aggressione imperialista al Tibet. Nel luglio 1949 a fronte della disfatta ormai sicura delle forze del Kuomintang, il governo locale del Tibet invita gli stessi rappresentanti del Kuomintang a lasciare Lhasa, per prevenire l’infiltrazione comunista in Tibet. Nell’agosto del 1949 sulla stampa americana appaiono articoli che difendono la separazione del Tibet dalla Cina, il suo ingresso alle Nazioni Unite, e chiedono al governo di aiutare militarmente il governo locale del Tibet. Gli imperialisti americani e inglesi, vista fallita l’operazione di sostegno al Kuomintang, cercano di sottrarre alla nuova Cina socialista perlomeno il Tibet. Ma falliranno, come la storia avrebbe inappellabilmente sancito.

(Le firme apposte dalle autorità rivoluzionarie e dal Dalai Lama sull'accordo dei 17 punti)
(Le firme apposte dalle autorità rivoluzionarie e dal Dalai Lama sull’accordo dei 17 punti)

Infatti, il primo ottobre 1949 Mao proclamava la nascita della Repubblica Popolare Cinese; tutta la Cina veniva liberata ad eccezione del Tibet e di Taiwan, che rimasero temporaneamente fuori dal controllo dell’Esercito di Liberazione. Il 24 novembre 1949 da Pechino il Panchen Erdeni lanciò un appello per la liberazione del Tibet. Nel frattempo, il ministero degli esteri cinese denunciava le manovre imperialiste contro il Tibet già il 20 gennaio 1950. Il governo cinese confermava la volontà di una liberazione pacifica del Tibet e nel luglio inviò in Tibet il Buddha vivente Garda, un patriota tibetano vicepresidente del governo popolare provinciale del Sikang (la zona confinante col Tibet), a prendere contatto col governo locale e negoziare la liberazione pacifica della regione. Al suo arrivo a Tchamdo venne bloccato dai separatisti illegittimi tibetani organizzati da un agente britannico (Robert Webster Ford) che il 21 agosto lo farà arrestare e assassinare. Il governo popolare centrale diede perciò l’ordine all’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) di entrare in Tibet, e ribadire la secolare sovranità cinese sui territori. Gli illegittimi rappresentanti del governo locale tibetano ordinarono la resistenza a Tchamdo; il 19 ottobre 1950 l’EPL liberava Tchamdo, e il 1° novembre 1950 il segretario di stato americano Acheson dichiarava la fantomatica aggressione cinese al Tibet, annunciando pesanti conseguenze. Anche il governo indiano – con un clamoroso voltafaccia visti i trattati esistenti – denunciava l’invasione del Tibet da parte della Cina. Perciò i lamaisti tibetani (ma sarebbe meglio dire la parte del clero lamaista che spodestò il Panchen legittimo) guidati dal reggente Tagcha portarono il Dalai a Yatung, da dove contavano di spostarlo in India. Ma i tre principali monasteri e le masse popolari tibetane si opposero, e anche diversi consiglieri del Dalai disapprovano la fuga verso l’India e insistettero per aprire negoziati col governo popolare centrale. Nella primavera del 1951 Tagcha è costretto a dimettersi e il Dalai nomina 5 plenipotenziari incaricati di condurre per conto del governo locale i negoziati con il governo popolare centrale. Falliscono così le manovre imperialiste per staccare il Tibet dalla Cina.Insomma un biennio, quello del 49-51, in cui la naturale riconduzione del Tibet alla madrepatria cinese fu particolarmente osteggiato, sia per interessi opportunistici di parte del clero lamaista, sia da parte delle potenze colonialiste al fine di ostacolare l’ascesa del movimento di liberazione cinese.Tuttavia, i negoziati sotto la condotta diretta del CC del PCC e di Mao si conclusero il 23 maggio 1951 con la firma dell’Accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet. In seguito alla firma dell’accordo il Dalai lasciava Yatung e fece ritorno a Lhasa il 17 agosto 1951, dove il 26 ottobre l’Esercito Popolare entrava in maniera trionfale, acclamato calorosamente dalla popolazione locale. Parte del clero lamaista, al fine di sabotare l’accordo, dette vita a una autoproclamata assemblea popolare per chiedere il ritiro dell’EPL dal Tibet, e circondarono il comando rivoluzionario a Lhasa lanciando attacchi armati contro patrioti tibetani. Il 27 aprile 1952 il governo locale allontanò dalle loro funzioni gli animatori dell’assemblea e ne ordinò il 1° maggio lo scioglimento. L’atteggiamento della Cina di Mao come si comprende dall’accordo in 17 punti fu di estremo rispetto delle specificità locali della situazione tibetana, in quanto non venne toccata l’organizzazione del governo regionale né la struttura sociale, vengono rispettate le credenze religiose, le usanze e i costumi locali, qualsiasi riforma è subordinata all’accettazione del governo locale. Da parte sua l’Esercito Popolare, secondo le direttive di non pesare nemmeno per uno spillo sulle spalle della popolazione tibetana, si auto-organizza. In una direttiva interna del CC del PCC sul lavoro nel Tibet del 6 aprile 1952 si afferma: “Dobbiamo fare ogni sforzo e usare metodi appropriati per conquistare il Dalai e la maggioranza dei suoi strati superiori, isolare la minoranza dei cattivi elementi e arrivare in molti anni, gradualmente e senza spargimento di sangue, alla trasformazione politica ed economica del Xizang (Tibet). Se le cose andranno per le lunghe non ne avremo grandi danni, al contrario, ne trarremo dei vantaggi. Lasciamo che essi commettano ogni genere di atrocità insensate contro il popolo, noi ci occuperemo solo della produzione, del commercio, della costruzione di strade, della medicina e del fronte unito (unità con la maggioranza e educazione paziente) e di altre cose buone, con lo scopo di conquistare le masse e aspettare che maturi la situazione per trattare di nuovo il problema dell’applicazione dell’accordo. Se essi trovano che istituire le scuole elementari non sia conveniente possiamo anche smettere di farle”.

Il governo popolare centrale promuove lo sviluppo del Tibet con la costruzione di strade, ponti, ospedali, scuole, fabbriche e fattorie. Risolve le questioni della frontiera con l’India che aveva ancora sul territorio della regione installazioni postali e telegrafiche installate durante l’aggressione inglese del 1904; il trattato firmato il 29 aprile 1954, basato sui cinque principi della coesistenza pacifica, riguarda il commercio e le comunicazioni fra la regione del Tibet e la Cina e l’India. Peraltro, con questo accordo anche l’India di Nehru riconosce (anzi riconferma) la sovranità cinese sul Tibet. Il Dalai partecipa con la delegazione tibetana nel settembre 1954 alla prima Assemblea popolare nazionale cinese che si tiene a Pechino. In coerenza con ciò, il 9 marzo 1955 il governo popolare centrale approva la costituzione della regione autonoma del Tibet che sarà costituita in base ai lavori di un apposito comitato preparatorio costituito nell’aprile del 1956, con il Dalai Lama come presidente e il Panchen Erdeni vicepresidente. Ma a causa dell’opposizione dei settori conservatori tibetani, i lavori del comitato non fanno passi in avanti. Come pure due punti importanti dell’accordo del 1951 quali la riorganizzazione dell’esercito tibetano nell’Esercito Popolare e la riforma del sistema sociale vigente di servitù della gleba, premessa fondamentale alla ridistribuzione delle terre ai contadini. Il governo centrale, nonostante questi limiti nell’applicazione dell’intesa, non volle accelerare sotto il profilo delle riforme nel governo locale tibetano e anzi alla fine del 1956 lo informa che per altri 6 anni non sarebbero state introdotte riforme democratiche nella regione e che il momento della loro introduzione sarebbe stato discusso e deciso tra i dirigenti tibetani e le masse popolari del Tibet in un momento successivo. Tuttavia, parte del lamaismo tibetano con l’aiuto dell’imperialismo e dei nazionalisti rifugiatisi a Taiwan prepararono una sommossa allorquando il Dalai si sarebbe recato in India alla fine del 1956 per le celebrazioni del 2500 anniversario del Buddha, ma i loro tentativi di scatenare una sollevazione a Lhasa fallirono, non potendo certamente contare su un appoggio delle masse contadine. Nel maggio e giugno del 1958, organizzano bande armate in diverse zone della regione, grazie ai rifornimenti in armi di Taiwan, dirette dal comando installato nella città indiana di Kalimpong poco oltre la frontiera. Queste bande si resero responsabili di sabotaggi alle vie di comunicazione, violenze e saccheggi contro la popolazione. All’inizio del ’59 ritennero giunto il momento per un nuovo tentativo di sollevazione e concentrarono un certo numero di sabotatori separatisti armati a Lhasa.

Il Dalai aveva deciso di assistere il 10 marzo ad una rappresentazione artistica all’auditorium del comando della regione militare del Tibet dell’Esercito Popolare a Lhasa. Il gruppo del clero più conservatore tibetano, sostenendo che l’invito dell’Esercito Popolare fosse una trappola per sequestrare il Dalai, scatenò una rivolta nella capitale. Il rappresentante ad interim del governo centrale e commissario politico del comando della regione militare del Tibet, con una lettera invitò il Dalai a non recarsi al comando per non avere difficoltà, in seguito alle provocazioni degli ambienti controrivoluzionari nella capitale. Gruppi armati mobilitati da tale gruppo circondano la sede del quartier generale dell’Esercito Popolare e dei rappresentanti del governo centrale a Lhasa. Assassinarono varie personalità tibetane che si opponevano alla sollevazione separatista fra cui un membro del comitato preparatorio della regione autonoma e un membro del governo locale, organizzarono posti di blocco armati lungo le principali vie di comunicazione. Il Dalai Lama, in uno scambio di corrispondenza col rappresentante del governo centrale a Lhasa, il generale Tan, affermava di essere stato impedito dai suoi consiglieri di recarsi alla rappresentazione teatrale, condannando (almeno a parole) il clan separatista che aveva violato la legge e che aveva incrinato le relazioni tra il governo centrale e locale, dicendo di voler mettere fine agli atti illegali. Condannava poi, nella lettera del 12 marzo successivo, un attacco armato di soldati tibetani sulla strada per Tsinghai. Comunicava inoltre di aver ordinato la dissoluzione immediata della illegale assemblea popolare entrata in clandestinità dopo lo scioglimento deciso il 1° maggio 1952 e denunciava l’introduzione di elementi sabotatori nella sua residenza di Norbu Linka. Nella lettera del 15 marzo, il generale Tan esprimeva tutta la sua preoccupazione per la sicurezza personale del Dalai Lama e lo invitava, qualora lo riteneva necessario, a ricorrere per un breve tempo alla protezione presso il comando della regione militare. Nella risposta del 16 marzo il Dalai comunicava di volersi impegnare a tracciare una netta linea di demarcazione tra gli elementi progressisti e quelli controrivoluzionari, e non appena avesse chiarito su quanti sarebbero stati al suo fianco, si sarebbe recato segretamente al comando della regione militare. Ma nella notte del 17 marzo il Dalai fuggì da Lhasa verso l’India e due giorni dopo il clan dei lama ostili al governo centrale lanciava un attacco su larga scala contro l’Esercito Popolare. L’EPL reagì e, aiutato dalla popolazione locale, dagli ecclesiastici in disaccordo con gli ambienti separatisti e dai laici patriottici, sconfisse in soli due giorni i sabotatori.

Il 28 marzo il primo ministro Zhou Enlai, allo scopo di salvaguardare l’unità del paese e l’unione delle nazionalità cinesi, ordina al comando della regione militare del Tibet di sconfiggere completamente la ribellione in tutta la regione, di sciogliere il governo locale che l’ha fomentata e di conferire le funzioni e i poteri del governo locale al comitato preparatorio della regione autonoma del Tibet. Di questo organismo, da cui sono espulsi 18 elementi separatisti che avevano organizzato o appoggiato la ribellione, venne nominato presidente il Panchen Erdeni. La veloce liquidazione del moto controrivoluzionario fu possibile dato che, degli oltre 1,2 milioni di tibetani, dalla parte dei separatisti si schierarono solo 20 mila uomini, tra cui molti arruolati a forza e diversi provenienti da oltre confine. La maggioranza della popolazione tibetana, composta da contadini e allevatori, aspirava sinceramente a liberarsi del sistema feudale di servitù della gleba, che li costringeva all’estrema ed endemica povertà. Anche negli strati superiori della popolazione, fra i possessori di terre e ecclesiastici d’alto rango, vi furono numerosi patrioti che si erano schierati contro la ribellione, sostenendo il processo di riforme democratiche del loro sistema sociale. Sono queste le basi che permisero la rapida vittoria dell’EPL e la capitolazione dei piani dei separatisti, agenti sotto protezione delle potenze imperialiste. Come l’imperialismo americano che strepitava vanamente contro il barbaro intervento contro il popolo tibetano, mentre il Dalai Lama dalla città indiana di Tezpur diffondeva il 18 aprile una dichiarazione a sostegno dell’indipendenza del Tibet, contro l’accordo del 1951, a suo dire non negoziato ma imposto dal governo centrale, per sostenere che i primi a sparare sono state le truppe dell’EPL il 17 marzo. Va da sé che tale atteggiamento fu non solo un clamoroso voltafaccia dal punto di vista politico, ma una palese violazione giuridica e diplomatica del precedente accordo. Probabilmente, il Dalai Lama chiuse gli occhi di fronte alle manifestazioni di massa di Lhasa e nelle altre città con le quali il popolo oppresso esprimeva il suo appoggio al nuovo governo. Non volle vedere il milione abbondante di schiavi che si levava ad accusare i membri della teocrazia feudale locale, auspicando l’avvio delle riforme sociali ed economiche. In tutto questo, le questioni religiose e spirituali avevano ben poco rilievo, se non per la strumentalizzazione postuma ed impropria che ne avrebbe fatto lo stesso Dalai Lama.

Risulta a questo punto opportuno, fare cenno a tre diversi documenti di assoluta importanza ai fini della corretta interpretazione della questione. Anzitutto va esaminato il cosiddetto Accordo dei 17 punti, noto ai cinesi anche come Trattato di liberazione pacifica del Tibet, che costituisce la chiave di volta di tutta la questione dell’appartenenza cinese della regione tibetana nei tempi moderni. Un trattato che fu firmato a Pechino il 23 maggio 1951 dai delegati del Tibet e della Repubblica Popolare Cinese con il quale i rappresentanti tibetani riconobbero la sovranità cinese sul territorio tibetano. Il governo di Lhasa fu libero di sottoscriverlo dopo le annose controversie degli anni post-rivoluzionari nel Tibet orientale, noto anche come Kham occidentale, e dopo lunghe mediazioni nei confronti dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, di stanza sui territori dal 6 ottobre del 1950. I punti principali dell’accordo prevedevano schematicamente: il riconoscimento della sovranità cinese sul territorio tibetano, del quale veniva sancito ufficialmente l’ingresso nella neonata Repubblica Popolare Cinese; l’istituzione in territorio tibetano di un comitato militare e amministrativo nonché di un quartier generale di comando della regione militare gestiti dal governo di Pechino; le garanzie cinesi sull’autonomia regionale del Tibet nelle questioni interne e la salvaguardia della cultura locale; un piano di riforme economiche ed istituzionali da parte del governo cinese che si impegnava ad inserirle gradualmente nella vita del paese; il graduale inserimento delle forze armate tibetane all’interno dell’esercito cinese; la gestione dei rapporti del Tibet con l’estero da parte del governo cinese. Tale accordo, venne siglato da una delegazione di cinque rappresentanti del neoeletto Dalai Lama (cui spettava sia il potere politico che religioso in Tibet) guidata dal governatore locale del Tibet orientale Ngapoi Ngawang Jigme, e dalla delegazione cinese guidata dal plenipotenziario Li Weihan, ministro della commissione per gli affari delle nazionalità, completata da due gerarchi militari e dal responsabile politico per gli affari del sud-ovest. D’altra parte, il testo risultava essere tanto laconico quanto inequivocabile, e venne redatto in duplice copia, una in lingua tibetana, l’altra in lingua cinese. Il testo era formulato secondo la seguente impostazione.

“Premessa: l’accordo in 17 punti sulle misure riguardanti la liberazione pacifica del Tibet, concluso tra il Governo popolare centrale e il Governo locale del Tibet e firmato il 23 maggio 1951, è stipulato come segue:

  • 1. Il popolo tibetano si unirà alla madrepatria cinese e caccerà via dal Tibet le forze d’aggressione imperialiste.
  • 1.1 Il popolo tibetano ritornerà in seno alla grande famiglia della patria – la Repubblica popolare cinese.
  • 2. Il governo locale del Tibet fornirà aiuto all’Esercito popolare di Liberazione per entrare nel Tibet e consolidare la difesa nazionale.
  • 3. Conformemente alla politica nei confronti delle nazionalità fissata nel Programma comune della Conferenza consultiva politica del popolo cinese, il popolo tibetano ha il diritto di esercitare l’autonomia regionale delle nazionalità sotto la direzione unica del Governo popolare centrale.
  • 4. L’autorità centrale non apporterà modifiche all’esistente sistema politico del Tibet. L’autorità centrale non apporterà modifiche neppure agli statuti e prerogative prestabiliti del Dalai Lama. I funzionari ai vari livelli continueranno a svolgere le loro funzioni come al solito.
  • 5. Lo statuto e le prerogative prestabiliti del Pantchen Erdeni saranno mantenuti.
  • 6. Per statuto e prerogative prestabiliti del Dalai Lama e del Pantchen Erdeni si intendono gli statuti e le prerogative del XIII Dalai Lama e del IX Pantchen Erdeni all’epoca in cui essi avevano relazioni amichevoli.
  • 7. La politica di libertà di credo religioso fissata nel Programma comune della Conferenza consultiva politica del popolo cinese sarà applicata. Le credenze religiose, le usanze e i costumi del popolo tibetano saranno rispettati e i monasteri lamaici saranno protetti. L’autorità centrale non apporterà cambiamenti in riferimento ai proventi dei monasteri.
  • 8. Le truppe tibetane saranno riorganizzate, gradualmente, in unità dell’Esercito popolare di Liberazione e faranno parte dalle forze di difesa nazionale della Repubblica popolare cinese.
  • 9. La lingua, la scrittura e l’insegnamento scolastico della nazionalità tibetana saranno sviluppati progressivamente in accordo con le effettive condizioni del Tibet.
  • 10. L’agricoltura, l’allevamento, l’industria e il commercio saranno sviluppati gradualmente e il livello di vita del popolo sarà progressivamente migliorato in accordo con le effettive condizioni del Tibet.
  • 11. Riguardo alle varie riforme nel Tibet, non sarà esercitata alcuna costrizione da parte dell’autorità centrale. Il Governo locale del Tibet intraprenderà le riforme di sua propria iniziativa, e quando il popolo avanzerà delle richieste di riforma, la questione sarà risolta attraverso consultazioni col personale dirigente del Tibet.
  • 12. A condizione che essi rompano risolutamente le loro relazioni con gli imperialisti e il Kuomintang e non intraprendano attività di sabotaggio e di resistenza, i funzionari che in passato si erano mostrati pro-imperialisti e pro-kuomintaniani potranno continuare a svolgere le loro funzioni e non saranno perseguiti.
  • 13. L’Esercito popolare di Liberazione entrando nel Tibet rispetterà tutte le misure politiche sopra menzionate, effettuerà transazioni commerciali su una base di equità e non prenderà un solo ago o il minimo pezzetto di filo appartenente alla popolazione.
  • 14. Il Governo popolare centrale gestirà con una direzione centralizzata tutti gli affari esteri della regione del Tibet; e seguirà sulla base dell’uguaglianza e della reciprocità e del mutuo rispetto dell’integrità territoriale e della sovranità, una politica di coesistenza pacifica con i paesi vicini e stabilirà e svilupperà con loro eque relazioni commerciali.
  • 15. Al fine di assicurare l’applicazione di questo accordo, il Governo popolare centrale creerà nel Tibet un comitato militare e amministrativo e un quartier generale di comando della regione militare, e oltre al personale inviato dal Governo popolare centrale, impiegherà per quanto possibile il personale tibetano sul posto per prendere parte al lavoro
  • 15.1 Il personale tibetano locale che partecipa ai lavori del comitato militare e amministrativo potrebbe comprendere elementi patrioti del Governo locale del Tibet, delle varie parti del territorio e dei principali monasteri; la lista dei nomi sarà compilata dopo consultazioni tra i rappresentanti designati dal Governo popolare centrale e le parti interessate, e sarà sottoposta al Governo popolare centrale per la nomina.
  • 16. I fondi necessari al comitato militare e amministrativo, al quartier generale del Comando della regione militare e all’Esercito popolare di Liberazione che entra nel Tibet saranno forniti dal Governo popolare centrale. [16.1 Il Governo locale del Tibet fornirà assistenza all’Esercito popolare di Liberazione per l’acquisto e il trasporto delle granaglie e di altri prodotti di consumo corrente così come del foraggio].
  • 17. Questo accordo entrerà immediatamente in vigore subito dopo l’apposizione delle firme e dei sigilli”.

La validità dell’accordo, sotto il profilo politico e sotto il profilo giuridico, risultava pertanto evidente; il trattato fu ratificato dal Dalai Lama con un telegramma spedito a Pechino il 24 ottobre 1951 il cui testo era il seguente: “Il Governo Locale del Tibet così come la sua popolazione ecclesiastica e secolare supportano unanimemente questo accordo, e sotto la guida del Presidente Mao e del Governo Centrale Popolare, supporteranno attivamente l’Esercito di Liberazione Popolare in Tibet per consolidare la difesa nazionale, scacciare le influenze imperialiste dal Tibet e salvaguardare l’unificazione del territorio e la sovranità della Madre Patria”. D’altra parte, questo atteggiamento particolarmente conciliatorio venne espresso dallo stesso Mao in un fondamentale discorso del 6 aprile 1952, intitolato Direttive del Comitato Centrale del PCC sulla Linea di Lavoro nello Xizang [Tibet], a cui già abbiamo fatto cenno.In particolare, il leader rivoluzionario cinese mostrò in diversi passaggi un atteggiamento moderato, finalizzato ad incrementare il consenso del nuovo governo in virtù delle misure sociali e modernizzatrici che si andavano attuando nella regione. “Le condizioni del Xizang sono differenti da quelle del Xinjiang, sono peggiori tanto sul piano politico che su quello economico. […] Per quanto riguarda il Xizang per almeno due o tre anni sarà impossibile procedere alla riduzione dei canoni di affitto e alla riforma agraria. Mentre nel Xinjiang vivono alcune centinaia di migliaia di han, nel Xizang gli han sono pressoché inesistenti e il nostro esercito si trova in una zona di minoranze nazionali completamente diversa. Noi facciamo affidamento solo su due politiche fondamentali, conquistarci le masse e metterci in una posizione imbattibile. La prima consiste nel calcolare fino al centesimo, produrre il necessario per essere autosufficienti ed esercitare così influenza sulle masse: questo è l’anello fondamentale. Anche quando saranno costruite strade di comunicazione, non potremo contare sul trasporto di grandi quantitativi di cereali. É possibile che l’India accetti lo scambio di cereali e altre merci con il Xizang ma la nostra posizione deve essere quella di mettere il nostro esercito in condizioni di sopravvivere anche nel caso che un giorno l’India non fornisse più cereali e altre merci. Dobbiamo fare ogni sforzo per usare metodi appropriati per conquistare il Dalai e la maggioranza dei suoi strati superiori, isolare la minoranza dei cattivi elementi e arrivare in molti anni, gradualmente e senza spargimenti di sangue, alla trasformazione politica ed economica del Xizang. […] É chiaro che non solo i due Silons [funzionari di alto rango sotto il Dalai, proprietari dei servi della gleba] ma anche il Dalai e la maggior parte del suo gruppo si sentono costretti ad accettare l’accordo e non desiderano attuarlo. Noi adesso non solo non abbiamo la base materiale per attuarlo integralmente, ma neanche le basi di massa negli strati superiori: un’attuazione forzata porterebbe molti danni e pochi vantaggi. Se non desiderano attuarlo, va bene, non lo attuiamo, lasciamo che la cosa si trascini e ne riparleremo. Più a lungo si trascinerà, più le ragioni saranno dalla nostra parte e meno dalla loro. Se le cose andranno per le lunghe non ne avremo grandi danni, al contrario, ne trarremo dei vantaggi. Lasciamo che essi commettano ogni genere di atrocità insensate contro il popolo, noi ci occuperemo solo della produzione, del commercio, della costruzione di strade, della medicina e del fronte unito (unità con la maggioranza e educazione paziente) e di altre cose buone, con lo scopo di conquistare le masse e aspettare che maturi la situazione per trattare di nuovo il problema dell’attuazione globale dell’accordo. Se essi trovano che istituire le scuole elementari non sia conveniente possiamo anche smettere di farle”.

Un altro passaggio di Mao che risulta essere utile ai fini del nostro discorso, soprattutto per rappresentare adeguatamente l’approccio tenuto della nuova Cina post-rivoluzionaria nei confronti del governo locale tibetano, consiste nel Discorso alla II Sessione plenaria dell’VIII CC del PCC, datato15 novembre 1956. Il leader rivoluzionario, fondatore della Repubblica Popolare, così si espresse: “Vorrei parlare qui della questione del Dalai. Buddha è morto 2.500 anni fa, adesso il Dalai e i suoi vogliono andare in India a rendergli omaggio. Bisogna lasciarlo andare o no? Il Comitato centrale è dell’avviso che sia meglio lasciarlo andare, non farlo sarebbe sbagliato. Partirà tra qualche giorno. Lo abbiamo esortato a prendere l’aereo ma non ha voluto, vuole andare in auto passando per Kalimpong, una località dove si trovano spie di ogni paese e agenti segreti del Kuomintang. Dobbiamo valutare la possibilità che il Dalai non ritorni e che, in aggiunta, ci ricopra ogni giorni di insulti, con affermazioni del tipo “il Partito comunista aggredisce il Xizang” o che addirittura dall’India proclami “l’indipendenza del Xizang”; è anche possibile che spinga i reazionari degli strati superiori tibetani a lanciare appelli per provocare gravi disordini in modo da sbatterci fuori, affermando poi che lui non era presente sul posto e non è responsabile dell’accaduto. Questa possibilità va tenuta presente pensando all’ipotesi peggiore. Se si verificasse una situazione del genere io ne sarei contento. Il nostro Comitato di lavoro per il Xizang e le nostre truppe devono tenersi pronti, costruire fortificazioni e accumulare maggiori riserve di cereali e di acqua. Noi non abbiamo che quei pochi soldati, comunque sia ognuno è libero di fare come crede, se vogliono battersi noi staremo in guardia, se vogliono attaccare ci difenderemo. In ogni caso noi non attaccheremo per primi, lasceremo che siano loro a farlo, poi sferreremo un contrattacco e infliggeremo una dura sconfitta agli assalitori. Dovrei affliggermi perché fugge un Dalai? Ma non mi sentirei afflitto neanche se gli se ne aggiungessero altri nove e scappassero in dieci. (…) Non si può combinare un matrimonio legando insieme un uomo e una donna. Se non ama questo posto e vuole scappare, fatelo scappare. Che danno ci fa? Nessuno, tuttalpiù ci lancerà delle ingiurie. Noi comunisti siamo stati ingiuriati per 35 anni, sempre con la stessa solfa, i comunisti “sono capaci delle peggiori nefandezze”, “mettono in comune i beni e le mogli”, “sono spietati e inumani”, ecc. Se al coro si aggiunge il Dalai o chicchessia che importanza ha? Se continuano a ingiuriarci per altri 35 anni, in tutto faranno solo 70. Secondo me non è positivo il fatto che uno abbia paura di essere ingiuriato”.

In effetti, rispetto al biennio 1949-50 il clima tra i vertici del clero lamaista ed i comunisti di Mao si era pesantemente deteriorato, a causa di diversi fattori quali l’ostilità (o quantomeno una continua ambiguità) dei lama di accettare il processo di riforme graduali – che avrebbero implicato la messa in discussione dei loro secolari privilegi feudali – e il mutato quadro internazionale, in cui da parte occidentale e statunitense in primo luogo, la ritrovata forza ed unità cinese sotto la guida dei comunisti non potevano che sollevare pregiudizi di carattere ideologico. Infatti, nel 1954, (anno in cui, tra l’altro, avvenne il riconoscimento indiano della sovranità cinese sul Tibet) il Dalai Lama e il Panchen Lama vennero cordialmente invitati a Pechino, intrattenendosi in diverse occasioni in colloqui con Mao e dagli altri leader cinesi come Zhou Enlai e Deng Xiaoping. Tra l’altro, costituisce un curioso aneddoto il fatto che lo stesso XV Dalai Lama scrisse di suo pugno in quel periodo un poemetto adulatorio nel confronti del Presidente Mao. Tuttavia tornati in Tibet, i due giovani religiosi scoprirono che lontano da Lhasa, nelle provincie di Amdo e Kham, le truppe comuniste avevano già cominciato nella loro opera di riforma dello Stato, trovando grandi consensi soprattutto tra le masse contadine che auspicavano una ripartizione delle terre dopo secoli di vessazioni feudali. Se l’esercito di Mao aveva riconquistato la regione nel 1951, eliminando le divisioni interne e gettando le basi per il futuro progetto di sviluppo socialista – non senza la continua mediazione con il governo locale e la salvaguardia delle tradizioni religiose come testimoniava il citato Accordo dei 17 punti – l’arrivo dell’EPL fu salutato con estremo entusiasmo persino da alcuni Lama oltreché dai contadini locali. La nuova leadership comunista di Pechino, che inizialmente mantenne inalterate le leggi tibetane, cominciò a smantellarle solo successivamente, gradualmente, introducendo riforme che minarono alla radice l’assolutismo dell’aristocrazia tibetana, formata da nobili, religiosi e latifondisti. Ma intaccandole essenzialmente da un punto di vista economico (progetto di ripartizione delle terre), e non certamente da un punto di vista istituzionale e men che meno da un punto di vista spirituale o religioso. Sta di fatto che queste innovazioni accrebbero ancor di più il consenso popolare della nuova dirigenza di Pechino. Alcuni lama, nel tentativo di riparare a questo attacco frontale contro il loro potere assoluto, iniziarono a dispensare anatemi, maledizioni e scomuniche contro tutti coloro che avessero seguito l’applicazione delle nuove leggi, ma fu tutto vano, perché la consapevolezza che potesse esistere un’altra realtà sociale oltre a quella retrograda e medioevale che il Tibet aveva vissuto sino ad allora, stava ormai avanzando inesorabilmente. Giunse, quindi, il momento di passare alle maniere forti, al separatismo ed al boicottaggio aperto. La goccia che fece traboccare il vaso lamaista, arrivò nel 1958 quando Pechino dette l’ultima, tremenda, spallata alla teocrazia tibetana, abolendo la schiavitù, sino ad allora sancita per legge. La CIA – che aveva propri agenti in Tibet sin dal 1950 – capì subito che la situazione stava sfuggendo di mano e che non c’era più tempo da perdere. Il perché era lampante: il sistema sociale lamaista si reggeva su una struttura piramidale alla cui base c’erano gli schiavi ed i servi. Abolire la servitù e la schiavitù significò minare la società teocratica lamaista alle fondamenta. Ecco perché alcuni lama, i nobili ed i proprietari terrieri si ribellarono solo nel 1959 e non durante i dieci anni precedenti. Il marzo 1959 il Dalai Lama abbandonò definitivamente Lhasa per cercare asilo politico in India seguito da oltre 20.000 profughi tibetani, per lo più alti esponenti del clero lamaista. É questa una storia abbastanza nota, anche se spesso si omette di ricordare che tale episodio non fu affatto un esilio forzato quanto una fuga libera e volontaria.

D’altra parte se l’elemento dell’ostilità oscurantista verso le riforme economiche pare evidente, non è affatto argomento secondario – né tanto meno complottista – quello riguardante la longa manus degli statunitensi nelle vicissitudini del decennio 1949-1959 nell’area. Risulta noto che quando nel 1959 alcune centinaia di tibetani ostili al nuovo governo tentarono di ribellarsi alle forze dell’esercito regolare cinese, il dipartimento della difesa statunitense e la CIA decisero di dare il via ad un’operazione destinata – nelle speranze di Washington – ad arginare il predominio comunista sugli altopiani del Tibet. Agli inizi del 1963, un gruppo di ufficiali dell’esercito e dell’aviazione statunitensi furono inviati – grazie alla connivenza del governo di Nuova Delhi – in India settentrionale con il compito di addestrare e trasformare in guerriglieri anticomunisti alcune centinaia di tibetani che erano riusciti a fuggire dal loro paese. Nell’aprile del 1963, presso due basi segrete situate a Dibrugarh e Darijeeling, sull’alto corso del Brahmaputra, le prime 40 reclute tibetane terminarono il primo periodo di addestramento, venendo raggiunte pochi mesi più tardi da un secondo ben più consistente scaglione di loro sodali, già addestrati in nelle basi americane di Okinawa e Guam e in quella di Cam Hale, sulle Montagne Rocciose. Secondo documenti della CIA resi noti soltanto nel 1968, complessivamente furono circa 2.000 volontari tibetani ad aderire spontaneamente e con entusiasmo all’operazione organizzata dagli americani che, nella pratica, si sarebbe dovuta concretizzare con il loro trasferimento, a bordo di bimotori Douglas DC3 e Fairchild C-82 Packet nella regione liberata dalle forze comuniste (gli uomini sarebbero stati paracadutati in alcune aree strategiche per effettuare operazioni di sabotaggio). Questi volontari, molti dei quali appartenevano alla tribù guerriera dei Khamba, conclusero abbastanza rapidamente il loro ciclo di preparazione bellica, dopodiché furono posti agli ordini di ufficiali americani. Secondo i resoconti dei sopravvissuti (in parte successivamente emigrati negli Stati Uniti), tra il 1964 e il 1968, circa 500 guerriglieri vennero paracadutati in territorio tibetano, dove per alcuni mesi effettuarono sabotaggi a infrastrutture militari e attentati contro caserme e insediamenti dell’esercito maoista: operazioni che costarono ai cinesi un centinaio di morti e ai tibetani circa 50. “Il motivo del fallimento dell’impresa – raccontò in seguito il tenente Nawang che, dopo essere riuscito miracolosamente a scampare alla cattura, aveva guadagnato a piedi il confine indiano, divenendo poi un agente dei servizi segreti di Nuova Delhi – stette nel fatto che non fummo mai preparati a fronteggiare un nemico – i cinesi – infinitamente meglio armato ed equipaggiato”. Opinione condivisa anche da Victor Marchetti, un alto funzionario della CIA: “I Khamba, ottimi e coraggiosi combattenti, erano stati bene preparati all’utilizzo di esplosivi e armi della Seconda guerra mondiale (mitragliatrici leggere Browning M1919, mitragliatori Thompson, carabine M1, fucili Springfield M1903, bombe a mano) ma nulla poterono contro l’elevato grado di preparazione del nemico e i suoi potenti e sofisticati mezzi terrestri e aerei”. Per la cronaca, tutte le operazioni compiute dai guerriglieri tibetani in territorio patrio vennero sempre tenute nascoste dalla CIA, sia sotto l’amministrazione Eisenhower che sotto quella Kennedy e Johnson. Le successive continue, ripetute e vane interferenze straniere nella vicenda tibetana dal 1959 ai giorni nostri sono un fatto noto, e pur con variazioni argomentative e strategiche di volta in volta più curiose o surreali, lo schema di fondo non è affatto cambiato.

(Il poema celebrativo del Dalai Lama dedicato a Mao Zedong)
(Il poema celebrativo del Dalai Lama dedicato a Mao Zedong)

Ma quello che è invece importante ricordare, ai fini del nostro discorso, sono i costanti e straordinari passi che la regione del Tibet ha mosso verso la via dello sviluppo dal 1959 e anche maggiormente dal 1965. Infatti il 1º settembre 1965 nacque ufficialmente la Regione Autonoma del Tibet nota internazionalmente con l’acronimo di TAR (Tibet Autonomous Region), così come definita dagli articoli 111 e 112 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese. Se nel 1951 Tibet era fondamentalmente una società agricola basata sul latifondo, dove gli schiavi e i servi della gleba sfruttati dai vari lama praticavano una pastorizia nomade e un’agricoltura arretrata in condizioni di assoluta miseria, in seguito alla liberazione pacifica nel 1951, con l’avvio delle prime riforme democratiche, sociali e l’istituzione del sistema delle regioni autonome etniche, si è assistiti ad un prodigioso incremento dello sviluppo del modello sociale locale, grazie all’abolizione degli originari arretrati rapporti di produzione, liberando notevolmente la produttività. Basta ricordare provvedimenti quali la sottoscrizione di accordi paritari e di mutuo vantaggio con i paesi limitrofi sulla base dei cinque principi della coesistenza pacifica, che hanno posto fine ad uno stato semi-coloniale. Gli enormi investimenti infrastrutturali, come la costruzione delle strade Kang-Tibet e Qinghai-Tibet e dell’aeroporto Dangxiong, il che hanno ovviato alla mancanza di trasporti moderni della regione e rafforzato i rapporti economici tra il Tibet e l’entroterra cinese; la costruzione di fabbriche e fattorie dotate di moderni impianti industriali, di banche, società commerciali, uffici postali e così via, che hanno introdotti gli elementi del moderno sviluppo industriale e commerciale del Tibet; la robusta riforma agricola, con l’introduzione delle avanzate tecnologie di coltivazione dell’entroterra cinese tramite il dissodamento dei terreni deserti e la costruzione di fattorie; la concessione di crediti a fondo perduto o a basso interesse rivolti all’agricoltura, all’allevamento del bestiame e all’artigianato, la soluzione delle difficoltà legate ai capitali, alle fonti di merci e alle vendite degli operatori commerciali privati. Ma lo sviluppo della regione si è ulteriormente articolato in due diverse tappe, prima con la riforma democratica iniziata nel 1959 che ha abolito il sistema feudale della servitù della gleba, e in seguito nel settembre 1965, con la fondazione della Regione Autonoma del Tibet che ha ufficialmente costituito il sistema di amministrazione autonoma delle zone etniche, fornendo la garanzia della stabilità politica e sociale, premessa allo sviluppo e alla modernizzazione economica e locale. L’Assemblea Popolare della Regione Autonoma del Tibet ha formulato un gran numero di leggi e varato regolamenti locali corrispondenti alla realtà della regione, costantemente volti a tutelare gli interessi del popolo tibetano, standardizzando e sviluppando i ritmi della modernizzazione della società e dell’economia locali. Rispetto al 1966, nel 1979 la produzione cerealicola era aumentata del 34,8% e il numero dei capi di bestiame del 29,3%; la superficie rimboschita si era ampliata gradualmente, con la messa a dimora di oltre 250 mila alberi da frutta di vario tipo e di una trentina di frutteti e piantagioni di tè statali, con una produzione di frutta superiore a 1.300.000 kg. Nel 1975, rispetto al 1965, il numero delle imprese industriali e minerarie era passato da 80 a 218, con medie e piccole imprese elettriche, carboniere, di materiali da costruzione, dell’industria forestale, tessili, della pelletteria, della stampa, alimentari e così via, mentre il numero dei principali prodotti industriali era passato da 18 a 70, la generazione di elettricità venne aumentata di 6,7 volte e la produzione di cemento di 13 volte. Nel 1976 le strade aperte al traffico di veicoli erano aumentate dell’8,5% rispetto al 1965, il 90% dei distretti vennero stati collegati con strade percorribili e il volume del trasporto passeggeri e merci vide un primo, notevole, incremento. Nel 1976 dopo 3 anni di lavoro erano state costruite le condutture dei derivati del petrolio da Golmud a Lhasa. Anche le infrastrutture aeree videro uno sviluppo, con la costruzione dei 3 aeroporti di Gongga, Heping e Bangda. Inoltre il settore delle comunicazioni postali aveva registrato un forte sviluppo, per cui rispetto al 1965, nel 1976 il numero degli uffici postali era aumentato del 17,7%, mentre erano aumentati decisamente i circuiti telegrafici e telefonici e i telefoni urbani, e la copertura totale del servizio postale era aumentata di circa 4 volte. Nel 1976 il volume delle vendite di merci di vario genere era aumentato di più del 60% rispetto al 1965, mentre il volume delle vendite di macchinari agricoli era aumentato di più di 9 volte. In anni più recenti, seguendo il corso di riforme attuate dalla dirigenza cinese secondo il modello del socialismo armonico di mercato, anche la regione tibetana ha goduto dei frutti di una straordinaria crescita economica e sociale. A titolo di esempio, nel 1980 il governo di Pechino ha stabilito per il Tibet l’obiettivo dell’accelerazione dello sviluppo, concedendo alla regione un sussidio di 600 milioni di RMB ed aumentandolo ogni anno del 10% su questa base. Durante il periodo 1980-1992, il governo centrale ha destinato al Tibet sussidi ed aiuti finanziari pari a 12,927 miliardi di RMB. Nel 1984 il governo ha poi deciso che nove province e città dell’intera nazione offrissero assistenza alla costruzione di 43 grandi opere, fornendo allo sviluppo economico e culturale tibetano un gruppo di infrastrutture dichiarate di particolare urgenza. In seguito il governo centrale ha investito una gran quantità di capitali nella valorizzazione dell’agricoltura e della pastorizia nel bacino centrale del fiume Yarlung Zangpo e dei suoi affluenti, i fiumi Lhasa e Nianchu; nella costruzione della centrale elettrica del lago Yangzhuoyong; nel risanamento delle strade Qinghai-Tibet e Sichuan-Tibet; nell’ampliamento degli aeroporti di Gongga e di Bangda; nel restauro del Potala e così via, con un somma pari a 7,645 miliardi di RMB. Ancora, nel giugno del 2001 un tavolo di lavoro specifico per il Tibet ha approvato la realizzazione di 117 progetti con investimenti diretti statali, finalizzati alla creazione di nuove infrastrutture, alla creazione di nuove fabbriche, alla tutela del patrimonio culturale, storico e ambientale della regione, per un ammontare di investimenti di 17,319 miliardi di RMB. Tra questi progetti, vanno almeno menzionati quelli riguardanti la ferrovia Qinghai-Tibet (opera unica al mondo, ferrovia in altura di quasi 1.200 km di lunghezza conosciuta come treno del cielo), la stazione ferroviaria di Lhasa, la centrale elettrica di Zhikong, il’elettrificazione periferica della regione e la fabbrica di cemento di Lhasa. Ancora, i lavori iniziali dell’aeroporto di Linzhi, il ponte Liuwu di Lhasa, la centrale elettrica di Shiquanhe, la trasformazione e l’ampliamento dell’Università del Tibet. Nel 2004 nella regione tibetana vennero realizzati investimenti in capitali fissi pari a 16,844 miliardi di yuan, con un aumento del 21,5% rispetto all’anno precedente. A fronte degli straordinari sforzi attuati dal governo centrale, i risultati non potevano mancare. Dopo due decenni dall’avvio del processo di riforma e sviluppo del Tibet, l’economia locale ha conosciuto straordinari risultati, che – secondo le statistiche ufficiali – nel periodo 1991-1995 hanno visto crescere il PIL dell’intera regione del 48,9%, e nel periodo 1996-2000 del 120%; nel periodo 2001-2004, il PIL dell’intera regione aveva registrato un aumento medio annuo superiore al 12% e alla fine del 2004 il PIL totale aveva superato quota 20 miliardi di yuan, raggiungendo i 21,154 miliardi. Il costante e sensazionale sviluppo economico ha comportato un costante innalzamento del reddito dei residenti della regione. Infatti, nel 2004 il reddito netto pro-capite dei lavoratori agricoli del Tibet aveva raggiunto i 1,861 yuan, il 10,1% in più rispetto all’anno precedente, mentre il reddito pro-capite dei residenti urbani aveva raggiunto gli 8,200 yuan, con aumento del 18%. Risulta clamoroso un dato, che riassume in larga misura tutti gli altri: se nel 1956 la produzione industriale tibetana equivaleva a 1,4 milioni di yuan, nel 2012 era passata a 10,591 miliardi di yuan. E anche il dato del turismo va ricordato, visto che la regione nel 2012 ha visto 10,6 milioni di turisti, di cui oltre 200 mila stranieri; non è un caso che il settore turistico tibetano muova circa 12,65 miliardi di yuan. (Dell’economia tibetana, il settore terziario compone il 53,9% dell’intero PIL). Si potrebbe continuare oltre, elencando dati più dettagliati. Quello che risulta essenziale, è rimarcare il fatto che nel mezzo secolo abbondante in cui il Tibet ha conosciuto programmi economici mirati da parte del governo di Pechino, la popolazione locale ha goduto di livelli di sviluppo prima inimmaginabili, dimenticando per sempre un passato fatto di arretratezza, miseria e schiavitù.

(Alcuni grafici dello sviluppo della Regione Autonoma del Tibet: crescita demografica, investimenti, flussi turistici)

3

4

5

Marco Costa

Iscriviti alla nostra Newsletter
Enter your email to receive a weekly round-up of our best posts. Learn more!
icon

Progetto di Ricerca CeSE-M

Dispacci Geopolitici

MATERIALI CORSO ANALISTA GEOPOLITICO 2023

Il CeSE-M sui social

Naviga il sito

Tirocini Universitari

Partnership

Leggi anche