Intervista al Professore Alberto Hutschenreuter

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ALBERTO HUTSCHENREUTER

A Cura di Giacomo Gabellini*

1 – Professor Huntschenreuter, gran parte del mondo arabo è stato scosso dal fenomeno delle cosiddette “primavere arabe”, che secondo i media occidentali sarebbero scaturite dalla sete di democrazia da parte delle popolazioni tunisine, egiziane, libiche, ecc. E’ d’accordo con questa impostazione?

Alcuni specialisti sostengono che il mondo del XXI Secolo sia stato scosso da un “risveglio politico globale”. Una sorta effervescenza politica “del popolo” nella richiesta di libertà politiche calpestate. Considero che, effettivamente, è così: “i popoli” sono uno dei grandi nuovi soggetti della “politica mondiale” ancor prima della “politica internazionale”, distinzione pertinente e fatta anzitempo dal brillante teorico Hedley Bull. Ma ciò che è successo in Nord Africa va ben oltre quanto incluso nel cosiddetto “ordine mondiale” (che implicava, secondo Bull, la preservazione delle necessità basilari della popolazione) posto che i movimenti cercavano di porre fine ai governi oppressivi. In questo senso, considero che le proteste e sollevazioni contro leader che sembravano granitici – in particolar modo in Egitto e Libia – possono essere considerate, a prescindere da alcune differenze, come un secondo “momento politico-socio-strategico” a partire dai successi avvenuti tra il 1989 e il 1991, quando caddero i regimi totalitari nell’Europa dell’Est e alla fine crollò l’URSS; un cambio inaspettato per la “scienza politica” che credeva quasi impossibile “ritornare” dai sistemi politici totalitari, ma possibile invece, il passaggio dai sistemi autoritari a sistemi meno implacabili nell’estendere l’ideologia del regime alla totalità della società, come lo erano in maggioranza i regimi del Nord Africa.

Ritengo esistano fattori interni ed esterni che, ben oltre i “golpe di strada”, come sono state denominate le rivolte nordafricane, giocano (e giocheranno) un ruolo importante nella situazione attuale e nell’evoluzione dei cambiamenti a favore dell’apertura politica.

Da una parte risulta molto difficile pensare che Paesi senza passato democratico possano giungere ad una transizione quasi automatica verso la democrazia. È molto possibile che, come di fatto è avvenuto in Egitto, il regresso superi di gran lunga il progresso, instaurando una situazione che inciderà profondamente nel processo di formazione della necessaria pace sociale. Allo stesso modo, ben oltre delle autentiche richieste di partecipazione, è interessante tener presente che esistono determinate “incompatibilità” che possono ostacolare il cammino verso la democrazia. Secondo uno studio realizzato nel 2011 dal centro PewReserch, quasi il 60% degli egiziani cosidera la democrazia preferibile a quasiasi altro tipo di governo, ma circa il 90% cosidera giusto che l’Islam occupi un ruolo centrale nella politica: vale a dire, la democrazia non implica il sacrificio della tradizione ma, in molti aspetti, la tradizione non accompagna la stessa.

In fine, la scomparsa di governatori tiranni non implica la fine dell’influenza di forti fattori di potere, ad esempio, quello delle Forze Armate in Egitto – influenza che manterrà l’incipiente transizione di apertura politica ad un livello “migliore”.

D’altra parte, in quei casi che implicano spazi d’interesse di altri attori, l’evoluzione della democrazia nei Paesi arabi potrà essere influenzata da tali interessi.

2 – In Libia, quando Gheddafi sembrava sul punto di avere la meglio sui ribelli, sono intervenute le potenze occidentali in supporto di questi ultimi. A oltre un anno di distanza dalla caduta di Gheddafi, quale bilancio si sente di trarre rispetto alla situazione politica venutasi a creare in Libia?

Dice bene, le potenze occidentali intervennero in appoggio ai ribelli. Però non era questo l’obiettivo della Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza (nel marzo 2011), che era volta a proteggere il popolo libico. Accadde che ci fu un cambiamento nei fatti, cambiamento che ha poi concorso a far fallire l’ONU nella gestione del conflitto interno alla Siria, che allo stato attuale è costato oltre 70.000 morti, secondo i dati dell’ONU.

Quello che accade nella Libia post-Gheddafi è sicuramente un ritorno alla fase di organizzazione politico-tribale. In alcuni studi si afferma che “la Libia post-Gheddafi è la Libia pre-Gheddafi”; come dire che, dopo la scomparsa del tiranno, il Paese si sta dirigendo verso scenari di frazionamento geopolitico tradizionale. Qualora alla fine dovesse affermarsi tale tendenza, la “primavera araba” libica avrà ottenuto una “evoluzione” verso un (tradizionale) sistema politico territoriale tribale e pseudodemocratico.

D’altra parte, quasiasi cosa accada, appare chiaro che questo scenario non mette in pericolo gli interessi eminentemente geoenergetici delle potenze occidentali in relazione alla “piazza libica”.

3 – Una volta capitolato il regime di Gheddafi, l’attenzione si è spostata sulla Siria guidata da Bashar al-Assad, il cui attacco caldeggiato dagli Stati Uniti e dai loro alleati è stato bloccato dalla forte opposizione da parte di Russia e Cina. Dopo circa due anni di combattimenti particolarmente aspri, sembra che il conflitto stia volgendo a termine. E’ sorpreso dal fatto che la Siria sia riuscita a resistere tanto a lungo?

Assolutamente no. La Siria è uno degli attori più importanti del Medio Oriente. Forte dall’interno, così come avviene con tutti i sistemi politici oppressivi, l’intelligence è stata efficace per “mantenere la disciplina interna” e l’esercito per dare un’immagine di forza verso l’esterno. La Siria rappresenta un attore strategico fondamentale nel conflittualissimo scenario del Medio Oriente, spazio geopolitico dove pare che l’unico “modello” che (curiosamente) ottiene relativa stabilità è il mantenimento dell’ “equilibrio di insoddisfazioni” tra i principali attori in competizione.

Per questo, dubito che esista un fermo interesse affinché sparisca di scena l’autocrazia leader siriana o, dicendolo in altri termini, che scompaia lo Stato forte in Siria. In alcuni centri di ricerca hanno tralasciato l’esistenza di una “Dottrina Obama” per il Medio Oriente che, di base, punta ad appoggiare “cambiamenti che non cambiano nulla”. Se effettivamente è così, l’opposizione di Russia e Cina all’intervento in Siria può vedersi come “funzionale”.

Le relazioni internazionali sono, prima di tutto, relazioni di potere. Questa logica prevale in modo accentuato in Medio Oriente. In questo senso, non sono molto in disaccordo con le posizioni di quegli esperti che associano la stabilità regionale con l’esistenza di leader forti: ciò non implica la difesa di sistemi autocratici, ma la constatazione di una realtà.

Tuttavia, tornando alla sua domanda, non ho che da scartare la caduta di Bashar al-Assad, ma se questo dovesse alla fine accadere, sarà per effetto del ritiro dell’appoggio interno al regime e al sostegno esterno, non necessariamente occidentale, alle frange ribelli. Non possono essere depennati dal novero delle possibilità scenari di “patti” tendenti ad evitare la “grande minaccia”: la disintegrazione del Paese e il conseguente raggiungimento di vantaggi cruciali per l’estremismo islamico in uno spazio altamente sensibile, uno spazio che alcuni specialisti iniziano a denominare “Syriastán”.

4 – Molti analisti hanno sottolineato il fatto che il sostegno fornito dalle potenze occidentali ai ribelli siriani risponda all’esigenza di abbattere il regime in carica allo scopo di colpire indirettamente l’Iran. Condivide questa lettura?

Bene, è importante non perdere la linea della riflessione antecedente. In questo modo mi rifiuto di associare inestricabilmente alla Siria la strategia di accerchiamento all’Iran; beninteso, qualora il nucleo di potere e di proiezione regionale che conformano Siria-Iran-Hezbollah dovesse continuare a reggere l’urto, la partita può effettivamente terminare in favore di Teheran. Ciononostante, ci sono attori regionali che si stanno interessando a favorire scenari di cambiamento di regime a Damasco, perché ritengono che ciò favorirebbe l’ascesa della propria predominanza politico-religiosa. In concreto, mi sto riferendo all’Arabia Saudita, attore che – considerando che dall’11 settembre 2001 l’Occidente si è proposto di dipendere in misura minore dagli idrocarburi della regione e, più in generale, dall’OPEC, le cui strategie sono dirette dai sauditi al punto tale da spingere taluni analisti a parlare di “Riadpolitik” – punta ad affermare la propria supremazia regionale.

5 – Da diversi anni Israele minaccia di attaccare la Repubblica Islamica tirando in ballo il programma nucleare di Teheran. Crede che le ragioni che stanno alla base dell’aggressività israeliana si riducano a questo o pensa ci sia dell’altro? Ritiene verosimile un attacco contro l’Iran?

L’esperienza ci dice che quando Israele ha ritenuto che la sua sicurezza o, per così dire, la sua sopravvivenza, poteva essere minacciata, non indugia ad attaccare, come, ad esempio, accadde quando l’aviazione israeliana distrusse la centrale nucleare Irakena nel 1981 (allo stesso modo, nel 2007 Israele avrebbe distrutto il programma nucleare siriano, un’operazione – denominata “Huerto” – che Tel Aviv non ha mai riconosciuto).

Credo che le ragioni siano principalmente di sicurezza. Allo stesso modo, però, credo che Occidente e Israele siano renitenti ad accettare che il mondo è cambiato, ossia che ci sono nuovi attori che hanno accumulato potere e ne reclamano il riconoscimento, come è avvenuto per la Cina al principio degli anni Settanta: si tratta di una “consuetudine” nella storia delle relazioni internazionali (termine utilizzato da Jean B. Durosselle). Nonostante ciò, tale reclamo esige sensibili rinunce da parte di Teheran e dubito che queste rinunce vengano soddisfatte, almeno per il momento.

Alcuni esperti prevedono che si potrebbe vivere con un Iran nucleare. Tra questi, Martin van Creveld, un docente dell’Università Ebrea di Gerusalemme o lo stesso Kenneth Waltz, un prestigioso teorico del realismo nella politica tra stati.

6 – L’Iran è sottoposto a embargo da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, sempre a causa (ufficialmente) del suo programma nucleare. Quale è l’approccio dei Paesi sudamericani rispetto al problema?

Come lei sa, in America Latina non solo non ci sono potenze nucleari, ma con il Trattato di Tlateloco l’intera regione è stata dichiarata libera da queste. Per assicurare il compimento degli obblighi del Trattato, si è creata l’OPANAL, che è l’Organismo per la Proibizione delle Armi Nucleari in America Latina e nei Caraibi.

Ma la concezione dei Paesi dell’America Latina è che un concreto piano di denuclearizzazione debba essere portato avanti finché le diverse zone denuclearizzate non arrivino a coprire l’intera superficie terrestre; un proposito senza dubbio complesso e praticamente impossibile. Tuttavia, va evidenziata la volontà politica.

In tal senso, i Paesi latinoamericani non sono d’accordo con i programmi nucleari che implicano la militarizzazione, ma forniscono il loro appoggio ai Paesi che sviluppano programmi nucleari con fini civili (il Brasile, ad esempio, si è opposto a suo tempo alle sanzioni contro l’Iran approvate dal Consiglio di Sicurezza). Il punto è che esiste una sottile linea di demarcazione tra le due tipologie di programmi (militare e civile).

D’altra parte, in America Latina esistono governi che rifiutano le politiche unilaterali degli Stati Uniti come attore centrale dell’ordine internazionale; da questo punto di vista, “difendono” l’idea che un Paese, come l’Iran, per l’appunto, si schieri contro gli ostacoli allo sviluppo di un programma nucleare con fini civili che sono stati posti da altri attori interessati a mantenere le proprie “prerogative nucleari”. Si tratta di un tema molto delicato, ed anche in America Latina ci sono casi riguardanti progetti nucleari a fini civili, ma che, come giustamente sostiene la mia collega argentina Carolina Miscione, portano gli Stati promotori a realizzare programmi nucleari non civili o “ibridi”.

7 – Come è vista la Repubblica Islamica in Argentina? Quali rapporti intercorrono tra i due Paesi?

Bene, le relazioni commerciali tra i due Paesi sono cresciute, essendo l’Argentina la parte più favorita dagli stessi. A partire da alcuni settori il commercio bilaterale (1050 milioni di dollari nel 2012) è stato associato al recente accordo tra le autorità argentine ed iraniane. Io non credo che sia giusto. Quello del vantaggio economico mi sembra un argomento non solo debole, ma ingiustificato se ci fosse effettivamente l’Iran dietro all’attentato all’AMIA, del 1994.

Finora nessuno nel governo argentino è stato in grado di spiegare precisamente l’accordo. Ricordo che è stato firmato quest’anno, nel mese di gennaio e si propone di rivedere la causa; in questo senso, le autorità giudiziarie argentine possono “interrogare” (in Iran) gli indagati (alcuni dei quali ex alte autorità e attuali autorità) dell’attentato di Buenos Aires. E ‘altamente possibile che nulla si ottenga da tale accordo, che è stato ed è molto criticato in Argentina. Non c’è da stupirsi: è un patto privo della benché minima riflessione politico-strategica.

8 – Un Paese in grado di svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dei

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delicati equilibri mediorientali è indubbiamente la Turchia, la quale da qualche mese ha rispolverato un’aggressività piuttosto evidente che ha vanificato i risultati prodotti dalla linea politica volta ad avere “zero problemi coi vicini”. Come valuta le evoluzioni politiche che hanno interessato la Turchia di Recep Tayyp Erdogan? Quale è la natura del rapporto tra Turchia ed Israele?

Alla fine degli anni ‘90 la Turchia era considerata un “perno geopolitico”, cioè uno Stato dotato di “capacità di esternalità”: se il Paese si destabilizzava, diveniva altamente probabile che si destabilizzasse l’intera regione. Oggi la Turchia (che è membro dell’ONU) non è solamente un “perno geopolitico”, ma anche un “attore geostrategico”, ossia un Paese con capacità di progettare strategie di potere oltre i propri confini. In altre parole: è un attore che ha accumulato potere. La Turchia è stata peraltro proposta come un possibile modello (politico e religioso) per i Paesi arabi che recentemente hanno scosso il giogo dispotico; il fatto di portare alte nazioni ad emulare il proprio esempio è un chiaro esempio di “soft power”.

La politica estera volta da avere “zero problemi con i vicini” è animata da uno spirito lodevole ma non è semplice da portare avanti: la Turchia continua a non riconoscere il genocidio che i “Giovani Turchi” perpetrarono contro il popolo armeno nel 1915. E questo fu opera dell’autorità statale (prima, alla fine del XIX secolo, si erano già registrati altri massacri). D’altra parte, con la Siria si sono verificati casi di confronto militare, dal momento che il conflitto siriano si è “esternalizzato” verso l’estesa frontiera settentrionale condivisa con la Turchia; con Israele le relazioni si sono sensibilmente deteriorate dal violento incidente della nave “Mavi Marmara”. Spesso si trascurano le tradizionalmente buone relazioni che Israele e Turchia hanno mantenuto, relazioni che sono alla base, per esempio, degli scambi commerciali in materia di difesa, in particolare per quanto riguarda il settore delle forze aeree dei due Paesi; infine, i rapporti con la Grecia sono sempre condizionati a Cipro e alla rivalità per lo spazio marittimo. Anche con l’Arabia Saudita e l’Iran, la lotta per l’imposizione della propria influenza in spazi religiosi affini può generare pericolosi attriti.

Va infine sottolineato che la Turchia è stata segnalata come “modello da seguire” da parte dei Paesi in cui le “rivolte di strada” hanno posto fine alle satrapie. Oltre a ciò, sono da evidenziare i due emblemi della “modernizzazione” della Turchia in base ai quali si sostiene che il suo esempio possa essere seguito: da una parte, la separazione Stato-Chiesa; dall’altro l’influenza del fattore militare nella vita politica.

Quanto all’Europa, la sua visione generale riguardo alla Turchia non è stata molto brillante, dal momento che ha notevolmente sminuito l’importanza di un attore geopoliticamente sensibile, basti osservare una carta geografica per prendere atto della rilevante posizione strategica che occupa la Turchia. In breve, si tratta di un dato da tenere altamente in considerazione in relazione alla perdita di rilevanza strategica da parte dell’Europa.

*Dr. Alberto Hutschenreuter. è nato in Argentina, Posadas, Misiones nel 1959, è Laureato in Scienze Politiche, con un postgrado in Controllo e Gestione di Politiche Pubbliche. Gli è stato conferito il Titolo di Dottore di Ricerca in “Relazioni Internazionali” nella Università del Salvador. Effettuò un corso di Studi Superiore della Scuola di Difesa Nazionale. E’ stato Professore nella Università di Buenos Aires e attualmente è Professore titolare di Geopolitica nella Scuola Superiore di Guerra Aerea, inoltre è coordinatore dell’area Geopolitica nel Centro Argentino di Studi Internazionali. Le sue analisi concernono gli avvenimenti geopolitici contemporanei e della politica estera Russa nel XXI secolo…

 

*Giacomo Gabellini è responsabile della sezione Europa per il CESEM.

 

 

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